La riforma (1 e 2) che ha portato al superamento dell’OPG, ma non delle misure di sicurezza detentive, per gli autori di reato non imputabili, ha riproposto il tema dei Disturbi di Personalità sia in chiave di preoccupazione per l’estensione delle misure di sicurezza “psichiatriche” a delinquenti comuni con falsa patente psichiatrica, sia per l’ampliamento culturale e scientifico del concetto di personalità patologica come stato di infermità equiparabile agli altri quadri della nosografia psichiatrica. Se i Disturbi di Personalità siano un facile escamotage in mano ad avvocati agguerriti e periti compiacenti, per semi-assolvere criminali e consegnarli alla psichiatria, purgatorio della libertà, oppure uno stato disfunzionale della mente di grado equiparabile, per lo meno in certune circostanze, alle psicosi, è materia difficile, che non vorrò certo risolvere in questa sede. Ma vorrei proporre alcuni spunti di riflessione, molto basilari, per affrontare questa difficile materia. Li suggerisco in chiave aperta, come aree ove occorre una più ampia definizione, e soprattutto il consenso della comunità professionale e scientifica perché assumano valore di indicazioni.
Punto primo, il perito, consulente della Magistratura nelle diverse fasi del processo, è chiamato a stabilire, in materia penale, se le condizioni psichiche del reo al momento del fatto fossero tali da renderlo incapace di intendere e di volere, anche se quest’ultimo, il volere, ci appare sempre più il retaggio di una psicopatologia ottocentesca collocata nel contesto di valori morali e concetti giuridici antistorici. Quindi il primo punto da considerare è in che rapporto stia la gravità della condizione psichica diagnosticata, che è una condizione di tratto psicopatologico, con il fatto reato, avvenuto in un determinato e pregresso momento, che esprime invece una condizione di stato psicopatologico. Ne deriva che la gravità del disturbo in sé, l’ampiezza delle sintomatologia, della sofferenza soggettiva e della disfunzionalità sociale che sono i parametri sui quali valutiamo il peso dei disturbi mentali da un punto di vista clinico, non sia, in questo campo, di grande utilità. Disturbi di personalità gravissimi, sotto il profilo del funzionamento relazionale e sociale, non necessariamente determinano condizioni momentanee di infermità psichica rispetto alla capacità di intendere. E’ vero che questa impostazione sia stata più vote ribadita come il fondamento stesso della perizia, necessario per tutte le tipologie di disturbo mentale. Anche per la schizofrenia o per l’episodio maniacale, infatti dovrà essere accertata la dipendenza causale tra la condizione di infermità e la commissione del reato, ma i sintomi psicotici rendono più facile la diagnosi di un distacco dalla realtà con incapacità di comprendere nessi, conseguenze e disvalore delle proprie azioni.
Se non è la gravità clinica allora, ed è il secondo punto di questa riflessione, cosa deve accertare il perito nella fenomenologia dei DP per rispondere, eventualmente, in modo affermativo al quesito sull’incapacità di intendere? Certamente gli stati dissociativi e le psicosi transitorie, laddove si determinino condizioni del tutto affini per entità e caratteristiche alla sintomatologia psicotica. Le difficoltà dell’accertamento peritale, in questo, caso consiste nel fatto che le valutazioni sono generalmente di molto successive al fatto reato, e quindi la sintomatologia riscontrabile all’osservazione clinica è costituita dai tratti, e non dallo stato ormai storicizzato, ai quali si riferiscono gli eventi da valutare. Solo l’esame clinico retrospettivo, insieme alla dettagliata ricostruzione della sintomatologia e la specificazione, eventualmente, dei meccanismi di attivazione della dissociazione, i fattori traumatici di innesco di un forte stress, possono sostenere l’ipotesi della non imputabilità totale o parziale. Quest’ultima, da relegare nel limaccioso limbo delle ambiguità della normativa tenuta in vita da una psicopatologia forense compiacente.
In tutto questo che fine fa l’impulsività? Causa e soluzione di tutti i mali? Con il suo bagaglio di tautologici corollari “il paziente non controlla gli impulsi” è uno dei più visitati e vetusti luoghi comuni delle argomentazioni peritali. Attenzione, l’impulsività non è da proscrivere, ma il suo riscontro dovrà essere accompagnato, e descritto sul piano clinico fenomenologico, dall’analisi della specifica tipologia di pertinenza. Va quanto meno collocata in una delle tre aree definite dalla scala di Barrratt (3) : impulsività attentiva (deficit di focalizzazione), impulsività motoria (attivazione di un meccanismo compulsivo) o impulsività programmatoria (carenza della visione prospettica delle proprie azioni).
Infine aggiungerei, in coda a questa sintetica esposizione di temi che meritano altro spazio e possibilità di approfondimento, la questione dei percorsi di cura. Il nuovo assetto normativo ha cancellato la mancanza di risorse terapeutiche come fattore di valutazione della pericolosità sociale. Ovviamente l’intendimento del legislatore, ben lungi dal sottovalutare l’importanza della cura del reo non imputabile, come fattore di affrancamento dalla patologia e dalla recidiva, ha considerato piuttosto che l’inerzia dei servizi non debba essere alibi per il permanere dello stato di pericolosità sociale e della conseguente applicazione delle misure di sicurezza. Il Dipartimento di Salute Mentale è chiamato ad integrarsi nella perizia prospettando le soluzioni idonee “alla cura e al contenimento della pericolosità sociale”, che nella prassi del processo penale vengono sempre più di frequente associate dal Magistrato, in forma interrogativa, ai quesiti di fondo sull’imputabilità. E qui occorre un’ulteriore riflessione sull’idoneità delle soluzioni residenziali, che siano REMS oppure no, a curare i Disturbi di personalità a fronte dell’immensa letteratura che ha caratterizzato l’ospedalizzazione protratta, insieme ad ogni atra forma di trattamento residenziale, come iatrogena e aggravante il quadro psichico e comportamentale. E allora quali sono gli strumenti reali per la gestione del percorsi di cura dei pazienti con Disturbi Gravi di Personalità autori di reato? I servizi hanno la possibilità, e direi prima ancora la vocazione e il mandato, ad attivare percorsi di cura dedicati, specifici come indicato dal documento della conferenza stato regioni (4) per il trattamento dei Disturbi Gravi di Personalità?
Chiudo con una domanda perché la verifica sulla declinazione dei percorsi di cura della Salute Mentale è ancora in alto mare. Ma forse è meglio l’auspicio che detta verifica divenga presto materia di intervento per quelle stesse regioni che hanno approvato il documento.
(1) Legge 17 febbraio 2012, n. 9 Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, recante interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri.
(2) Legge 30 maggio 2014, n. 81 Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, recante disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
(3) Fossati A., Di Ceglie A, Acquarini E, Barrat ES, Psychometric Properties of an Italian Version of the Barratt Impulsiveness Scale-11 (BIS-11) in Nonclinical Subjects; Journal of Clinical Psychology Vol. 57(6), 815–828 (2001).
(4) Documento “Definizione dei percorsi di cura da attivare nei dipartimenti di salute mentale per i disturbi schizofrenici, i disturbi dell'umore e i disturbi gravi di personalità” approvato dalla Conferenza Stato Regioni Unificata il 13 novembre del 2014.
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