Segue da parte I “Basaglia e Genova” e parte II “Il corpo e il serpente”. Clicca qui per andare all’inizio
Proprio questa intenzionalità del soggetto è quanto la vecchia istituzione psichiatrica si sforza d’impedire, e la nuova, che dovrà costituirne il ribaltamento, opererà invece per favorire, avendo innanzitutto per finalità la “salvaguardia dei resti di un mondo privato”[i]. Essa rigetterà perciò la riduzione diagnostica della malattia e adotterà un approccio al problema nel quale la diagnosi (quella diagnosi che per Jaspers occulta più che rivelare) “ha e non ha peso”[ii], in ogni caso non ha un peso definitorio totalizzante e può anzi essere “messa tra parentesi” determinando quella epoché dei diversi inquadramenti diagnostici e dei diversi ruoli che sola permette la reciprocità indispensabile al passaggio da un incontro nello stile dell’istituzione, a uno nel senso che Binswanger e Sheler indicavano.
Trovo che una delle frasi più pericolose che mi sia capitato a volte di sentir ripetere nei luoghi della psichiatria (e, peraltro, anche nel carcere) è: «se è qui, evidentemente una ragione c’è». Talvolta questa frase è sostituita da un’altra, di senso simile: «da un melo, non nascono pere». Cioè a dire: se è matto, non puoi aspettarti da lui sorprese, nulla di interessante o di ragionevole, insomma. Credo invece che ciò che Basaglia intende dire chiedendo di mettere la diagnosi e i ruoli “tra parentesi” sia anche che in psichiatria ciascuno abbia diritto di essere accolto nell’incontro con un nuovo operatore come se questo rappresentasse la possibilità di un nuovo inizio da zero. E, forse oltre, che ogni malato abbia diritto anche a iniziare ogni nuovo incontro con lo stesso operatore come il principio di una nuova storia, nella quale ciascuno dei due non è lo stesso che si è incontrato con l’altro il giorno prima.
La comunità terapeutica che su questi principi potrà essere realizzata è dunque “basata su una intenzionalità comunitariamente vissuta”[iii], ed evoca per Basaglia l’originaria comunità indifferenziata dalla quale può emergere e stagliarsi il “corpo proprio” di ciascuno dei membri, la cui esistenza Husserl aveva ipotizzato a monte della comunicazione. E il medico e l’infermiere non devono, in questo contesto, sentirsi i “liberatori del malato”[iv], ma piuttosto sforzarsi di trovare attraverso di lui la propria libertà e autenticità, così che anch’egli possa a sua volta trovare le proprie attraverso di loro. Non i liberatori dunque, ma invece coloro che promuovono le condizioni perché egli stesso possa liberarsi, anche da loro e in dialettica con loro eventualmente; perché solo così sarà possibile evitare il problema rappresentato da quel carattere passivo dell’”essere liberato” (non meno a rischio di autoritarismo dell’essere invaso) che la favola del serpente ha messo in luce.
Mentre l’istituzione tradizionale ha quindi per fine il silenziamento dei sintomi e la stabilizzazione, e ha necessità per il proprio funzionamento di spogliare il malato dei resti del corpo proprio per poter disporre di corpi omologati e privi di autonoma intenzionalità – che, dal punto di vista dell’istituzione, fa disordine – la comunità terapeutica ha il fine opposto: creare le condizioni perché ciascuno ritrovi la propria intenzionalità (anche nella possibile forma dell’aggressività) garantendo così la possibilità di quella co-coscienza nella quale il corpo proprio può stagliarsi tra gli altri nella sua singolarità.
Nella vecchia istituzione la lotta disperata del malato per preservare, attraverso brandelli d’intenzionalità, la possibilità di essere e di sentirsi soggetto non poteva che avere la forma dell’acting-out, l’incidente che è destinato ad apparire allo sguardo dell’istituzione incomprensibile oscenità e disordine (Basaglia non lo dice qui, ma potremmo aggiungere: talvolta incomprensibile violenza)[v]. Ma che a uno sguardo antropologicamente orientato rivela invece la propria natura relazionale di essere, spesso, disperato tentativo di rompere l’oggettivazione e richiamare l’attenzione sulla propria singolarità e presenza (e perché no, sofferenza). Anche l’aggressività, come contrapposizione dialettica all’istituzione curante e allo psichiatra (anche al “buon psichiatra democratico”), l’infrazione delle regole sono dunque parte ineludibile della ricostruzione dell’intenzionalità e, in qualche misura, sono accolte come elementi necessari di un processo dialettico di ri-soggettivazione del quale protagonista non può che essere il soggetto stesso, e lo sarà nelle forme nelle quali gli è possibile. Il che, introduce nella concezione del ruolo psichiatrico che Basaglia qui esprime uno degli snodi più complessi e contraddittori, dove – sul polo del soggetto che cura – la dialettica si fa più stringente tra apertura di spazi per una possibile liberazione e permanere di una ineludibile funzione di controllo, assunzione e rifiuto del mandato sociale, attribuzione di fiducia e offerta (a volte imposizione) di protezione[vi]. Una dialettica che è – come per lo più accade nella particolare concezione che Basaglia ha di questo concetto e Rovatti in particolare mi pare aver colto[vii] – destinata a rimanere aperta, in tensione, priva della possibilità di trovare composizione e approdo in una sintesi, e che costituisce uno degli aspetti più faticosi di una nuova psichiatria che intenda collocarsi sotto il segno della libertà possibile senza però rinunciare alla propria responsabilità sul destino dell’altro.
Ricordo, a questo proposito, quando nello sforzo di trattare una condizione clinica che la psicopatologia classica definirebbe come stato maniacale cercando di evitare finché possibile il ricorso al ricovero obbligatorio, finimmo col perdere le tracce del malato. Ricordo l’angoscia condivisa con la famiglia dei giorni nei quali non se ne aveva notizia e le peripezie che è stato necessario affrontare per organizzarne il rimpatrio da un manicomio di una località balneare africana dove, allontanandosi dalla Liguria per un viaggio turistico, era finito dopo aver esaurito il denaro e aver dato ampia dimostrazione di comportamenti stravaganti. Credo che la storia professionale di tutti noi operatori della nuova psichiatria si sia arricchita negli anni di aneddoti del genere, di trattamenti che ci siamo sforzati di mantenere il più possibile in bilico sul filo estremo della libertà, dell’angoscia che abbiamo condiviso con le famiglie quando, per qualche tempo, del malato abbiamo perso le tracce in un mondo dai confini così vasti che non è certo più lo spazio bene o male chiuso del manicomio degli anni ’60, o all’opposto della spiacevole sensazione di essere ricorsi troppo precipitosamente agli strumenti della coazione quando, forse, si sarebbe potuto ancora aspettare e cercare di operare evitandola[viii].
E’ una dialettica, questa, che non si può quindi chiudere e ci mantiene in bilico tra l’ingenua rinuncia alla funzione curante di certa antipsichiatria che può avere l’effetto paradossale che la vita del malato possa svolgersi soltanto nel chiuso del manicomio in quanto unico luogo dove la follia può trovare libertà di espressione senza fare i conti con la realtà; e la pedagogia un po’ saputella, a rischio di diventare involontariamente umiliante, che caratterizza a volte i luoghi della nostra riabilitazione.
Accade così che in certe riunioni di un servizio riabilitativo h 24 – soprattutto quando sono vivacizzate dalla presenza di soggetti in situazioni che la psicopatologia classica descriverebbe come stato maniacale o tratti di personalità narcisistici, border-line, oppositivi – i pazienti esprimano le lamentazioni più varie: i servizi sono poco igienizzati, il cibo insufficiente, monotono, insapore, i medici li ascoltano poco, gli infermieri sono a volte sgarbati, i permessi di uscita sono dati con troppa ritrosia – ci vorrebbe maggiore fiducia – ecc. In una di queste occasioni, una donna isolata dal gruppo, apparentemente a se stante e assente, allucinata e sempre perplessa in quei giorni, ha chiesto la parola alzando il dito, come a scuola. Per lamentarsi a sua volta del fatto che un suo amico, il quale sedeva con gli occhi rossi e a testa bassa anch’egli intorno al tavolo, era triste perché il servizio territoriale aveva predisposto per lui un progetto che non ne teneva in conto il suo punto di vista, i timori, i desideri. L’uomo, in silenzio, annuiva ed era l’immagine dell’umiliazione e della tristezza, poi ha esposto i suoi timori e i suoi dubbi: di perdere del tutto l’autonomia e la libertà, di essere considerato ormai un vecchio, di essere diventato come un bamboccio in mano di altri, di essere definitivamente istituzionalizzato, di essere costretto a vivere isolato in mezzo ad altri vecchi, di finire in un “mortorio”.
Gli altri pazienti, che prima portavano le loro osservazioni in modo caotico, procedendo un po’ ognuno per suo conto, ora annuivano severi, ammutoliti. Evidentemente, prima della riunione avevano parlato tra loro del problema, il gruppo aveva “adottato” e condiviso i timori per il suo futuro di quell’uomo riservato, orgoglioso, taciturno; e lo aveva fatto in qualche modo anche quella donna che si sarebbe detta prigioniera della condizione che Bleuler avrebbe definito autistica, e si era proposta in riunione con semplicità ma fermezza come sua portavoce. Nessuno, in questi giorni, avrebbe sospettato in lei tanta possibilità di empatia con i sentimenti di un altro, e una capacità così lucida di dare voce alle proprie preoccupazioni e a quelle di quell’uomo, al cui destino evidentemente teneva. Offrendo alle persone la possibilità di dire la propria, capita anche che esse possano usare questa opportunità in un modo che sorprende.
Se si vogliono recepire queste espressioni di soggettività, ci può essere da discutere nei giorni successivi nello staff della struttura, può nascere la sensazione talvolta di reciproca incomprensione con i colleghi del servizio territoriale, ci può essere da negoziare con l’azienda, con le ditte appaltatrici delle pulizie e del vitto, può diventare necessario affrontare interlocuzioni faticose; su qualcosa si troverà che hanno ragione i pazienti, su qualcos’altro bisognerà sentire e proporre loro anche le ragioni degli altri. Ovunque la soggettività dialetticamente espressa dai pazienti dovrà fare i conti (sì, proprio: i conti!) con il budget che, in una società di mercato, infondo definisce il limite vero, materiale, d’esercizio della libertà e del desiderio di ciascuno, e anche i LEA concretamente esigibili. E alla riunione successiva, ci sarà da rendere conto e tornare a discutere.
Già, la “contestazione reciproca”… a volte che fatica!!!
Ma ne vale la pena. Non è, peraltro, che la riunione sia sempre così vitale e affettivamente intensa, che il gruppo dei pazienti sia sempre così capace di esprimere una dialettica con l’istituzione, beninteso; non è che la soggettività riesca sempre ad esprimersi così vivacemente. Spesso prevale invece un’imbarazzante riconoscenza. Ma quando va così, può essere faticoso, certo; ma credo che sarebbe bene che così andasse spesso.
Con Erling Eng, il fenomenologo americano con il quale collabora in quel momento su questi temi con riferimento a Erwin Straus, Basaglia sostiene avviandosi a concludere che la comunità, così intesa, starebbe nel “senso immediato dell’esperienza suddivisa”, cioè una comprensione afferrata immediatamente, a monte di ogni categoria, e quindi nella “co-coscienza, il legame preriflessivo che nasce direttamente dal fatto di essere-insieme”.
Il che significa, credo, attribuire un valore terapeutico proprio alla co-esistenza in se stessa, al puro e semplice autentico essere umanamente insieme, mettendo tra parentesi la posizione che ciascuno può occupare in una nosografia o in un organigramma.
Con il passaggio dal setting individuale alla comunità terapeutica, in altri termini, quell’unità dell’essere autenticamente insieme che l’incontro come inteso da Binswanger rappresentava per la coppia terapeutica, diventa quella del gruppo comunitario al quale insieme si partecipa.
Sul che, credo sia necessaria una digressione, perché questo passaggio in quel momento veniva dato quasi per scontato ma meriterebbe forse oggi di essere problematizzato in misura maggiore.
Perché, certo, Basaglia si trovava in quel momento ad operare all’interno di una comunità di fatto data a priori, quella formata dagli abitatori, a diverso titolo, dello spazio asilare.
In più, l’idea che la libertà del singolo si costruisca all’interno della partecipazione al gruppo era allora alla base del modello della comunità terapeutica, che aveva rappresentato in psichiatria, dal dopoguerra in poi, la novità più importante (importante almeno quanto la scoperta degli psicofarmaci), ed era all’interno di quel modello teorico che Basaglia, sia pure in modo critico, in quel momento stava lavorando.
Non solo: l’idea che la libertà non potesse che declinarsi all’interno della partecipazione era egemone anche in riferimento a scenari molto più vasti. E lo stesso testo di Davydov del quale Basaglia aveva citato l’inizio a proposito della favola del serpente, nel prosieguo[ix] discute infatti il problema della relazione tra libertà, lavoro, società con riferimento alla posizione antropologica espressa da Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca: «Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale (…). Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa»[x]. L’anno precedente, il 1966, del resto la Cina era stata sconquassata dalla Rivoluzione culturale e nell’anno successivo, 1968, in tutto il mondo la relazione tra personale e politico sarebbe divenuta il centro del discorso; la riproposizione, in varie forme, di questa ipotesi marxiana era in quel momento dunque egemone nella cultura e, in Italia, trovava poco dopo eco in una delle più note canzoni di Giorgio Gaber, per la quale: “Libertà è partecipazione” (1972-73).
Credo che la straordinaria diffusione che il modello della comunità terapeutica conobbe in quegli anni nel campo della salute mentale ma anche in quelli delle tossicodipendenze, o del trattamento criminologico o dell’educazione dei ragazzi, analogamente al successo delle psicoterapie di gruppo, debba essere riportato anche a quel clima generale.
Ma proprio le considerazioni dalle quali Basaglia era partito, forse, dovrebbero oggi – in una situazione nella quale la dimensione collettiva non è più per noi un punto di partenza come lo era nel manicomio, e del rapporto tra libertà e partecipazione siamo culturalmente più portati a considerare anche i possibili aspetti problematici – renderci più prudenti di fronte al rischio che, talvolta, anche la “buona comunità” possa rischiare di essere invadente e di comprimere quella possibilità di darsi e sottrarsi alla relazione, quell’intervallo indispensabile alla costruzione di sé e dell’alterità, anche se in modo diverso dal “cattivo manicomio”. Che talvolta anche la partecipazione a processi comunitari di guarigione possa tradursi nella “tirannia del noi” che può caratterizzare alcune offerte riabilitative, alle quali capita anche a volte che qualcuno preferisca nei momenti di crisi il clima più freddino e schizoide dell’ospedale civile. Così come altri, per la psicoterapia, possono faticare ad accettare i setting gruppali pretendendo un ascolto singolare, “privato”, “segreto” anche nell’ambito del servizio pubblico, con buona pace degli economisti sanitari che della cura di gruppo sono sempre entusiasti. E altri ancora possono incontrare difficoltà nell’accettare la convivenza con estranei che loro proponiamo, continuando a desiderare in cuor loro la libertà della “casa propria”. O si sottraggono alla dimensione forzatamente gruppale del centro diurno.
Insomma, è uno spunto di riflessione che voglio qui solo introdurre ma credo che – con un occhio anche al maligno pensiero antiutopico del Dostoëvskij de Il sogno di un uomo ridicolo – oggi, fuori dal manicomio, la relazione tra libertà e partecipazione possa essere data meno per scontata, soprattutto in relazione all’esperienza della sofferenza[xi]. Solitudine e comunità, isolamento e partecipazione, io e noi sono forse polarità tra le quali l’esistenza deve essere libera di oscillare, trovando nelle proposte di cura, come forse anche nella vita, un equilibrio che tenga conto con delicatezza e attenzione delle necessità di ciascuno e del loro cambiare lungo il tempo.
Non di meno, credo che "Corpo e istituzione" rappresenti uno dei più importanti tra gli scritti del primo volume nell'edizione di Einaudi, dei quali Eugenio Borgna dice che: «rappresentano una testimonianza grande del pensiero fenomenologico di Basaglia e un testo che ha una sua assoluta autonomia culturale e scientifica: un testo che ha sfidato, e sfiderà, il trascorrere del tempo. Cosa, questa, che contraddistingue pochi testi della psichiatria italiana»[xii].
E che le parole con le quali Basaglia conclude – precisando di utilizzare qui materiale teorico ancora in fieri al quale Eng e lui stesso stanno in quel momento lavorando[xiii] – rimangano particolarmente attuali per il nostro lavoro nelle istituzioni, i luoghi e le situazioni di cura. Sono parole che costituiscono il nucleo della deistituzionalizzazione delle relazioni che apre la possibilità di incontri autentici, nei quali la possibilità di intenzionare il mondo di ciascuno possa trovare nutrimento; parole sulle quali ognuno di noi professionisti della salute mentale dovrebbe interrogarsi ogni giorno prima dell’inizio del lavoro, con la cadenza della preghiera del mattino: «Una istituzione che intende essere terapeutica deve diventare una comunità che si fondi sull’interazione preriflessiva di tutti i suoi membri; dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo, o di chi dà e chi riceve; dove il malato non sia l’ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte; dove tutti i membri della comunità possano – attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni – ricostruire il proprio corpo proprio e il proprio ruolo»[xiv].
Trovo che una delle frasi più pericolose che mi sia capitato a volte di sentir ripetere nei luoghi della psichiatria (e, peraltro, anche nel carcere) è: «se è qui, evidentemente una ragione c’è». Talvolta questa frase è sostituita da un’altra, di senso simile: «da un melo, non nascono pere». Cioè a dire: se è matto, non puoi aspettarti da lui sorprese, nulla di interessante o di ragionevole, insomma. Credo invece che ciò che Basaglia intende dire chiedendo di mettere la diagnosi e i ruoli “tra parentesi” sia anche che in psichiatria ciascuno abbia diritto di essere accolto nell’incontro con un nuovo operatore come se questo rappresentasse la possibilità di un nuovo inizio da zero. E, forse oltre, che ogni malato abbia diritto anche a iniziare ogni nuovo incontro con lo stesso operatore come il principio di una nuova storia, nella quale ciascuno dei due non è lo stesso che si è incontrato con l’altro il giorno prima.
La comunità terapeutica che su questi principi potrà essere realizzata è dunque “basata su una intenzionalità comunitariamente vissuta”[iii], ed evoca per Basaglia l’originaria comunità indifferenziata dalla quale può emergere e stagliarsi il “corpo proprio” di ciascuno dei membri, la cui esistenza Husserl aveva ipotizzato a monte della comunicazione. E il medico e l’infermiere non devono, in questo contesto, sentirsi i “liberatori del malato”[iv], ma piuttosto sforzarsi di trovare attraverso di lui la propria libertà e autenticità, così che anch’egli possa a sua volta trovare le proprie attraverso di loro. Non i liberatori dunque, ma invece coloro che promuovono le condizioni perché egli stesso possa liberarsi, anche da loro e in dialettica con loro eventualmente; perché solo così sarà possibile evitare il problema rappresentato da quel carattere passivo dell’”essere liberato” (non meno a rischio di autoritarismo dell’essere invaso) che la favola del serpente ha messo in luce.
Mentre l’istituzione tradizionale ha quindi per fine il silenziamento dei sintomi e la stabilizzazione, e ha necessità per il proprio funzionamento di spogliare il malato dei resti del corpo proprio per poter disporre di corpi omologati e privi di autonoma intenzionalità – che, dal punto di vista dell’istituzione, fa disordine – la comunità terapeutica ha il fine opposto: creare le condizioni perché ciascuno ritrovi la propria intenzionalità (anche nella possibile forma dell’aggressività) garantendo così la possibilità di quella co-coscienza nella quale il corpo proprio può stagliarsi tra gli altri nella sua singolarità.
Nella vecchia istituzione la lotta disperata del malato per preservare, attraverso brandelli d’intenzionalità, la possibilità di essere e di sentirsi soggetto non poteva che avere la forma dell’acting-out, l’incidente che è destinato ad apparire allo sguardo dell’istituzione incomprensibile oscenità e disordine (Basaglia non lo dice qui, ma potremmo aggiungere: talvolta incomprensibile violenza)[v]. Ma che a uno sguardo antropologicamente orientato rivela invece la propria natura relazionale di essere, spesso, disperato tentativo di rompere l’oggettivazione e richiamare l’attenzione sulla propria singolarità e presenza (e perché no, sofferenza). Anche l’aggressività, come contrapposizione dialettica all’istituzione curante e allo psichiatra (anche al “buon psichiatra democratico”), l’infrazione delle regole sono dunque parte ineludibile della ricostruzione dell’intenzionalità e, in qualche misura, sono accolte come elementi necessari di un processo dialettico di ri-soggettivazione del quale protagonista non può che essere il soggetto stesso, e lo sarà nelle forme nelle quali gli è possibile. Il che, introduce nella concezione del ruolo psichiatrico che Basaglia qui esprime uno degli snodi più complessi e contraddittori, dove – sul polo del soggetto che cura – la dialettica si fa più stringente tra apertura di spazi per una possibile liberazione e permanere di una ineludibile funzione di controllo, assunzione e rifiuto del mandato sociale, attribuzione di fiducia e offerta (a volte imposizione) di protezione[vi]. Una dialettica che è – come per lo più accade nella particolare concezione che Basaglia ha di questo concetto e Rovatti in particolare mi pare aver colto[vii] – destinata a rimanere aperta, in tensione, priva della possibilità di trovare composizione e approdo in una sintesi, e che costituisce uno degli aspetti più faticosi di una nuova psichiatria che intenda collocarsi sotto il segno della libertà possibile senza però rinunciare alla propria responsabilità sul destino dell’altro.
Ricordo, a questo proposito, quando nello sforzo di trattare una condizione clinica che la psicopatologia classica definirebbe come stato maniacale cercando di evitare finché possibile il ricorso al ricovero obbligatorio, finimmo col perdere le tracce del malato. Ricordo l’angoscia condivisa con la famiglia dei giorni nei quali non se ne aveva notizia e le peripezie che è stato necessario affrontare per organizzarne il rimpatrio da un manicomio di una località balneare africana dove, allontanandosi dalla Liguria per un viaggio turistico, era finito dopo aver esaurito il denaro e aver dato ampia dimostrazione di comportamenti stravaganti. Credo che la storia professionale di tutti noi operatori della nuova psichiatria si sia arricchita negli anni di aneddoti del genere, di trattamenti che ci siamo sforzati di mantenere il più possibile in bilico sul filo estremo della libertà, dell’angoscia che abbiamo condiviso con le famiglie quando, per qualche tempo, del malato abbiamo perso le tracce in un mondo dai confini così vasti che non è certo più lo spazio bene o male chiuso del manicomio degli anni ’60, o all’opposto della spiacevole sensazione di essere ricorsi troppo precipitosamente agli strumenti della coazione quando, forse, si sarebbe potuto ancora aspettare e cercare di operare evitandola[viii].
E’ una dialettica, questa, che non si può quindi chiudere e ci mantiene in bilico tra l’ingenua rinuncia alla funzione curante di certa antipsichiatria che può avere l’effetto paradossale che la vita del malato possa svolgersi soltanto nel chiuso del manicomio in quanto unico luogo dove la follia può trovare libertà di espressione senza fare i conti con la realtà; e la pedagogia un po’ saputella, a rischio di diventare involontariamente umiliante, che caratterizza a volte i luoghi della nostra riabilitazione.
Accade così che in certe riunioni di un servizio riabilitativo h 24 – soprattutto quando sono vivacizzate dalla presenza di soggetti in situazioni che la psicopatologia classica descriverebbe come stato maniacale o tratti di personalità narcisistici, border-line, oppositivi – i pazienti esprimano le lamentazioni più varie: i servizi sono poco igienizzati, il cibo insufficiente, monotono, insapore, i medici li ascoltano poco, gli infermieri sono a volte sgarbati, i permessi di uscita sono dati con troppa ritrosia – ci vorrebbe maggiore fiducia – ecc. In una di queste occasioni, una donna isolata dal gruppo, apparentemente a se stante e assente, allucinata e sempre perplessa in quei giorni, ha chiesto la parola alzando il dito, come a scuola. Per lamentarsi a sua volta del fatto che un suo amico, il quale sedeva con gli occhi rossi e a testa bassa anch’egli intorno al tavolo, era triste perché il servizio territoriale aveva predisposto per lui un progetto che non ne teneva in conto il suo punto di vista, i timori, i desideri. L’uomo, in silenzio, annuiva ed era l’immagine dell’umiliazione e della tristezza, poi ha esposto i suoi timori e i suoi dubbi: di perdere del tutto l’autonomia e la libertà, di essere considerato ormai un vecchio, di essere diventato come un bamboccio in mano di altri, di essere definitivamente istituzionalizzato, di essere costretto a vivere isolato in mezzo ad altri vecchi, di finire in un “mortorio”.
Gli altri pazienti, che prima portavano le loro osservazioni in modo caotico, procedendo un po’ ognuno per suo conto, ora annuivano severi, ammutoliti. Evidentemente, prima della riunione avevano parlato tra loro del problema, il gruppo aveva “adottato” e condiviso i timori per il suo futuro di quell’uomo riservato, orgoglioso, taciturno; e lo aveva fatto in qualche modo anche quella donna che si sarebbe detta prigioniera della condizione che Bleuler avrebbe definito autistica, e si era proposta in riunione con semplicità ma fermezza come sua portavoce. Nessuno, in questi giorni, avrebbe sospettato in lei tanta possibilità di empatia con i sentimenti di un altro, e una capacità così lucida di dare voce alle proprie preoccupazioni e a quelle di quell’uomo, al cui destino evidentemente teneva. Offrendo alle persone la possibilità di dire la propria, capita anche che esse possano usare questa opportunità in un modo che sorprende.
Se si vogliono recepire queste espressioni di soggettività, ci può essere da discutere nei giorni successivi nello staff della struttura, può nascere la sensazione talvolta di reciproca incomprensione con i colleghi del servizio territoriale, ci può essere da negoziare con l’azienda, con le ditte appaltatrici delle pulizie e del vitto, può diventare necessario affrontare interlocuzioni faticose; su qualcosa si troverà che hanno ragione i pazienti, su qualcos’altro bisognerà sentire e proporre loro anche le ragioni degli altri. Ovunque la soggettività dialetticamente espressa dai pazienti dovrà fare i conti (sì, proprio: i conti!) con il budget che, in una società di mercato, infondo definisce il limite vero, materiale, d’esercizio della libertà e del desiderio di ciascuno, e anche i LEA concretamente esigibili. E alla riunione successiva, ci sarà da rendere conto e tornare a discutere.
Già, la “contestazione reciproca”… a volte che fatica!!!
Ma ne vale la pena. Non è, peraltro, che la riunione sia sempre così vitale e affettivamente intensa, che il gruppo dei pazienti sia sempre così capace di esprimere una dialettica con l’istituzione, beninteso; non è che la soggettività riesca sempre ad esprimersi così vivacemente. Spesso prevale invece un’imbarazzante riconoscenza. Ma quando va così, può essere faticoso, certo; ma credo che sarebbe bene che così andasse spesso.
Con Erling Eng, il fenomenologo americano con il quale collabora in quel momento su questi temi con riferimento a Erwin Straus, Basaglia sostiene avviandosi a concludere che la comunità, così intesa, starebbe nel “senso immediato dell’esperienza suddivisa”, cioè una comprensione afferrata immediatamente, a monte di ogni categoria, e quindi nella “co-coscienza, il legame preriflessivo che nasce direttamente dal fatto di essere-insieme”.
Il che significa, credo, attribuire un valore terapeutico proprio alla co-esistenza in se stessa, al puro e semplice autentico essere umanamente insieme, mettendo tra parentesi la posizione che ciascuno può occupare in una nosografia o in un organigramma.
Con il passaggio dal setting individuale alla comunità terapeutica, in altri termini, quell’unità dell’essere autenticamente insieme che l’incontro come inteso da Binswanger rappresentava per la coppia terapeutica, diventa quella del gruppo comunitario al quale insieme si partecipa.
Sul che, credo sia necessaria una digressione, perché questo passaggio in quel momento veniva dato quasi per scontato ma meriterebbe forse oggi di essere problematizzato in misura maggiore.
Perché, certo, Basaglia si trovava in quel momento ad operare all’interno di una comunità di fatto data a priori, quella formata dagli abitatori, a diverso titolo, dello spazio asilare.
In più, l’idea che la libertà del singolo si costruisca all’interno della partecipazione al gruppo era allora alla base del modello della comunità terapeutica, che aveva rappresentato in psichiatria, dal dopoguerra in poi, la novità più importante (importante almeno quanto la scoperta degli psicofarmaci), ed era all’interno di quel modello teorico che Basaglia, sia pure in modo critico, in quel momento stava lavorando.
Non solo: l’idea che la libertà non potesse che declinarsi all’interno della partecipazione era egemone anche in riferimento a scenari molto più vasti. E lo stesso testo di Davydov del quale Basaglia aveva citato l’inizio a proposito della favola del serpente, nel prosieguo[ix] discute infatti il problema della relazione tra libertà, lavoro, società con riferimento alla posizione antropologica espressa da Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca: «Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale (…). Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa»[x]. L’anno precedente, il 1966, del resto la Cina era stata sconquassata dalla Rivoluzione culturale e nell’anno successivo, 1968, in tutto il mondo la relazione tra personale e politico sarebbe divenuta il centro del discorso; la riproposizione, in varie forme, di questa ipotesi marxiana era in quel momento dunque egemone nella cultura e, in Italia, trovava poco dopo eco in una delle più note canzoni di Giorgio Gaber, per la quale: “Libertà è partecipazione” (1972-73).
Credo che la straordinaria diffusione che il modello della comunità terapeutica conobbe in quegli anni nel campo della salute mentale ma anche in quelli delle tossicodipendenze, o del trattamento criminologico o dell’educazione dei ragazzi, analogamente al successo delle psicoterapie di gruppo, debba essere riportato anche a quel clima generale.
Ma proprio le considerazioni dalle quali Basaglia era partito, forse, dovrebbero oggi – in una situazione nella quale la dimensione collettiva non è più per noi un punto di partenza come lo era nel manicomio, e del rapporto tra libertà e partecipazione siamo culturalmente più portati a considerare anche i possibili aspetti problematici – renderci più prudenti di fronte al rischio che, talvolta, anche la “buona comunità” possa rischiare di essere invadente e di comprimere quella possibilità di darsi e sottrarsi alla relazione, quell’intervallo indispensabile alla costruzione di sé e dell’alterità, anche se in modo diverso dal “cattivo manicomio”. Che talvolta anche la partecipazione a processi comunitari di guarigione possa tradursi nella “tirannia del noi” che può caratterizzare alcune offerte riabilitative, alle quali capita anche a volte che qualcuno preferisca nei momenti di crisi il clima più freddino e schizoide dell’ospedale civile. Così come altri, per la psicoterapia, possono faticare ad accettare i setting gruppali pretendendo un ascolto singolare, “privato”, “segreto” anche nell’ambito del servizio pubblico, con buona pace degli economisti sanitari che della cura di gruppo sono sempre entusiasti. E altri ancora possono incontrare difficoltà nell’accettare la convivenza con estranei che loro proponiamo, continuando a desiderare in cuor loro la libertà della “casa propria”. O si sottraggono alla dimensione forzatamente gruppale del centro diurno.
Insomma, è uno spunto di riflessione che voglio qui solo introdurre ma credo che – con un occhio anche al maligno pensiero antiutopico del Dostoëvskij de Il sogno di un uomo ridicolo – oggi, fuori dal manicomio, la relazione tra libertà e partecipazione possa essere data meno per scontata, soprattutto in relazione all’esperienza della sofferenza[xi]. Solitudine e comunità, isolamento e partecipazione, io e noi sono forse polarità tra le quali l’esistenza deve essere libera di oscillare, trovando nelle proposte di cura, come forse anche nella vita, un equilibrio che tenga conto con delicatezza e attenzione delle necessità di ciascuno e del loro cambiare lungo il tempo.
Non di meno, credo che "Corpo e istituzione" rappresenti uno dei più importanti tra gli scritti del primo volume nell'edizione di Einaudi, dei quali Eugenio Borgna dice che: «rappresentano una testimonianza grande del pensiero fenomenologico di Basaglia e un testo che ha una sua assoluta autonomia culturale e scientifica: un testo che ha sfidato, e sfiderà, il trascorrere del tempo. Cosa, questa, che contraddistingue pochi testi della psichiatria italiana»[xii].
E che le parole con le quali Basaglia conclude – precisando di utilizzare qui materiale teorico ancora in fieri al quale Eng e lui stesso stanno in quel momento lavorando[xiii] – rimangano particolarmente attuali per il nostro lavoro nelle istituzioni, i luoghi e le situazioni di cura. Sono parole che costituiscono il nucleo della deistituzionalizzazione delle relazioni che apre la possibilità di incontri autentici, nei quali la possibilità di intenzionare il mondo di ciascuno possa trovare nutrimento; parole sulle quali ognuno di noi professionisti della salute mentale dovrebbe interrogarsi ogni giorno prima dell’inizio del lavoro, con la cadenza della preghiera del mattino: «Una istituzione che intende essere terapeutica deve diventare una comunità che si fondi sull’interazione preriflessiva di tutti i suoi membri; dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo, o di chi dà e chi riceve; dove il malato non sia l’ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte; dove tutti i membri della comunità possano – attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni – ricostruire il proprio corpo proprio e il proprio ruolo»[xiv].
[i] Ibidem, pp. 438-439.
[ii] Ibidem, p. 439.
[iii] F. Basaglia (1967), Corpo e istituzione… cit., p.. 437.
[iv] E l’istituzione non deve perciò trasformarsi in un “ridente asilo di servi riconoscenti” (F. Basaglia [1964], La distruzione dell’ospedale psichiatrico… cit., pp. 256-257). E su ciò si dovrebbe lungamente riflettere, a proposito di tante strutture della nostra riabilitazione (una delle quali, non necessariamente peggiore di altre, nella nostra regione porta però l’imbarazzante denominazione di “Villa ridente”). Sul punto della necessità di un passaggio ad una posizione antagonista, anche verso lo psichiatra, da parte del malato perché la sua liberazione sia realmente tale Basaglia si era già soffermato in un’occasione precedente, in cui tra l’altro ricordava tra coloro che come lui si erano trovati nell’impossibilità di organizzare dall’alto una liberazione dei malati per la quale solo essi stessi avrebbero potuto lottare, oltre a Barton e Goffman, Alfred H. Stanton e Morris S. Schwartz – autori nel 1954 di The mental hospital: a study of institutional participation in psychiatric illness and treatment – Denis V. Martin, autore su Lancet del 1955di un articolo sull’istituzionalizzazione, ai sociologi Robert Kahn e Abraham Kaplan (cfr. Basaglia F. (1965). Potere ed istituzionalizzazione… cit., pp. 292-293). Sulla relazione tra aggressività, disciplina, liberazione si ripensi anche al primo esperimento di Nothfield che ha visto protagonista il giovane Bion (T. Main [1983], La Comunità Terapeutica e altri saggi psicoanalitici, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992).
[v] Sul punto si veda, con maggiore chiarezza: F. Basaglia (1964), La distruzione dell’ospedale psichiatrico… cit., pp. 255-257.
[vi] Sulla questione del ruolo nella nuova istituzione psichiatrica, ricordo il contributo personale: P.F. Peloso, Architetture della perfezione e spazi di vita, in: Comunità: natura, cultura … terapia (a cura di C. Conforto, G. Giusto, P. Pisseri, G. Berruti), Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 80-130.
[vii] Su questi punti insiste ripetutamente Rovatti, nel testo già citato: Restituire la soggettività…
[viii] Cfr. in questa stessa rubrica: P.F. Peloso, La coazione va sempre evitata. Relazione al Congresso annuale PSIVE 2016. Parte I: Della coazione in psichiatria: premesse, POL. it., 16 maggio 2016 (clicca qui per il link).
[ix] In particolare: pp. 132-133.
[x] K. Marx, F. Engels (1845-46), L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 54-55.
[xi] Penso ad esempio in proposito a: C. Conforto: Osservazioni in margine a “Il cantiere delle idee” suggerite dalle fotografie di Giorgio Bergami, in: C. Schinaia, l cantiere delle idee. Le feste nell’ex Ospedale Psichiatrico di Cogoleto, Genova, La Clessidra, 2000, pp. 79-82.
[xii] E. Borgna, Franco Basaglia e la psichiatria italiana, Psichiatria oggi, XIII, n. 1, 1980, pp. 1 e 8-10 (p. 9).
[xiii] Non mi è stato possibile rintracciare il saggio al quale, secondo Basaglia, Eng stava in quel momento lavorando. Di Eng, veniva invece pubblicato nell’autunno dello stesso anno un saggio sugli studi recenti sul rapporto tra disturbi individuali e strutture sociali del potere e della comunicazione, con riferimenti a Laing ed Esterson, Bateson, oltre allo psichiatra finlandese Martti Olava Siirala e ai francesi Joseph Gabel e Foucault e a Herbert Marcuse, Norman O. Brown e Bruno Bettelheim. Il testo costituisce soprattutto un report del Congresso per la dialettica della liberazione, organizzato da Laing e Cooper a Londra nel luglio di quell’anno col patrocinio dell’Istituto per gli studi fenomenologici, ispirato soprattutto a Sartre, al quale intervennero Cooper, Laing, Bateson, Stokely Carlichael – con un intervento sulla condizione coloniale degli afroamericani negli Stati Uniti ispirato a Fanon – e poi l’antropologo Jules Henry, il giornalista John Gerassi, seguace di Che Guevara, l’economista Paul Sweezy, lo psichiatra della famiglia Ross Speak, lo scrittore Paul Goodman, la cui critica della società americana e del suo atteggiamento verso lo straniero sembrerebbe oggi riguardare l’America di Trump, e poi ancora i filosofi marxisti Lucien Goldmann e Gayo Petrovic, per chiudere con Marcuse. Tra gli autori più citati, oltre Marx, molti i francofoni: Sartre, Fanon, Artaud, Gabel, Breton e Fourier, recuperato da Marcuse. Anche se non strettamente attinente ai temi evocati da Basaglia, questo breve testo ha il pregio di offrirci una sintesi del contesto politico-culturale nel quale il lavoro di questo, non tanto noto oggi, partner intellettuale di Basaglia – e infondo di Basaglia stesso – in quel 1967 si colloca (cfr. E. Eng, Beyond psychiatry?, The Hudson Review, XX, n. 3, 1967, pp. 469-472.
[xiv] F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione… cit., p. 441.
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