TUTTO QUA? L’orrida noia che assale e uccide. Solo le donne possono salvare gli artisti, soprattutto quelle brutte
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 15 marzo 2017
È appena trascorsa la Festa della Donna, la vera politica, la regina della Polis, e colei che per l’occasione è venuta a trovarmi è la signora di Rênal, immortale per la sua passione amorosa verso il rossonero Julien e, soprattutto, per la celebre frase che il mascalzoncello in cuor suo macina uscendo dalla di lei profanata stanza: “Dio mio, essere felice, essere amato, non è dunque altro che questo?”. Julien si lascia sfuggire questa bestemmia dopo ore e ore di eros consumate nel letto nuziale. È già qualcosa per un ragazzetto senza arte né parte, allora Julien, dopo che hai assaggiato tanta gloria, perché sprezzante ti dici “tutto qua?”. Sciagurato ragazzo, come puoi disprezzare una notte con una donna, una che te la sogni, una che adora i suoi cari figlioli e per amor tuo li trascura, una che è pronta a darti la vita e tutto il resto? Vergognati, non meriti niente, niente meritate, stronzetti di ogni epoca. “Tutto qua?”. Sì, se l’unica cosa che ti attrae è la morte, e l’avrai, anche se neppure la morte sembrerà piacerti più di tanto, insaziabile ragazzo.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/03/15/news/tutto-qua-125249/
È appena trascorsa la Festa della Donna, la vera politica, la regina della Polis, e colei che per l’occasione è venuta a trovarmi è la signora di Rênal, immortale per la sua passione amorosa verso il rossonero Julien e, soprattutto, per la celebre frase che il mascalzoncello in cuor suo macina uscendo dalla di lei profanata stanza: “Dio mio, essere felice, essere amato, non è dunque altro che questo?”. Julien si lascia sfuggire questa bestemmia dopo ore e ore di eros consumate nel letto nuziale. È già qualcosa per un ragazzetto senza arte né parte, allora Julien, dopo che hai assaggiato tanta gloria, perché sprezzante ti dici “tutto qua?”. Sciagurato ragazzo, come puoi disprezzare una notte con una donna, una che te la sogni, una che adora i suoi cari figlioli e per amor tuo li trascura, una che è pronta a darti la vita e tutto il resto? Vergognati, non meriti niente, niente meritate, stronzetti di ogni epoca. “Tutto qua?”. Sì, se l’unica cosa che ti attrae è la morte, e l’avrai, anche se neppure la morte sembrerà piacerti più di tanto, insaziabile ragazzo.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/03/15/news/tutto-qua-125249/
CASTELLITTO, IN TREATMENT UN DIVERTIMENTO DA PAZZI. 3a e ultima serie da 25/3 su Sky Atlantic Hd e Sky Cinema Uno Hd
di Francesca Pierleoni, ansa.it, 16 marzo 2017
Nell’interpretare Giovanni Mari “mi sono divertito come un pazzo, pur affondando le mani nel dolore e nell’autenticità”. Lo dice Sergio Castellitto parlando della terza e ultima stagione di ‘In Treatment’, la serie diretta da Saverio Costanzo ed Edoardo Gabbriellini, in onda dal 25 marzo ogni sabato con cinque nuovi episodi in esclusiva su Sky Atlantic Hd e Sky Cinema Uno Hd dalle 21,15. Peccato ”sia l’ultimo anno ma la forza di In Treatment è proprio che si concluda, mentre la psicoanalisi è un percorso che non finisce mai” aggiunge l’attore (presto in sala come attore in Piccoli crimini coniugali e da regista con Fortunata, in lizza, secondo Screen Daily per Cannes, ndr) che definisce il suo personaggio nella terza stagione “a pezzi… Ancora più umano”. Anche a Costanzo (che sta ora preparando The Neapolitan novels serie dalla saga de L’amica geniale di Elena Ferrante, ndr) ”come regista e da appassionato spettatore dispiace che la serie si concluda ma questa è la sua fine naturale”. L’idea di terminare In treatment, prodotta in Italia da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside, sottolinea Nils Hartmann direttore delle produzioni originali di Sky, è stata ”di pancia
Segue qui:
http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/tv/2017/03/15/castellitto-in-treatment-roba-da-pazzi_3e3b6349-7a08-4341-b24c-6d1b14db6e19.html
Nell’interpretare Giovanni Mari “mi sono divertito come un pazzo, pur affondando le mani nel dolore e nell’autenticità”. Lo dice Sergio Castellitto parlando della terza e ultima stagione di ‘In Treatment’, la serie diretta da Saverio Costanzo ed Edoardo Gabbriellini, in onda dal 25 marzo ogni sabato con cinque nuovi episodi in esclusiva su Sky Atlantic Hd e Sky Cinema Uno Hd dalle 21,15. Peccato ”sia l’ultimo anno ma la forza di In Treatment è proprio che si concluda, mentre la psicoanalisi è un percorso che non finisce mai” aggiunge l’attore (presto in sala come attore in Piccoli crimini coniugali e da regista con Fortunata, in lizza, secondo Screen Daily per Cannes, ndr) che definisce il suo personaggio nella terza stagione “a pezzi… Ancora più umano”. Anche a Costanzo (che sta ora preparando The Neapolitan novels serie dalla saga de L’amica geniale di Elena Ferrante, ndr) ”come regista e da appassionato spettatore dispiace che la serie si concluda ma questa è la sua fine naturale”. L’idea di terminare In treatment, prodotta in Italia da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside, sottolinea Nils Hartmann direttore delle produzioni originali di Sky, è stata ”di pancia
Segue qui:
http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/tv/2017/03/15/castellitto-in-treatment-roba-da-pazzi_3e3b6349-7a08-4341-b24c-6d1b14db6e19.html
L’APOLOGIA DI REATO E LA LIBERTÀ DI PAROLA
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 17 marzo 2017
Un ristoratore a Lodi ha reagito a un tentativo di furto nel suo locale, sparando ai ladri e uccidendone uno, colpito alle spalle. Dopo una colluttazione, i ladri stavano abbandonando la loro impresa criminale. L’avvocato dell’uccisore, indagato per omicidio volontario, gli ha consigliato, con prudenza che sa di giurisprudenza, di dichiararsi costernato per l’accaduto. Atto propedeutico a definire non intenzionale l’atto omicida, a riferirlo alla particolarità del suo stato emotivo: lo shock per l’aggressione ai suoi beni avrebbe interferito con la sua valutazione della situazione offuscandola.
Il legale ha cercato di circoscrivere la difesa del suo cliente nell’ambito delle possibilità consentite dalla legge: l’omicidio preterintenzionale e l’eccesso di legittima difesa. Ai giudici la responsabilità di stabilire la definizione del reato e la pena giusta. Matteo Salvini, che della legge se ne sbatte allegramente -visto che gli è, altrettanto allegramente, concesso- è di un altro avviso. Per lui la giustizia si amministra in piazza nei suoi comizi. Uccidere un ladro disarmato, che non costituisce un pericolo per la nostra vita, è, secondo il codice penale leghista, “legittima difesa”. Un’impresa encomiabile, non un atto legalmente punibile.
Le affermazioni di Salvini (che si è fatto fotografare trionfante con il ristoratore dopo l’omicidio) non sono un’interpretazione palesemente fallace della legge: si costituiscono come apologia di reato, rappresentano un’istigazione all’omicidio indiscriminato, a una pena di morte amministrata personalmente nei confronti di chi minaccia la nostra proprietà privata. Solo se si tratta di un immigrato, questo va da sé.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6696
Un ristoratore a Lodi ha reagito a un tentativo di furto nel suo locale, sparando ai ladri e uccidendone uno, colpito alle spalle. Dopo una colluttazione, i ladri stavano abbandonando la loro impresa criminale. L’avvocato dell’uccisore, indagato per omicidio volontario, gli ha consigliato, con prudenza che sa di giurisprudenza, di dichiararsi costernato per l’accaduto. Atto propedeutico a definire non intenzionale l’atto omicida, a riferirlo alla particolarità del suo stato emotivo: lo shock per l’aggressione ai suoi beni avrebbe interferito con la sua valutazione della situazione offuscandola.
Il legale ha cercato di circoscrivere la difesa del suo cliente nell’ambito delle possibilità consentite dalla legge: l’omicidio preterintenzionale e l’eccesso di legittima difesa. Ai giudici la responsabilità di stabilire la definizione del reato e la pena giusta. Matteo Salvini, che della legge se ne sbatte allegramente -visto che gli è, altrettanto allegramente, concesso- è di un altro avviso. Per lui la giustizia si amministra in piazza nei suoi comizi. Uccidere un ladro disarmato, che non costituisce un pericolo per la nostra vita, è, secondo il codice penale leghista, “legittima difesa”. Un’impresa encomiabile, non un atto legalmente punibile.
Le affermazioni di Salvini (che si è fatto fotografare trionfante con il ristoratore dopo l’omicidio) non sono un’interpretazione palesemente fallace della legge: si costituiscono come apologia di reato, rappresentano un’istigazione all’omicidio indiscriminato, a una pena di morte amministrata personalmente nei confronti di chi minaccia la nostra proprietà privata. Solo se si tratta di un immigrato, questo va da sé.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6696
LO PSICANALISTA LUIGI ZOJA A HUFFPOST: “IL NOVECENTO È PIENO DI PADRI TERRIBILI E OGGI SONO EVANESCENTI”
di Nicola Mirenzi, huffingtonpost.it, 19 marzo 2017
Più che tornare alla Prima Repubblica, la politica italiana sta “regredendo alla logica dell’orda, dove branchi rivali si accordano e si sbranano tra loro, senza tener conto di ciò che accadrà dopo. Ci vorrebbe un nuovo Monti, che, invece di accudire le nostre pulsioni come una madre, abbia il coraggio di essere impopolare, imponendoci nuovi sacrifici”. Scuola junghiana, Luigi Zoja è uno di quegli psicoanalisti che si muovono nelle profondità degli archetipi, decifrando il linguaggio dei simboli e della mitologia, in un territorio – quello dell’inconscio collettivo – che sta sta sempre al confine con la dimensione pubblica. Qualche anno fa scrisse un libro sulla scomparsa del padre – “Il gesto di Ettore” (Bollati Boringhieri) – che è diventato un classico sull’argomento. Tradotto in dodici lingue, ha mostrato la relazione che c’è tra l’evaporazione della figura paterna – con la sua solidità e la difesa della norma – e il tramonto dell’Occidente. E oggi che l’Italia celebra la festa del papà lo consultiamo per capire cosa abbiamo da festeggiare.
Lei che padre ha avuto?
Un persona molto dolce, non un patriarca tradizionale. Con lui, non c’è stata alcuna difficoltà, nessun trauma. E questo è il problema.
Cioè?
La commercializzazione del complesso di Edipo ha esagerato la leggenda della rivalità tra il padre e il figlio. In realtà, nella famiglia tradizionale il padre è evanescente, e non si può avere uno scontro con qualcuno che non c’è.
Lei l’ha molto (ri)cercato, il padre.
Ho studiato economia perché prima mio nonno, poi mio padre, gestivano una piccola azienda: mi sentivo in dovere di ereditarla e proseguire questa linea maschile. Mio padre, però, non non aveva il temperamento per fare l’imprenditore. Capivo la sua insoddisfazione. E per evitare la mia, mi sono diretto altrove, cominciando con una tesi in sociologia su Charles Wright Mills, uno strano marxista americano.
Erano gli anni della più grande contestazione al padre, gli anni del sessantotto.
In Francia, gli studenti cantavano: “Il padre puzza”. E io sono uscito da un corteo il giorno in cui ho sentito urlare: “Padroni! Borghesi! Ancora pochi mesi!”. Mi sentivo profondamente a disagio. Non avevo nessuna voglia di far fuori mio padre. E anche io volevo vivere: ero consapevole di essere un borghese.
Molti lo erano.
C’era già troppa violenza. Ho sentito arrivare le Brigate Rosse da lontano e mi sono spaventato. Quando tutti si impegnavano, mi sono ritirato allo Jung Institute di Zurigo a studiare. Ma ho trovato un sessantotto anche lì.
Quale?
Gli americani arrivavano la con la marijuana e i libri di Herman Hesse nello zaino. Si fermavano un semestre e poi proseguivano per l’India in autostop. Sperimentavamo LSD. Anche io l’ho fatto, con un collega psichiatra pronto a iniettarmi il valium in caso fossi andato a finire in un bad trip, un brutto viaggio.
E cosa ha scoperto?
Che c’è un tale ribollire di fantasia e irrazionalità nei sogni che facciamo ogni notte che è inutile stimolarle chimicamente. E che c’era, sotto il codice della ribellione, un uso delle droghe consumistico.
Segue qui:
http://www.huffingtonpost.it/2017/03/19/zoja-padri-novecento_n_15466188.html
Più che tornare alla Prima Repubblica, la politica italiana sta “regredendo alla logica dell’orda, dove branchi rivali si accordano e si sbranano tra loro, senza tener conto di ciò che accadrà dopo. Ci vorrebbe un nuovo Monti, che, invece di accudire le nostre pulsioni come una madre, abbia il coraggio di essere impopolare, imponendoci nuovi sacrifici”. Scuola junghiana, Luigi Zoja è uno di quegli psicoanalisti che si muovono nelle profondità degli archetipi, decifrando il linguaggio dei simboli e della mitologia, in un territorio – quello dell’inconscio collettivo – che sta sta sempre al confine con la dimensione pubblica. Qualche anno fa scrisse un libro sulla scomparsa del padre – “Il gesto di Ettore” (Bollati Boringhieri) – che è diventato un classico sull’argomento. Tradotto in dodici lingue, ha mostrato la relazione che c’è tra l’evaporazione della figura paterna – con la sua solidità e la difesa della norma – e il tramonto dell’Occidente. E oggi che l’Italia celebra la festa del papà lo consultiamo per capire cosa abbiamo da festeggiare.
Lei che padre ha avuto?
Un persona molto dolce, non un patriarca tradizionale. Con lui, non c’è stata alcuna difficoltà, nessun trauma. E questo è il problema.
Cioè?
La commercializzazione del complesso di Edipo ha esagerato la leggenda della rivalità tra il padre e il figlio. In realtà, nella famiglia tradizionale il padre è evanescente, e non si può avere uno scontro con qualcuno che non c’è.
Lei l’ha molto (ri)cercato, il padre.
Ho studiato economia perché prima mio nonno, poi mio padre, gestivano una piccola azienda: mi sentivo in dovere di ereditarla e proseguire questa linea maschile. Mio padre, però, non non aveva il temperamento per fare l’imprenditore. Capivo la sua insoddisfazione. E per evitare la mia, mi sono diretto altrove, cominciando con una tesi in sociologia su Charles Wright Mills, uno strano marxista americano.
Erano gli anni della più grande contestazione al padre, gli anni del sessantotto.
In Francia, gli studenti cantavano: “Il padre puzza”. E io sono uscito da un corteo il giorno in cui ho sentito urlare: “Padroni! Borghesi! Ancora pochi mesi!”. Mi sentivo profondamente a disagio. Non avevo nessuna voglia di far fuori mio padre. E anche io volevo vivere: ero consapevole di essere un borghese.
Molti lo erano.
C’era già troppa violenza. Ho sentito arrivare le Brigate Rosse da lontano e mi sono spaventato. Quando tutti si impegnavano, mi sono ritirato allo Jung Institute di Zurigo a studiare. Ma ho trovato un sessantotto anche lì.
Quale?
Gli americani arrivavano la con la marijuana e i libri di Herman Hesse nello zaino. Si fermavano un semestre e poi proseguivano per l’India in autostop. Sperimentavamo LSD. Anche io l’ho fatto, con un collega psichiatra pronto a iniettarmi il valium in caso fossi andato a finire in un bad trip, un brutto viaggio.
E cosa ha scoperto?
Che c’è un tale ribollire di fantasia e irrazionalità nei sogni che facciamo ogni notte che è inutile stimolarle chimicamente. E che c’era, sotto il codice della ribellione, un uso delle droghe consumistico.
Segue qui:
http://www.huffingtonpost.it/2017/03/19/zoja-padri-novecento_n_15466188.html
HAI UN MOMENTO, DIO. L’Onnipotente si sdraia sul mio lettino, e siamo ben oltre la politica. Lui parla solo di donne
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 22 marzo 2017
Ho psicoanalizzato personaggi celebri e potenti, da Putin a Castro, da Berlusconi a Obama, ma oggi siamo ben oltre. Stendo Dio su lettino e poiché Lui tace, certamente preoccupato dei disastri del pianeta e forse dell’universo intero, Gli chiedo cosa di più Lo attrae del cosmo. Le donne, dice senza esitare, tutte, con qualche preferenza, per esempio i capelli neri, anche se a volte i biondi e i rossi sono irresistibili. Gli chiedo che fine farà il mondo con Trump, mi chiede di Scarlett Johansson, gli dico che sta bene; insisto a chiedergli di Trump e lui mi chiede di Ivanka. Gli chiedo se vince la Le Pen e ride, un bel riso aperto. Gli chiedo se apprezza quel che ha fatto Giulio Cesare duemila anni fa ma si vede che gli uomini proprio lo annoiano. Non conosce i papi, chiede cosa fanno, alle mie informazioni finge d’interessarsi.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/03/22/news/hai-un-momento-dio-126514/
Ho psicoanalizzato personaggi celebri e potenti, da Putin a Castro, da Berlusconi a Obama, ma oggi siamo ben oltre. Stendo Dio su lettino e poiché Lui tace, certamente preoccupato dei disastri del pianeta e forse dell’universo intero, Gli chiedo cosa di più Lo attrae del cosmo. Le donne, dice senza esitare, tutte, con qualche preferenza, per esempio i capelli neri, anche se a volte i biondi e i rossi sono irresistibili. Gli chiedo che fine farà il mondo con Trump, mi chiede di Scarlett Johansson, gli dico che sta bene; insisto a chiedergli di Trump e lui mi chiede di Ivanka. Gli chiedo se vince la Le Pen e ride, un bel riso aperto. Gli chiedo se apprezza quel che ha fatto Giulio Cesare duemila anni fa ma si vede che gli uomini proprio lo annoiano. Non conosce i papi, chiede cosa fanno, alle mie informazioni finge d’interessarsi.
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http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/03/22/news/hai-un-momento-dio-126514/
LA DOMANDA È UNA SOLA: COME SI EDUCA AI TEMPI DEI SOCIAL? Nella trappola della rete: genitori e figli ai tempi dei social – Seminario online il 30 marzo con Giuseppe Maiolo, lo psicanalista prediletto da l’Adigetto.it
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 22 marzo 2017
La domanda è una sola: come si educa ai tempi dei social? Basta il divieto all’uso del cellulare per «proteggere» i nostri ragazzi dai pericoli che la rete ha? Non è solo questione di cyberbullismo, ma anche di relazioni che cambiano, di linguaggi diversi, di opportunità e di trappole che possono far male ma non hanno in sé il maligno.
Segue qui:
https://www.ladigetto.it/permalink/63565.html
La domanda è una sola: come si educa ai tempi dei social? Basta il divieto all’uso del cellulare per «proteggere» i nostri ragazzi dai pericoli che la rete ha? Non è solo questione di cyberbullismo, ma anche di relazioni che cambiano, di linguaggi diversi, di opportunità e di trappole che possono far male ma non hanno in sé il maligno.
Segue qui:
https://www.ladigetto.it/permalink/63565.html
SENZA PADRI NÉ MAESTRI MASCHI I BAMBINI CRESCONO A METÀ. Gli uomini non fanno più i maestri. E l’Ocse si preoccupa e produce un documento che le varrà numerose citazioni sui giornali. Fa bene, perché il fenomeno è devastante
di Claudio Risè, ilgiornale.it, 23 marzo 2017
Gli uomini non fanno più i maestri. E l’Ocse si preoccupa e produce un documento che le varrà numerose citazioni sui giornali (compresa questa). Fa bene, perché il fenomeno è devastante, come prova l’ampiezza di studi e ricerche ad esso dedicata. Sarebbe stato forse meglio che si fosse svegliata prima, visto che se ne parla da circa mezzo secolo, dall’inizio cioè dell’epoca in cui l’Occidente ha cominciato a diventare una «società senza padri». E senza maestri, che rappresentano appunto la figura paterna nella scuola. Il guaio, dimostrato nel frattempo da ricerche non solo pedagogiche, ma cliniche, criminologiche, economiche, sociologiche ed altro, è che il padre, e la figura maschile, come naturalmente la madre, e quella femminile, sono entrambi indispensabili. La sua assenza nelle esperienze formative di base, la famiglia e la scuola, crea nei giovani un deficit importante. Crea, dicono i lavori più svariati, uno sbilanciamento, uno squilibrio.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/senza-padri-n-maestri-maschi-i-bambini-crescono-met-1378066.html
Gli uomini non fanno più i maestri. E l’Ocse si preoccupa e produce un documento che le varrà numerose citazioni sui giornali (compresa questa). Fa bene, perché il fenomeno è devastante, come prova l’ampiezza di studi e ricerche ad esso dedicata. Sarebbe stato forse meglio che si fosse svegliata prima, visto che se ne parla da circa mezzo secolo, dall’inizio cioè dell’epoca in cui l’Occidente ha cominciato a diventare una «società senza padri». E senza maestri, che rappresentano appunto la figura paterna nella scuola. Il guaio, dimostrato nel frattempo da ricerche non solo pedagogiche, ma cliniche, criminologiche, economiche, sociologiche ed altro, è che il padre, e la figura maschile, come naturalmente la madre, e quella femminile, sono entrambi indispensabili. La sua assenza nelle esperienze formative di base, la famiglia e la scuola, crea nei giovani un deficit importante. Crea, dicono i lavori più svariati, uno sbilanciamento, uno squilibrio.
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http://www.ilgiornale.it/news/cronache/senza-padri-n-maestri-maschi-i-bambini-crescono-met-1378066.html
LA VERSIONE DEL PADRE
di Marco Grosoli, doppiozero.com, 24 marzo 2017
Come si sarebbe avvicinato alla storia di Michèle uno di quelli che si vendono nel mercato audiovisivo contemporaneo come “cineasti dell’eccesso”? Che film avrebbe fatto, poniamo, un Gaspar Noé, uno i cui film si attaccano a quell’implacabile determinismo (cfr. Irreversible) che piace tanto ai fasci? Semplice. Una volta individuato il trauma, ovvero il coinvolgimento di Michèle ancora bambina nell’alquanto veterotestamentario crimine del padre (il quale entrò nelle case di una via di Nantes, una a una, per sterminarvi tutti i bambini presenti), Noé avrebbe detto: bene, questa subisce un trauma infantile, quindi da grande ha le fantasie di stupro e, avendo lei due palle così, le mette in pratica.
Verhoeven, che per conoscere le donne non ha bisogno né di videocamere intravaginali (quelle usate sempre da Noé in Enter the Void) né di altre protuberanze, tutte sostanzialmente irrilevanti, capisce bene che Michèle non è una che si fa stuprare perché ha subito traumi da piccola. Michèle è una che, già in tenerissima età, è stata piazzata dal padre in quello che è il luogo della perversione più tipico possibile: essere, come diceva Lacan, strumento del godimento dell’Altro. In occasione della strage degli innocenti in cui a lui piacque, psicoticamente, sostituirsi a Dio (quell’Altro che più Altro non si può), lei infatti lo aiutò a bruciare gli oggetti delle piccole vittime. Basta questo a far conseguire la volontà di farsi stuprare? Ovviamente no. Il fatto è, piuttosto, che Michèle da lì in poi orienterà tutta la sua esistenza a dimostrare indirettamente al padre ergastolano, ignorandolo senza pietà, che no, lei in quella strage non fu davvero coinvolta. Lei non centra. Dunque niente trauma.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/la-versione-del-padre
Come si sarebbe avvicinato alla storia di Michèle uno di quelli che si vendono nel mercato audiovisivo contemporaneo come “cineasti dell’eccesso”? Che film avrebbe fatto, poniamo, un Gaspar Noé, uno i cui film si attaccano a quell’implacabile determinismo (cfr. Irreversible) che piace tanto ai fasci? Semplice. Una volta individuato il trauma, ovvero il coinvolgimento di Michèle ancora bambina nell’alquanto veterotestamentario crimine del padre (il quale entrò nelle case di una via di Nantes, una a una, per sterminarvi tutti i bambini presenti), Noé avrebbe detto: bene, questa subisce un trauma infantile, quindi da grande ha le fantasie di stupro e, avendo lei due palle così, le mette in pratica.
Verhoeven, che per conoscere le donne non ha bisogno né di videocamere intravaginali (quelle usate sempre da Noé in Enter the Void) né di altre protuberanze, tutte sostanzialmente irrilevanti, capisce bene che Michèle non è una che si fa stuprare perché ha subito traumi da piccola. Michèle è una che, già in tenerissima età, è stata piazzata dal padre in quello che è il luogo della perversione più tipico possibile: essere, come diceva Lacan, strumento del godimento dell’Altro. In occasione della strage degli innocenti in cui a lui piacque, psicoticamente, sostituirsi a Dio (quell’Altro che più Altro non si può), lei infatti lo aiutò a bruciare gli oggetti delle piccole vittime. Basta questo a far conseguire la volontà di farsi stuprare? Ovviamente no. Il fatto è, piuttosto, che Michèle da lì in poi orienterà tutta la sua esistenza a dimostrare indirettamente al padre ergastolano, ignorandolo senza pietà, che no, lei in quella strage non fu davvero coinvolta. Lei non centra. Dunque niente trauma.
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AL DESIDERIO PIACE IL DIRITTO
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 25 marzo 2017
Trattare i bisogni primari come diritti inalienabili è un errore. Essi sono finalizzati al mantenimento del substrato puramente biologico dell’esistenza. I diritti, invece, presumono la costituzione di una comunità politica, l’istituzione della Polis. Sono legati al desiderio e non ai bisogni. La norma che protegge il “diritto alla vita”, cioè il divieto di uccidere, chiarisce la questione. Quando questa norma è legata ai bisogni, ha un fondamento incerto. Non si uccidono i membri del proprio gruppo (famiglia o tribù), i servi di un padrone, i sudditi di un sovrano. Ciò nuocerebbe alla soddisfazione dei bisogni del gruppo e al potere che lo sorregge, lucrando sulla soddisfazione dei bisogni. Tuttavia, il divieto di uccidere non implica il riconoscimento di un diritto alla vita come valore fondamentale. Il bisogno primario non si traduce di per sé in un diritto. Non c’è nessuna legge che impedisca che le persone muoiano di carestia o di stenti. E nella grande maggioranza dei paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti, la democrazia più potente, la pena di morte regna sovrana.
I diritti sono un derivato sociale del desiderio. Se le loro condizioni materiali sono sufficientemente buone, gli esseri umani non perseguono solo il restare in vita godendo di piaceri semplici, del sollievo prodotto dalla scarica dalle tensioni.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6705
Trattare i bisogni primari come diritti inalienabili è un errore. Essi sono finalizzati al mantenimento del substrato puramente biologico dell’esistenza. I diritti, invece, presumono la costituzione di una comunità politica, l’istituzione della Polis. Sono legati al desiderio e non ai bisogni. La norma che protegge il “diritto alla vita”, cioè il divieto di uccidere, chiarisce la questione. Quando questa norma è legata ai bisogni, ha un fondamento incerto. Non si uccidono i membri del proprio gruppo (famiglia o tribù), i servi di un padrone, i sudditi di un sovrano. Ciò nuocerebbe alla soddisfazione dei bisogni del gruppo e al potere che lo sorregge, lucrando sulla soddisfazione dei bisogni. Tuttavia, il divieto di uccidere non implica il riconoscimento di un diritto alla vita come valore fondamentale. Il bisogno primario non si traduce di per sé in un diritto. Non c’è nessuna legge che impedisca che le persone muoiano di carestia o di stenti. E nella grande maggioranza dei paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti, la democrazia più potente, la pena di morte regna sovrana.
I diritti sono un derivato sociale del desiderio. Se le loro condizioni materiali sono sufficientemente buone, gli esseri umani non perseguono solo il restare in vita godendo di piaceri semplici, del sollievo prodotto dalla scarica dalle tensioni.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6705
ENZO BONAVENTURA E LA PSICOANALISI
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 27 marzo 2017
Quel che mi è accaduto ha dell’incredibile. Una vicenda che ha qualcosa di misterioso e attraente mi spinge a scriverci sopra. Ma cominciamo dall’inizio. È uscita dopo molti anni, per Marsilio, una nuova edizione critica del libro di Enzo Joseph Bonaventura (1891-1948): La psicoanalisi, a cura e con introduzione di David Meghnagi. Bonaventura non era medico, era laureato in filosofia e si occupava di psicologia sperimentale. A quei tempi la psicologia sperimentale era altra cosa rispetto alle attuali “scienze cognitive”. In quegli anni gli autori più importanti, i fondatori della psicologia sperimentale, erano Wilhelm Wundt (1832-1920) e Franz Brentano (1838-1917). Brentano, era, a sua volta, maestro di Edmund Husserl (1859-1938), il fondatore della filosofia fenomenologica, e di Sigmund Freud (1856-1939), il fondatore della psicoanalisi. Entrambi, Husserl e Freud, avevano ascoltato Brentano a lezione. Di particolare importanza era la nozione di “intenzionalità”, che Brentano aveva ripreso dalla filosofia medievale, distinguendola dal concetto di “intenzione”. Il tema dell’intenzionalità sarebbe stato al centro della filosofia di Husserl, fino al concetto di Einfühlung, oggi tradotto con “empatia”. In psicoanalisi questa ricerca filosofica assumerà la denominazione di “traslazione”, o “transfert”. Grazie a questa sua formazione filosofica, Bonaventura rileva la scarsa conoscenza da parte degli psicoanalisti medici riguardo alla psicologia sperimentale che, dalla psicologia della percezione alla psicologia sociale, aveva avuto un’impostazione marcatamente fenomenologica, per esempio con la psicologia della Gestalt di Max Wertheimer (1880-1943) e Wolfgang Köhler (1887-1967) e la teoria del campo di Kurt Lewin (1890-1947). In altri termini, proprio passando attraverso la psicologia sperimentale di quel tempo, che traeva spunti e fondamenti dalla filosofia fenomenologica, si chiariva un punto chiave della psicoanalisi: la relazione terapeutica, che i medici tendevano a trascurare a vantaggio di una concezione oggettivante del “paziente”.
Tuttavia questo libro ha per me un suo fato. Mesi fa discussi una tesi con uno studente ebreo, Mirco Ferrari, sulla vita e l’opera di Silvano Arieti, amico e collega di Bonaventura. Tra le sue opere, Arieti scrisse una memoria sul caso clinico del Parnàs, Abramo Giuseppe Pardo, Presidente della Comunità ebraica di Pisa. Pardo soffriva di una grave forma di fobia che gli impediva di uscire di casa per il timore di venire sbranato da animali domestici. La sua auto-reclusione facilitò la cattura e la sua uccisione da parte dei nazifascisti nel 1944, poco prima della liberazione della città. Proposi a Ferrari di intervistare David Meghnagi, che, oltre a essere il massimo studioso italiano riguardo ai rapporti tra ebraismo e psicoanalisi, ha indagato a fondo proprio la patologia del Parnàs a partire dall’opera di Arieti. Mirco Ferrari va a Roma per parlare con Meghnagi, per la tesi. Durante il colloquio Meghnagi gli parla di un altro psicoanalista ebreo: Enzo Bonaventura, forse perché in quel momento è impegnato a lavorare su questo libro, oppure perché Bonaventura e Arieti erano in rapporto di amicizia tra loro, per contiguità. Durante la giornata di martedì scorso ricevo in università la nuova edizione Marsilio di La psicoanalisi, con l’introduzione di Meghnagi. Rientro a casa e trovo un pacco con dentro l’edizione Arnoldo Mondadori del 1950 dello stesso libro, insieme a una lettera di Mirco Ferrari, che, tra le altre cose, mi scrive: Nella Torah troviamo scritto “Tzedeq, Tzedeq, Tirdof” (Deu: 17:2). Letteralmente significa “la giustizia, la giustizia inseguirai”. Tramandando la memoria di Bonaventura e di Arieti e del Parnàs, inseguendo la loro storia e tentando di comprendere la loro vita, noi partecipiamo attivamente a un cambiamento di cui il mondo necessita ancora oggi, attraverso questo nostro agire stiamo inseguendo la giustizia.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/enzo-bonaventura-e-la-psicoanalisi
Quel che mi è accaduto ha dell’incredibile. Una vicenda che ha qualcosa di misterioso e attraente mi spinge a scriverci sopra. Ma cominciamo dall’inizio. È uscita dopo molti anni, per Marsilio, una nuova edizione critica del libro di Enzo Joseph Bonaventura (1891-1948): La psicoanalisi, a cura e con introduzione di David Meghnagi. Bonaventura non era medico, era laureato in filosofia e si occupava di psicologia sperimentale. A quei tempi la psicologia sperimentale era altra cosa rispetto alle attuali “scienze cognitive”. In quegli anni gli autori più importanti, i fondatori della psicologia sperimentale, erano Wilhelm Wundt (1832-1920) e Franz Brentano (1838-1917). Brentano, era, a sua volta, maestro di Edmund Husserl (1859-1938), il fondatore della filosofia fenomenologica, e di Sigmund Freud (1856-1939), il fondatore della psicoanalisi. Entrambi, Husserl e Freud, avevano ascoltato Brentano a lezione. Di particolare importanza era la nozione di “intenzionalità”, che Brentano aveva ripreso dalla filosofia medievale, distinguendola dal concetto di “intenzione”. Il tema dell’intenzionalità sarebbe stato al centro della filosofia di Husserl, fino al concetto di Einfühlung, oggi tradotto con “empatia”. In psicoanalisi questa ricerca filosofica assumerà la denominazione di “traslazione”, o “transfert”. Grazie a questa sua formazione filosofica, Bonaventura rileva la scarsa conoscenza da parte degli psicoanalisti medici riguardo alla psicologia sperimentale che, dalla psicologia della percezione alla psicologia sociale, aveva avuto un’impostazione marcatamente fenomenologica, per esempio con la psicologia della Gestalt di Max Wertheimer (1880-1943) e Wolfgang Köhler (1887-1967) e la teoria del campo di Kurt Lewin (1890-1947). In altri termini, proprio passando attraverso la psicologia sperimentale di quel tempo, che traeva spunti e fondamenti dalla filosofia fenomenologica, si chiariva un punto chiave della psicoanalisi: la relazione terapeutica, che i medici tendevano a trascurare a vantaggio di una concezione oggettivante del “paziente”.
Tuttavia questo libro ha per me un suo fato. Mesi fa discussi una tesi con uno studente ebreo, Mirco Ferrari, sulla vita e l’opera di Silvano Arieti, amico e collega di Bonaventura. Tra le sue opere, Arieti scrisse una memoria sul caso clinico del Parnàs, Abramo Giuseppe Pardo, Presidente della Comunità ebraica di Pisa. Pardo soffriva di una grave forma di fobia che gli impediva di uscire di casa per il timore di venire sbranato da animali domestici. La sua auto-reclusione facilitò la cattura e la sua uccisione da parte dei nazifascisti nel 1944, poco prima della liberazione della città. Proposi a Ferrari di intervistare David Meghnagi, che, oltre a essere il massimo studioso italiano riguardo ai rapporti tra ebraismo e psicoanalisi, ha indagato a fondo proprio la patologia del Parnàs a partire dall’opera di Arieti. Mirco Ferrari va a Roma per parlare con Meghnagi, per la tesi. Durante il colloquio Meghnagi gli parla di un altro psicoanalista ebreo: Enzo Bonaventura, forse perché in quel momento è impegnato a lavorare su questo libro, oppure perché Bonaventura e Arieti erano in rapporto di amicizia tra loro, per contiguità. Durante la giornata di martedì scorso ricevo in università la nuova edizione Marsilio di La psicoanalisi, con l’introduzione di Meghnagi. Rientro a casa e trovo un pacco con dentro l’edizione Arnoldo Mondadori del 1950 dello stesso libro, insieme a una lettera di Mirco Ferrari, che, tra le altre cose, mi scrive: Nella Torah troviamo scritto “Tzedeq, Tzedeq, Tirdof” (Deu: 17:2). Letteralmente significa “la giustizia, la giustizia inseguirai”. Tramandando la memoria di Bonaventura e di Arieti e del Parnàs, inseguendo la loro storia e tentando di comprendere la loro vita, noi partecipiamo attivamente a un cambiamento di cui il mondo necessita ancora oggi, attraverso questo nostro agire stiamo inseguendo la giustizia.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/enzo-bonaventura-e-la-psicoanalisi
ALTAN, IL CINISMO NON È MAI L’ULTIMA PAROLA
di Luigi Campagner, ilsussidiario.net, 27 marzo 2017
Sergio Staino lo ha detto in pubblico, facendo sorridere anche l’interessato, solitamente impassibile, che le vignette di Altan, sono filosofiche, sganciate da un debito immediato alla cronaca. Ed è in forza della loro apparente inattualità che restano poi così attuali. Che si tratti del dilemma interiore di una delle sue donne opulente e bellissime che inciampa nella melanconia, osservando di non essere sicura di avere buon gusto, dopo aver appena asserito: “Io mi piaccio” o dei tormenti politici di Cipputi che risponde “Troppo comodo” al compagno che dice: “Uniti questa destra si può batterla”, Altan sembra sempre ironizzare, partendo da una dimensione fuori dal tempo. È il distacco tipico dell’umorista – e non del comico e del satirico – indagato da Freud nel breve articolo L’umorismo (1927), dove attribuisce il sollievo ricavato dal lavoro intellettuale dello humor ad un bonario spostamento intrapsichico, come quando un adulto osserva i tormenti e le angosce infantili e dall’alto della propria esperienza ne sorride.
Altan esordì a vent’anni, nel 1962, sul periodo Le Ore prima versione, ovvero prima che diventasse hard, e poi, grazie a un’amica segretaria di redazione, iniziò pubblicare le sue vignette su Playman. Ma è nel 1974 che Altan, ateo senza rimpianti e senza ostentazioni, inizia il lungo sodalizio con Linus, pubblicando la striscia dal titolo Trino, oggi raccolta nell’omonimo volume edito da Gallucci (2009). Che si tratti di un’improbabile reminiscenza da catechismo o forse di un’eredità inconscia – come nel caso dei celebri romanzi a fumetti I nostri antenati (Rizzoli 2009), vale a dire Colombo, Casanova e lo sgangherato Franz, un anti mercantilista e proto anti-capitalista Francesco D’Assisi – l’intuizione incompiuta di Trino merita ancora di essere sfogliata con curiosità e simpatia.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2017/3/27/LETTURE-Altan-il-cinismo-non-e-mai-l-ultima-parola/756331/
Sergio Staino lo ha detto in pubblico, facendo sorridere anche l’interessato, solitamente impassibile, che le vignette di Altan, sono filosofiche, sganciate da un debito immediato alla cronaca. Ed è in forza della loro apparente inattualità che restano poi così attuali. Che si tratti del dilemma interiore di una delle sue donne opulente e bellissime che inciampa nella melanconia, osservando di non essere sicura di avere buon gusto, dopo aver appena asserito: “Io mi piaccio” o dei tormenti politici di Cipputi che risponde “Troppo comodo” al compagno che dice: “Uniti questa destra si può batterla”, Altan sembra sempre ironizzare, partendo da una dimensione fuori dal tempo. È il distacco tipico dell’umorista – e non del comico e del satirico – indagato da Freud nel breve articolo L’umorismo (1927), dove attribuisce il sollievo ricavato dal lavoro intellettuale dello humor ad un bonario spostamento intrapsichico, come quando un adulto osserva i tormenti e le angosce infantili e dall’alto della propria esperienza ne sorride.
Altan esordì a vent’anni, nel 1962, sul periodo Le Ore prima versione, ovvero prima che diventasse hard, e poi, grazie a un’amica segretaria di redazione, iniziò pubblicare le sue vignette su Playman. Ma è nel 1974 che Altan, ateo senza rimpianti e senza ostentazioni, inizia il lungo sodalizio con Linus, pubblicando la striscia dal titolo Trino, oggi raccolta nell’omonimo volume edito da Gallucci (2009). Che si tratti di un’improbabile reminiscenza da catechismo o forse di un’eredità inconscia – come nel caso dei celebri romanzi a fumetti I nostri antenati (Rizzoli 2009), vale a dire Colombo, Casanova e lo sgangherato Franz, un anti mercantilista e proto anti-capitalista Francesco D’Assisi – l’intuizione incompiuta di Trino merita ancora di essere sfogliata con curiosità e simpatia.
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LE IDEOLOGIE SONO MORTE ADESSO COMANDANO LE PARANOIE
di Luigi Zoja, Laura Aguzzi, origamisettimanale.it, 28 marzo 2017
Di fronte a una situazione di emergenza prolungata nel tempo la mente umana può reagire in maniera sorprendente e, nell’incapacità di individuare o risolvere le cause di quella condizione, appigliarsi a un nemico esterno su cui proiettare le proprie ansie. Nel suo testo Paranoia lo psicoanalista Luigi Zoja dedica oltre 500 pagine all’analisi della patologia e alla sua presa sulla società e nella Storia.
Per indicare la diffusione di questo stato di alterazione nel corpo sociale prende a prestito da Jung il termine “Contagio psichico”. Come si diffonde?
Per immagini, reali ma soprattutto fantastiche. Tutti parlano di una minaccia ed è come se fosse qui. Qualcosa di cui si parla, dal punto di vista psicologico, equivale a una presenza reale, anche senza presenza fisica.
In questo senso le immagini degli attentati di Londra, Parigi o Bruxelles, degli sbarchi di persone sulle coste italiane evocano qualcosa di immediatamente presente nelle nostre vite?
Certo e con una proporzione assolutamente falsata rispetto alla realtà. Prendiamo due emergenze: quella dei cambiamenti climatici e quella del terrorismo. Se guardiamo i dati, la prima risulta assai più pressante della seconda. In Italia il numero di persone uccise dal terrorismo negli ultimi anni è sostanzialmente pari a zero. Mentre secondo Eurostat i morti per inquinamento dell’aria sono circa 83mila in Italia e in Europa stanno arrivando al mezzo milione. Eppure il cittadino e, indirettamente, i media dichiarano il terrorismo e non i cambiamenti climatici come problema politico fondamentale. C’è una mancanza di autocritica e autoanalisi.
Segue qui:
http://www.origamisettimanale.it/2017/03/28/speciali/origami/le-ideologie-sono-morte-adesso-comandano-le-paranoie-MIhii2bk6yebjkREbOcukJ/pagina.html
Di fronte a una situazione di emergenza prolungata nel tempo la mente umana può reagire in maniera sorprendente e, nell’incapacità di individuare o risolvere le cause di quella condizione, appigliarsi a un nemico esterno su cui proiettare le proprie ansie. Nel suo testo Paranoia lo psicoanalista Luigi Zoja dedica oltre 500 pagine all’analisi della patologia e alla sua presa sulla società e nella Storia.
Per indicare la diffusione di questo stato di alterazione nel corpo sociale prende a prestito da Jung il termine “Contagio psichico”. Come si diffonde?
Per immagini, reali ma soprattutto fantastiche. Tutti parlano di una minaccia ed è come se fosse qui. Qualcosa di cui si parla, dal punto di vista psicologico, equivale a una presenza reale, anche senza presenza fisica.
In questo senso le immagini degli attentati di Londra, Parigi o Bruxelles, degli sbarchi di persone sulle coste italiane evocano qualcosa di immediatamente presente nelle nostre vite?
Certo e con una proporzione assolutamente falsata rispetto alla realtà. Prendiamo due emergenze: quella dei cambiamenti climatici e quella del terrorismo. Se guardiamo i dati, la prima risulta assai più pressante della seconda. In Italia il numero di persone uccise dal terrorismo negli ultimi anni è sostanzialmente pari a zero. Mentre secondo Eurostat i morti per inquinamento dell’aria sono circa 83mila in Italia e in Europa stanno arrivando al mezzo milione. Eppure il cittadino e, indirettamente, i media dichiarano il terrorismo e non i cambiamenti climatici come problema politico fondamentale. C’è una mancanza di autocritica e autoanalisi.
Segue qui:
http://www.origamisettimanale.it/2017/03/28/speciali/origami/le-ideologie-sono-morte-adesso-comandano-le-paranoie-MIhii2bk6yebjkREbOcukJ/pagina.html
LA SINDROME DELL’IMBECILLE
di Guido Vitiello, internazionale.it, 29 marzo 2017
Gentile bibliopatologo,
ho 21 anni, e fin dall’adolescenza ricevo complimenti perché sono un lettore appassionato. Questo ha alimentato ancora di più il mio interesse per la cultura: leggo libri sugli argomenti più vari e ho scritto anche dei racconti. Lo ammetto, riuscire a sostenere molte delle conversazioni in cui vengo coinvolto e sentirmi dire che ho un’ottima capacità oratoria nonché un’ampia cultura mi lusinga, ma a volte penso di essermi montato la testa. Mi reputo intelligente e magari, invece, non sono che un falso intellettuale. Devo chiedere un ricovero urgente? Paolo
Caro Paolo,
tutte le volte che sento parlare di “sindrome dell’impostore” mi torna in mente una vecchia storiella. La fonte credo sia una vignetta del New Yorker di metà anni cinquanta, ma in Italia è stata resa popolare da una scena di un film di Fantozzi. Un tizio va dallo psicoanalista e gli confessa di soffrire di un complesso di inferiorità. “Ma quale complesso di inferiorità”, si sente rispondere, “lei è inferiore”. Ecco, quella carogna del bibliopatologo è qui per dirti che tu non hai la sindrome dell’impostore: sei un impostore. Ma grazie al cielo lo siamo tutti, io per primo. La sindrome esiste solo in quanto rivelazione parziale e solitaria dell’universale impostura – ed è questo a renderla dolorosa: perché credersi soli all’inferno, ostaggi di un segreto vergognoso, è la definizione stessa dell’inferno. La mia diagnosi brutale potrebbe capovolgersi, però, in una scoperta rinfrancante e liberatoria. Devi solo sorbirti pazientemente un’altra storiella.
All’inizio di Ortodossia, un libro del 1908, Gilbert K. Chesterton racconta di quando, a passeggio con un amico editore, questi si lasciò scappare un luogo comune molto diffuso: “Quell’uomo farà strada: egli crede in sé stesso”. Il caso volle che in quel momento passasse di lì un omnibus con la scritta Hanwell, che diede a Chesterton l’ispirazione per una risposta memorabile:
Vuoi sapere – chiesi – dove sono gli uomini che più credono in sé stessi? Te lo dico subito. Conosco uomini che hanno più di Napoleone e di Cesare una fiducia colossale in sé stessi. So dove splende la stella fissa della certezza e del successo, posso guidarti ai troni dei superuomini. Gli uomini che credono veramente in sé stessi sono tutti nei manicomi.
Lo Hanwell insane asylum era appunto un grande manicomio inglese, non lontano da Londra. Avverto un’eco di questo aneddoto in una frase di Lacan che si sente spesso in giro, da quando il lacanismo è diventato un fenomeno pop – l’umanità riserva grandi sorprese. Dice grosso modo così: un tizio che crede di essere Napoleone è certamente pazzo, ma un re che crede di essere un re lo è forse ancora di più. Mettendo a testa in giù la frase dell’editore, Chesterton ne ricavava la massima aurea secondo cui “il credere in sé stessi è una delle caratteristiche più comuni degli imbecilli”. Ecco, un intellettuale che si guarda allo specchio e pensa, tra sé e sé, “io sono un intellettuale”, potrà anche essere intelligentissimo, ma la sua intelligenza sarà avvolta da una mistica nube di imbecillità.
Segue qui:
http://www.internazionale.it/opinione/guido-vitiello/2017/03/29/sindrome-imbecille
Gentile bibliopatologo,
ho 21 anni, e fin dall’adolescenza ricevo complimenti perché sono un lettore appassionato. Questo ha alimentato ancora di più il mio interesse per la cultura: leggo libri sugli argomenti più vari e ho scritto anche dei racconti. Lo ammetto, riuscire a sostenere molte delle conversazioni in cui vengo coinvolto e sentirmi dire che ho un’ottima capacità oratoria nonché un’ampia cultura mi lusinga, ma a volte penso di essermi montato la testa. Mi reputo intelligente e magari, invece, non sono che un falso intellettuale. Devo chiedere un ricovero urgente? Paolo
Caro Paolo,
tutte le volte che sento parlare di “sindrome dell’impostore” mi torna in mente una vecchia storiella. La fonte credo sia una vignetta del New Yorker di metà anni cinquanta, ma in Italia è stata resa popolare da una scena di un film di Fantozzi. Un tizio va dallo psicoanalista e gli confessa di soffrire di un complesso di inferiorità. “Ma quale complesso di inferiorità”, si sente rispondere, “lei è inferiore”. Ecco, quella carogna del bibliopatologo è qui per dirti che tu non hai la sindrome dell’impostore: sei un impostore. Ma grazie al cielo lo siamo tutti, io per primo. La sindrome esiste solo in quanto rivelazione parziale e solitaria dell’universale impostura – ed è questo a renderla dolorosa: perché credersi soli all’inferno, ostaggi di un segreto vergognoso, è la definizione stessa dell’inferno. La mia diagnosi brutale potrebbe capovolgersi, però, in una scoperta rinfrancante e liberatoria. Devi solo sorbirti pazientemente un’altra storiella.
All’inizio di Ortodossia, un libro del 1908, Gilbert K. Chesterton racconta di quando, a passeggio con un amico editore, questi si lasciò scappare un luogo comune molto diffuso: “Quell’uomo farà strada: egli crede in sé stesso”. Il caso volle che in quel momento passasse di lì un omnibus con la scritta Hanwell, che diede a Chesterton l’ispirazione per una risposta memorabile:
Vuoi sapere – chiesi – dove sono gli uomini che più credono in sé stessi? Te lo dico subito. Conosco uomini che hanno più di Napoleone e di Cesare una fiducia colossale in sé stessi. So dove splende la stella fissa della certezza e del successo, posso guidarti ai troni dei superuomini. Gli uomini che credono veramente in sé stessi sono tutti nei manicomi.
Lo Hanwell insane asylum era appunto un grande manicomio inglese, non lontano da Londra. Avverto un’eco di questo aneddoto in una frase di Lacan che si sente spesso in giro, da quando il lacanismo è diventato un fenomeno pop – l’umanità riserva grandi sorprese. Dice grosso modo così: un tizio che crede di essere Napoleone è certamente pazzo, ma un re che crede di essere un re lo è forse ancora di più. Mettendo a testa in giù la frase dell’editore, Chesterton ne ricavava la massima aurea secondo cui “il credere in sé stessi è una delle caratteristiche più comuni degli imbecilli”. Ecco, un intellettuale che si guarda allo specchio e pensa, tra sé e sé, “io sono un intellettuale”, potrà anche essere intelligentissimo, ma la sua intelligenza sarà avvolta da una mistica nube di imbecillità.
Segue qui:
http://www.internazionale.it/opinione/guido-vitiello/2017/03/29/sindrome-imbecille
PREGARE PER BENE. Qual è il senso della preghiera, se Dio è buono? In realtà, è lui che prega noi di darci una mossa
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 29 marzo 2017
Tra tanti, Kate Middleton prega per gli assassinati di Westminster, secondo un rito secolare, comune a tutti i credenti, cattolici, protestanti e di altre religioni. Chi pregano? Dio e gli dèi, li pregano di guarire i feriti, consolare gli afflitti, accogliere le vittime, che non hanno neppure avuto il tempo di rivolgere a Dio o ai propri cari un estremo appello, e sono morti così, come viene, senza capire nemmeno cosa stesse accadendo, o imprecando contro quel bestione che veniva addosso smanioso di sangue. Kate sta pregando per loro, affinché di corsa entrino nel Regno dei cieli, loro che non hanno avuto tempo di volgere al Signore un estremo grido di aiuto, un’invocazione, un’unzione. Ancor più delle vittime, smarriti sono i loro cari che a lungo piangeranno e sempre con tristezza ricorderanno. Ma perché Kate prega per loro? Perché, a sua volta smarrita, si accorge di quanto indecifrabile possa essere la morte? Per un’antica tradizione, secondo la quale noi mortali possiamo invocare l’aiuto e la carità di Dio, che scosso dai nostri dolori si muove a favore dei defunti e dei malati? Sì, certo, ma in realtà non ci sarebbe alcun bisogno di smuovere Dio, che già per Suo conto accoglie i morti e li fa rivivere, tutti: la Sua misericordia è infinita e non ha bisogno di alcuna sollecitazione. Ma allora Kate chi prega, chi noi preghiamo, poiché Dio non si fa certo pregare nel donarci la Sua tenerezza? Di che pregarlo, se tutti conosciamo la Sua immensa carità e giustizia? Figurarsi se Dio ha bisogno di raccomandazioni, seppure formulate da una principessa moglie di un futuro re capo della sua chiesa. Insomma, pregare Dio potrebbe sembrare cosa d’altri tempi, magari un po’ strani, poco rispettosa per Lui, come si dice quando c’è chi tentenna e occorre pregarlo: “Ti prego, fallo per me, ti prego, dai, non farti pregare…”.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/03/29/news/attentato-londra-se-dio-buono-qual-e-il-senso-della-preghiera-127632/
Tra tanti, Kate Middleton prega per gli assassinati di Westminster, secondo un rito secolare, comune a tutti i credenti, cattolici, protestanti e di altre religioni. Chi pregano? Dio e gli dèi, li pregano di guarire i feriti, consolare gli afflitti, accogliere le vittime, che non hanno neppure avuto il tempo di rivolgere a Dio o ai propri cari un estremo appello, e sono morti così, come viene, senza capire nemmeno cosa stesse accadendo, o imprecando contro quel bestione che veniva addosso smanioso di sangue. Kate sta pregando per loro, affinché di corsa entrino nel Regno dei cieli, loro che non hanno avuto tempo di volgere al Signore un estremo grido di aiuto, un’invocazione, un’unzione. Ancor più delle vittime, smarriti sono i loro cari che a lungo piangeranno e sempre con tristezza ricorderanno. Ma perché Kate prega per loro? Perché, a sua volta smarrita, si accorge di quanto indecifrabile possa essere la morte? Per un’antica tradizione, secondo la quale noi mortali possiamo invocare l’aiuto e la carità di Dio, che scosso dai nostri dolori si muove a favore dei defunti e dei malati? Sì, certo, ma in realtà non ci sarebbe alcun bisogno di smuovere Dio, che già per Suo conto accoglie i morti e li fa rivivere, tutti: la Sua misericordia è infinita e non ha bisogno di alcuna sollecitazione. Ma allora Kate chi prega, chi noi preghiamo, poiché Dio non si fa certo pregare nel donarci la Sua tenerezza? Di che pregarlo, se tutti conosciamo la Sua immensa carità e giustizia? Figurarsi se Dio ha bisogno di raccomandazioni, seppure formulate da una principessa moglie di un futuro re capo della sua chiesa. Insomma, pregare Dio potrebbe sembrare cosa d’altri tempi, magari un po’ strani, poco rispettosa per Lui, come si dice quando c’è chi tentenna e occorre pregarlo: “Ti prego, fallo per me, ti prego, dai, non farti pregare…”.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/03/29/news/attentato-londra-se-dio-buono-qual-e-il-senso-della-preghiera-127632/
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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