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Futuro Remoto della Relazione Medico Paziente

28 Mag 17

A cura di Manlio Converti

Un salto nel passato ci fa scoprire questo articolo del Presidente Omceo Torino Guido Giustetto, credo del 2007, comunque prima delle grandi indagini Istat sull'Omofobia Sanitaria del 2011 e della nota WPA del 2016 sulla relazione medico paziente Lgbt in Psichiatria, tuttora completamente disattese in Italia.

Un salto nel presente, perché se cerco la foto di Guido Giustetto escono fuori quelle della De Mari, iscritta allo stesso ordine dei medici, che si è inventata una serie di favole omofobe e pretende di importe al mondo ai danni di bambini e adolescenti Lgbt.

Un salto nel futuro, perché questo articolo pur tanto datato già centra perfettamente la questione della relazione medico paziente Lgbt nelle sue sfumature emotive, anche se ancora limitato alla sola questione HIV, ma soprattutto nel ruolo e responsabilità dei medici, in questo caso soprattutto medici di famiglia, nell'essere di sostegno nel processo che noi chiamiamo Coming Out anche a fini di Prevenzione e Cura in senso clinico.

Presente Passato e Futuro di un articolo altrimenti dimenticato, perché l'unica voce che viene ascoltata è quella dei medici omofobi come la De Mari, senza che, finora, la Fnomceo intervenga in modo sincero e definitivo chiarendo le questioni di deontologia e decoro professioanle.

FUTURO REMOTO un OCCHIO CLINICO alla Relazione Medico Paziente Lgbt

"Svelare il proprio orientamento (omo)sessuale: puo’ il medico di famiglia aiutare gli adolescenti ?"

Il caso
Qualche tempo fa, mio figlio mi ha detto di essere gay e solo in quel momento ho compreso il lungo travaglio che ha dovuto percorrere per riconoscere, accettare e svelare questa sua condizione, sulla qual gravano ancora tanti tabù, incomprensioni e pregiudizi. Gli ho chiesto se ne avesse parlato con il medico di medicina generale e mi ha risposto che gli sarebbe stato di aiuto aprirsi con lui; i segnali che gli aveva inviato non erano però stati accolti. Allora mi chiedo: i medici di medicina generale, possono avere un ruolo nell’aiutare i ragazzi e le ragazze, con un diverso orientamento sessuale, ad aprirsi e ad affrontare una realtà ancora molto difficile?

Guido Giustetto
Medico di Famiglia
Pino Torinese

Trovare una risposta in letteratura non è possibile e  non solo in quella medica italiana che sembra del tutto silente sullo specifico argomento; anche sulle riviste inglesi e americane le tematiche correlate all’omosessualità (GLB patients, pazienti gay, lesbiche, bisessuali) sono dibattute principalmente in riferimento a studi sull’infezione HIV e sulle altre malattie a trasmissione sessuale.
Su di un punto però questa scarsa letteratura  è univoca: i medici non sono abituati ad indagare sull’orientamento sessuale dei propri assistiti (tanto meno nel caso degli adolescenti), dando in generale per scontato comportamenti eterosessuali.

Meckler, commentando i risultati di un questionario sullo svelamento del proprio orientamento sessuale, rivolto a 131 omosessuali di età compresa  tra i 14 e i 18 anni, che partecipavano ad una conferenza sul tema, ha evidenziato come solo il 35% dei loro medici ne fosse informato.
L’elemento maggiormente correlato positivamente all’avere svelato il proprio orientamento sessuale era il fatto di avere discusso con un medico di sesso o salute sessuale.
Alla domanda su che cosa dovesse fare un medico per rendere più sereno un colloquio sull’essere omosessuale, il 64% di loro ha scelto la risposta: “Just ask me” (semplicemente chiedermelo).
In conclusione, la maggior parte dei medici non discute di sessualità con i propri pazienti adolescenti, mentre la maggioranza di loro lo desidererebbe.
Dodici anni prima, in un gruppo di 623 omosessuali partecipanti ad uno studio sull’infezione HIV, Fitzpatrick aveva trovato che il 44% di loro non aveva informato il medico del proprio orientamento sessuale e, cosa stupefacente, la stessa proporzione di mancata informazione riguardava il proprio stato di HIV positività.
Nell’indagine condotta da Hinchliff con 22 GP di Sheffield sulla loro difficoltà ad affrontare aspetti di salute sessuale con i propri pazienti omosessuali, è risultato che per la quasi metà di loro questa era correlata principalmente con :
– ignoranza delle abitudini e delle pratiche omosessuali;
– preoccupazioni sul linguaggio da usare, se il discorso si fosse approfondito maggiormente;
– supposizioni sulla natura delle relazioni tra persone omosessuali.
Solo in una minoranza di medici fu rilevato un vero modo di pensare omofobico.
Le proposte di questo gruppo per migliorare la situazione sono state:
– avere dei momenti di formazione specifici durante il periodo universitario e post-universitario;
– assumere un ruolo attivo, durante la vista;
– non fare delle supposizioni sull’orientamento sessuale dei pazienti;
– non discriminare i pazienti in base ai loro comportamenti.
Infine, è stato osservato che anche quando una donna svela al proprio ginecologo il suo orientamento omosessuale, non sembra che questo fatto venga usato dal medico come risorsa relazionale importante.

Perché i medici, già restii in generale ad affrontare tematiche sessuali, non riescono ad aiutare i pazienti a trattare o a dichiarare il loro orientamento sessuale ?  Ci potrebbe essere un momento particolarmente appropriato durante la visita?
Alcuni medici hanno dichiarato di non sentirsi preparati a discutere con i propri pazienti di omosessualità, o dei rischi per la salute connessi con le pratiche sessuali tra persone dello stesso sesso. In effetti, non è sempre facile trovare fonti informative adeguate al riguardo; inoltre, di frequente, le informazioni scientifiche paiono confondersi con le conoscenze di senso comune. La scarsa familiarità con le tematiche omosessuali può suscitare imbarazzo sia per il paziente sia per il medico, innescando autocensure e dando luogo a percezioni erronee e difficoltà comunicative.
Qualche medico sostiene che non c’è tempo sufficiente per indagare su tutto; si comincia dalle cose più urgenti e più “mediche”.
Il momento dell’anamnesi, in particolare quando si conosce un nuovo paziente adolescente, potrebbe essere il momento appropriato, oppure sarebbe meglio cogliere le occasioni che possono essere offerte da successive visite ?
Nella operatività dei medici di famiglia, l’anamnesi raramente si raccoglie in maniera sistematica,  tutta intera nello stesso momento e in una volta sola.
Certamente, la prima volta che un paziente si presenta dal medico, questi si informa sulle condizioni generali e sulle sue abitudini di vita, ma, poiché spesso il paziente si presenta già con un problema da risolvere, tutta la visita è piuttosto orientata in quel senso.
L’anamnesi viene poi costruita nel tempo, incontro dopo incontro, ogni volta modulata sulla domanda  del paziente, per cui apparirebbero un po’ forzate e artificiose delle domande mirate ad un aspetto particolare (l’orientamento sessuale) di una settore specifico (l’anamnesi sessuale), nonostante i problemi di orientamento sessuale abbiano un importante ruolo sulla salute e il loro svelamento influenzi il rapporto medico paziente.
In particolare con gli adolescenti, che al medico non si rivolgono spesso e con i quali può non esserci ancora confidenza, è più utile cercare di cogliere le sfumature del loro linguaggio e ascoltare il modo con cui definiscono l’insieme della propria identità. Il medico deve acuire la propria sensibilità a cogliere condizioni di tensione, a non lasciar cadere segnali, allusioni e domande indirette, e deve essere esaustivo nella propria indagine in presenza di segni e sintomi di malattia  a trasmissione sessuale.
Il vero problema è che, mentre in teoria è condiviso che bisogna conoscere l’anamnesi sessuale dei pazienti, pochi medici la raccolgono, principalmente per la sua forte componente emotiva e per la sensazione di essere impreparati a condurla in modo adeguato.
Noi medici rischiamo di apparire come quei genitori che stanno chiacchierando con i figli, mentre seguono distrattamente la TV. Inattesa compare sullo schermo una scena a forte componente erotica: uno dei genitori, cominciando a fare altro, con noncuranza si alza, spegne la TV o cambia canale.

Qualche atteggiamento da imparare per migliorare questa situazione
Non dare per scontato che tutti abbiano un orientamento eterossessuale: possiamo imparare a rivolgere domande che contengano termini neutri: per esempio, al posto di ragazzo/a o fidanzato/a, partner o “persona significativa” (vedere il riquadro “buone prassi nello studio medico”).
Cogliere i segnali che gli adolescenti ci mandano in tema di sessualità.
Essere consapevoli che ad alcuni adolescenti potrebbe far piacere parlare del proprio orientamento sessuale con il medico di famiglia.
Non sottovalutare l’aiuto che potremmo dare ai ragazzi/e e alle loro famiglie, in momenti di disorientamento sessuale.
Ascoltare le sfumature dei racconti dei nostri pazienti e calibrare su queste le nostre domande, senza avere timore di offendere quando ci sembra importante essere franchi su dettagli poco chiari.
Ribadire al paziente, in particolare se adolescente, la totale riservatezza nei confronti della sua famiglia e degli estranei, su quanto possiamo apprendere durante il colloquio.

Secondo parere
Problematiche sociali e sanitarie del paziente omosessuale

di Luca Pietrantoni
Psicologo, Università degli Studi di Bologna
luca.pietrantoni@unibo.it

Le indagini a largo spettro più recenti mostrano che la percentuale di persone omobisessuali nella popolazione adulta varia dall’2 al 10% (Frankowski, 2004).  È  tuttavia difficile ottenere statistiche precise sulla consistenza della popolazione omo-bisessuali per una molteplicità di motivi: alcune persone sono reticenti a rivelare il proprio orientamento sessuale anche in un questionario anonimo; altre pur avendo relazioni sessuali e affettive con persone dello stesso sesso evitano qualsiasi processo di autodefinizione con una identità sociale condivisa; altri potrebbero avere una identità più flessibile nell’arco del ciclo di vita.
Recenti survey nazionali mostrano come molti uomini e donne omosessuali abbiano difficoltà a svelare il proprio orientamento sessuale e a discutere dei propri comportamenti con il proprio medico. Secondo la ricerca condotta in Italia MODIDI, l’80% delle donne ( e il 68,5% degli uomini) non si è svelato al medico di medicina generale; se consideriamo la figura del ginecologo cruciale come “gatekeeper” per quanto riguarda la salute sessuale della donne, emerge che nel 65,1% dei casi non c’è stata nessuna comunicazione tra medico e paziente di questo importante dato individuale. La spiegazione di questi risultati è probabilmente ancorabile a più motivazioni del paziente: alcune persone omosessuali non ritengono rilevante lo svelamento del proprio orientamento sessuale nella comunicazione con il medico, altre provano sentimenti di vergogna e imbarazzo rispetto alla propria identità, altri perché anticipano e/o si confrontano con reazioni di incomprensione da parte del medico. Nel corso della loro vita, i gay si sono confrontati spesso con risposte omofobiche da parte dei genitori o dei pari (si pensi alla terminologia denigratoria acquisita nel percorso di socializzazione) e per tali ragioni temono un giudizio negativo, talvolta moralmente connotato, da parte dell'interlocutore e preferiscono celarsi.
In realtà, sappiamo che oggigiorno la maggioranza dei medici in Italia non ha pregiudizi rispetto all’omosessualità dei loro pazienti. Tuttavia, il paziente è in un momento di particolare vulnerabilità quando ha o sospetta di avere un problema di salute; per evitare ogni possibile atteggiamento negativo da parte del medico, potrebbe omettere informazioni su di sé che lo metterebbero in ‘cattiva luce’. Gli studi in psicologia sociale hanno messo in evidenza che è l’ “aspettativa” di un rischio di trattamento peggiore a influenzare il comportamento del paziente più che il reale trattamento riscontrato.
Autorità scientifiche come l’American Medical Association hanno però più volte rimarcato che il silenzio comunicativo riguardo all’omosessualità (o ai comportamento omosessuali) potrebbe condurre ad una diagnosi non corretta, ad una peggiore gestione della malattia e a una diminuita compliance con le cure o i controlli di routine.  Già dieci anni fa, nel Jama si leggeva: “l’omosessualità non riconosciuta dal medico o la reticenza del paziente di riportare il suo orientamento sessuale può portare ad errori nello screening, nella diagnosi e nel trattamento di importanti problemi di salute” (AMA, 1996). Ad esempio, un uomo sposato con una donna può omettere di avere contratto una malattia sessualmente trasmissione in un rapporto occasionale con un uomo perché trova ciò disdicevole, come parte di una sua “vita segreta” o perché teme che il suo medico che conosce l’intera famiglia sviluppi una cattiva impressione del suo paziente. In tali circostanze un counseling da parte del medico volto a prevenire ulteriori esposizioni  nel paziente diventa difficile.
Harrison e Silenzio (1996)  riassumono i quattro punti che dovrebbero contraddistinguere una pratica medica appropriata con i pazienti omosessuali e le loro famiglie: 1) assumere un atteggiamento scevro da pregiudizi e idee negative; 2) distinguere il comportamento sessuale dall’identità e comprenderne le implicazioni culturali e sanitarie di tale discrepanza (ad esempio, alcuni uomini provenienti dal Sud Italia potrebbero avere comportamenti omosessuali occasionali, ricreativi di tipo insertivo continuando a definirsi eterosessuali ed evitando attivamente informazioni sanitarie specificatamente rivolte ai gay come opuscoli di prevenzione HIV); 3) fare domande che non assumano necessariamente l’eterosessualità del paziente; 4) essere consapevoli dei propri atteggiamenti verso l’omosessualità e di come questi possano  influenzare il giudizio clinico .
Potter (2002) riporta la seguente storia esemplificativa. Una donna di 72 anni ha perso peso, non dorme e si rivolge al suo nuovo medico di medicina generale, che le chiede: vive da sola? “Sì” risponde la donna, “suo marito?” “Abbiamo divorziato 40 anni fa”. Il medico dopo averla visitata decide che la donna soffre di depressione e le prescrive degli psicofarmaci. La donna si rivolge ad un altro medico che le chiede “vive da sola?”  “Sì”, “Ha sempre vissuto da sola?” “No una donna ha vissuto con me 37 anni. E’ morta due mesi fa”. “Eravate molto affezionate?” “Sì, la amavo più di ogni cosa”. “Le mancherà molto” dice il medico. “Non riesco più a vivere senza di lei”. Il medico in questo caso decide che la sua paziente ha bisogno di un’assistenza psicologica più integrata e la rivolge al centro di aiuto per le persone in lutto. Come si vede dal racconto, il primo medico ha dato per scontato l’eterosessualità della paziente e in tal modo ha precluso la conoscenza da parte della paziente dell’evento traumatico all’origine della sua depressione; il secondo medico invece ha posto domande più neutrali che hanno facilitato l’apertura della paziente e del suo legame affettivo significativo, e attraverso la riformulazione ha validato la sua sofferenza; solo nel secondo caso la soddisfazione del servizio percepita da parte della paziente è stato ottimale e il trattamento offerto più mirato ed efficace.
Un problema specifico riguarda l’adolescenza. Infatti i dati epidemiologici mostrano che gli adolescenti omosessuali e bisessuali e coloro che si stanno interrogando sul proprio orientamento sessuale sono a maggior rischio di ideazione suicidaria, depressione, uso di tabacco, alcol e specifiche sostanze rispetto ai corrispettivi eterosessuali (Pietrantoni 2006, Pietrantoni e Prati, 2007). Lo svelamento del proprio orientamento sessuale in famiglia genera spesso una situazione di crisi, di tensione e di difficoltà comunicative. Per quanto riguarda i servizi rivolti agli adolescenti, Frankowski  (2004) ha dichiarato in un documento ufficiale del Comitato di Pediatria statunitense quanto sia importante per un pediatra essere consapevole delle questioni specifiche concernenti l’orientamento sessuale in adolescenza. In particolare le linee guida individuare sono le seguenti : 1) tutelare il bisogno di riservatezza dei pazienti con questioni sul proprio orientamento sessuale (ad es., non rivelare uno svelamento di omosessualità del figlio ai genitori); 2) ricordarsi che molti adolescenti eterosessuali hanno esperienze con persone dello stesso sesso e che etichettarli come omosessuali può essere prematuro, inappropriato o controproducente; 3) comunicare accoglienza e supporto agli adolescenti che si stanno interrogando sul proprio orientamento sessuale e più in generale fornire informazioni e riferimenti di associazioni o risorse disponibili sul territorio (helpline, consultori); 4) “fare un counseling” riguardo a comportamenti a rischio, depressione e pensieri di suicidio; 5) incoraggiare l’astinenza sessuale o una bassa numerosità di partner sessuali e, nel caso di adolescenti sessualmente attivi, dare indicazioni su come ridurre i rischi connessi (rendendoli anche consapevoli della relazione tra uso di sostanze e sesso non sicuro); 6) in base all’attività sessuale dichiarata, consigliare il ricorso a screening sanitari (HIV, MTS, test di gravidanza); 7) indagare con delicatezza se hanno subito esperienze personali di violenza, dalla famiglia, dai pari o dal/la fidanzato/a  – anche dello stesso sesso.


 
Bibliografia
Potter j. E. Do ask, do tell,  in Annals of Internal Medicine, 2002, 137(5), 341-343.
Aa.vv. Modi di – Sesso e salute di gay, lesbiche e bisessuali oggi in Italia. Sintesi dei risultati principali 2005 www.modidi.net
American Medical Association, Council On Scientific Affairs, Health care needs of gay men and lesbians in the United States 1996 JAMA, 275, 1354 – 1359.
Frankowski B.L. Sexual Orientation and Adolescents. Pediatrics, 2004, 113, 1872-1832.
Pietrantoni L. Corpi sociali. La relazione tra orientamento sessuale, comportamenti e salute. In Rigliano P. Graglia M. Gay e lesbiche in psicoterapia. (pp. 235 – 258) 2006 Milano Raffaello Cortina Editore
Pietrantoni L. Prati G. Gay e lesbiche fumano di più: risultati di una ricerca nazionale. Tabaccologia, 2007, 3, 32-35.

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