Slavoj Žižek, in Vivere alla fine dei tempi [2010], affrontando il tema dell’inconscio freudiano fa riferimento a Musicofilia [2007] di Oliver Sacks e più precisamente a una delle caratteristiche che emergono dalle storie riportate. Secondo Žižek, «il paziente ossessionato da musica compulsiva sente un gran sollievo quando apprende che le sue allucinazioni sono causate da una lesione cerebrale organica o da altri tipi di malfunzionamento fisico, e non da una follia psicologica»[1]. Per quale ragione? Perché «in questo modo il paziente non deve più sentirsi soggettivamente responsabile per le proprie allucinazioni, queste diventano solo un fatto oggettivo senza significato»[2]. Insomma ciò che Žižek sottolinea, in linea con molte evidenze cliniche, è che la deresponsabilizzazione genera sollievo nel paziente. Ma, si chiede sempre il filosofo sloveno, «in questo sollievo non è all’opera anche una possibile fuga da qualche verità traumatica?»[3] E quale? Ciò da cui il paziente fugge è la verità su sé stesso, sul proprio essere diviso e, quindi, sempre dissociato nei confronti del proprio corpo e, in una certa misura, del proprio sentire.
Questa terribile verità è tra gli elementi che in maniera più radicale segnano la svolta tra un primo e un secondo Freud. Più specificatamente riguarda l’Es, il termine introdotto da Freud nel contributo L'Io e l'Es [1922] per indicare il carattere irriducibile della «pulsione di morte» e la sua presenza ingombrante nell’esistenza del soggetto. Il concetto, che Freud mutua da Georg Groddeck, vuole rendere conto di una intuizione destinata a sovvertire tutte le rassicuranti idee sulla soggettività: qualcosa di insensato, di estraneo («Fremde»), è all’opera nell’uomo e ciò fa di lui un essere pulsionale, qualcuno in perenne disaccordo con il proprio corpo. Tutto ciò si palesa, con tragica evidenza, come nelle storie di Sacks, quando l’individuo è chiamato a confrontarsi con l’ambito distorto delle allucinazioni, dell’extra-discorsivo e del non-raffigurabile, con i frammenti insensati del proprio mondo interiore. Lì dove il corpo genera più paura, poiché si mostra nella sua dimensione enigmatica, imprevedibile, sottratta al controllo cosciente del soggetto. In fin dei conti la portata della tarda svolta freudiana si misura tutta qui, nella presa d’atto che l’uomo è abitato da istanze insensate e indipendenti dal principio di piacere, che non operano, cioè, in vista del suo bene e che, dunque, sono totalmente al di fuori della dimensione del senso.
Jacques Lacan, nel suo personale «ritorno a Freud», fa di questa dimensione oscura e problematica il punto di partenza per la propria riflessione clinica. Tra le domande che si pone in tale ottica c’è quella che riguarda la soggettività: come emerge l’Io da questa dimensione insensata e oscura? Come si costituisce il senso di sé che orienta l’individuo nella vita di tutti i giorni? Come l’individuo riesce far tacere il proprio essere pulsionale? Gli interrogativi vengono affrontati da Lacan fin da subito, dalle prime elaborazioni clinico teoriche, quelle che di solito vengono inquadrate nella cosiddetta fase strutturalista. L’idea di Lacan è che l’individuo per superare il «fondo dionisiaco borbottante»[4] che lo costituisce faccia ricorso a un’illusione, quella di essere una Unità. In altre parole per mettere insieme i cocci e i frammenti di un mondo interiore che genera angoscia il soggetto si immagina nei termini di Uno. E’ uno dei temi fondamentali del registro dell’Immaginario che, insieme al Reale e al Simbolico, Lacan utilizza per descrivere l’inconscio. Vediamo meglio di cosa si tratta.
Una maschera allo specchio
L’idea di Lacan è che il soggetto riesca a superare la condizione differenziale che lo costituisce –ontologicamente – attraverso un’immagine di sé stesso unitaria, una maschera che dà consistenza a ciò che per natura è diviso e in frammenti. Utilizzando il celebre titolo pirandelliano possiamo dire che per addomesticare un abisso pulsionale fatto di centomila pezzetti il soggetto, che è nessuno, si immagina nella forma dell’Uno. L’idea, che per molti versi non è nuova e in linea con lo zeitgeist dell’epoca[5], è invece doppiamente rivoluzionaria se traslata sul piano psicoanalitico per le conseguenze che comporta. Lacan rompe innanzitutto con una tradizione che immagina l’inconscio nei termini di un archivio della memoria dimenticata e postula che in principio non ci sono delle verità da portare alla luce, bensì una condizione differenziale, pre-personale, di tensioni che non vogliono dire niente e a cui il soggetto deve dare una forma per sopravvivere. Questa operazione – e qui è il secondo aspetto rivoluzionario – viene realizzata a partire dalla rivalutazione di una grave condizione patologica: la paranoia. L’io del paranoico, secondo Lacan[6], è identificato con un’immagine ideale e irreale di sé che genera una condizione di frustrazione patologica; il soggetto è insomma schiacciato tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Nelle condizioni più gravi il senso di colpa, lo svilimento e i sentimenti di indegnità sfociano nel delirio. Ciò che di inedito fa Lacan è rivalutare la condizione di partenza della situazione paranoica, vale a dire l’identificazione con un’immagine ideale di sé e di porla alla base del processo di costituzione della soggettività. Non è soltanto il paranoico a illudersi su ciò ma, più in generale, ogni soggetto per superare la condizione – di derivazione kleiniana – del corpo in frammenti («corp-morcélé») vive un’identificazione di questa specie. L’immagine rappresenta in questa fase del percorso lacaniano il mezzo attraverso cui il soggetto raggiunge la certezza illusoria di essere un Io, al posto dell’insieme disperso di pezzetti che rappresentano l’Altro da sé.
Il discorso, che riguarda il ruolo ontogenetico del narcisismo primario, pone dunque alla base della formazione dell’Io l’identificazione illusoria con una maschera immaginaria in grado di dare consistenza a ciò che per natura è disperso e frammentario. Lacan affronta tutto ciò nella celebre tesi dello «stadio dello specchio», secondo la quale il bambino tra i 6 e i 18 mesi, guardando la propria immagine riflessa in uno specchio – lo sguardo della madre ad esempio – prova gioia immaginandosi come un tutto, un Uno, un oggetto assoluto che si padroneggia, al posto del corpo in frammenti («corp morcélé»), le «membra disgiunte», che gli causano umiliazione e avvilimento. La gioia mostrata da questo infante è quella di chi riesce ad emanciparsi dalla condizione di prematurazione ontologica per fare il proprio ingresso nella realtà: «l’assunzione giubilatoria della propria immagine speculare da parte di quell’essere ancora immerso nell’impotenza motrice e nella dipendenza del nutrimento che è il bambino in questo stadio infans, ci sembra perciò manifestare in una situazione esemplare la matrice simbolica in cui l’io si precipita in una forma primordiale»[7]. Questo significa inoltre che la particolare declinazione fatta assumere all’Immaginario con lo stadio dello specchio è in diretta continuità con la dimensione simbolica, in un certo senso ne è la precondizione. La tesi dell’inconscio strutturato come un linguaggio è in continuità con quella dell’Io paranoico.
C’è dunque una precisa dialettica tra Immaginario e Simbolico, tra Uno e Altro, e Lacan nel suo «ritorno a Freud» postula ciò sulla base del carattere strutturante dell’imago ideale che ha il potere di ricondurre il «corps morcelé» ad una totalità immaginaria. La consistenza fornita dall’immagine con cui il bambino, nel corso della precaria esplorazione di un contesto confuso e privo di limiti, poiché coincidente con l’Altro, si identifica sancisce la sua origine paranoica e stabilisce un confine tra un’al di qua pulsionale dello specchio [Je] e un al di là immaginario [Moi]; solo quest’ultimo ha diritto a essere chiamato Io. Tutto ciò non soltanto stabilisce l’origine artefatta di quel senso di unitarietà che orienta lo stare al mondo del soggetto, ma sancisce anche la presenza ineliminabile di un risvolto osceno che mina la presunta pienezza dell’Io, anche di quello apparentemente più solido. E’ ciò che la psicoanalisi intende quando parla di corpo-pulsionale, cioè di insieme disperso e – per molti versi – mostruoso di frammenti che prende parola attraverso gli affetti minando, spesso inconsapevolmente, il voler dire del soggetto. Se quindi, alla luce di quanto detto, questa dimensione appare essere ineliminabile, lo stare al mondo del soggetto non può che configurarsi come singolare e irripetibile, frutto del precario equilibrio raggiunto tra l’Io e il corpo-pulsionale. In ciò si misura tutta la distanza tra l’orizzonte della psicoanalisi e quello delle altre psicoterapie che hanno come termine di riferimento un soggetto normale e universale.
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