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“Quelle nostre speranze di allora”: ancora sul ‘68

20 Giu 17

A cura di dinange


Alle mie ragazze color dell’aurora:
Antonia, Antonella, Ilaria e Viola
 
 
Matilde Callari Galli già nel 1975 aveva fatto notare che l’adolescenza italiana di allora ormai non abitava più – come era stato per le generazioni precedenti – un luogo marginale e distinto dal mondo adulto. Non lo era da quando dopo il boom economico dei primi anni ’60 il consumismo era approdato in quell’Isola che non c’è, allettando per la prima volta i suoi provvisori abitanti, così come i loro più circospetti genitori, con le sirene della pubblicità; e per ciò inserendoli all’interno di un circuito sempre più centrale ed integrale, che imponeva a tutte le fasce di età[1] le proprie leggi ed i propri gusti.
Questo fenomeno – come avremmo compreso più tardi – era potenzialmente dirompente, e destinato a diventare, come abbiamo cercato di dire altrove, uno dei vettori principali che condurrà allo sconvolgimento del nostro vecchio modello di inculturazione, ed in sostanza a favorire il passaggio da un modello educativo incentrato, per dirla con Pietropolli Charmet, sull’immagine di Edipo, cioè di un bambino inteso come vortice istintuale da plasmare attraverso la repressione e\o la sublimazione alla legge del padre, ad una incentrata sull’immagine di Narciso, cioè di un bambino pieno in nuce di ogni virtù e perfezione, e per ciò da adorare e sostenere[2]. Un fenomeno però che, pur essendo già immanente nella scena sociale e familiare, non ci appariva ancora sotto questo aspetto.
Ciò che allora emergeva, a partire dal boom economico e dalle aperture introdotte dalla prima esperienza di centro-sinistra, era l’innesco di una mobilità verticale positiva che permetteva: da una parte il superamento (scuola media unica, liberalizzazione degli accessi all’università) del vecchio modello piramidale sul quale era stata fondata la scuola di élite di gentiliana memoria, dall’altra la ricerca di una nuova speranza di autoaffermazione in fabbrica e nel famoso “triangolo industriale” (Milano – Torino – Genova) da parte di una marea di giovani provenienti dalle zone più povere del Paese destinata a sconvolgere ancora di più gli squilibri territoriali, ma anche a far emergere una nuova classe operaia, più “indisciplinata” e combattiva. Il che costituiva il germe dal quale poi in Italia nasceranno sia il ’68 studentesco che il ’69 operaio.
Ma lì per lì neanche questo elemento fu colto pienamente da noi giovani di allora! E così fummo critici, anzi ipercritici sia nei confronti dei governi di centrosinistra, che pure aveva aperto la strada alle riforme. Sia nei confronti di quella generazione di imprenditori, che pure, fra lacrime e sangue, era stata fra i protagonisti della ricostruzione e del miracolo economico, e all'interno della quale pure c'erano imprenditori 'rivoluzionari' come Olivetti. Così come reattivamente fummo critici, ipercritici (!) nei confronti dei partiti, dei sindacati e di ogni autorità costituita a partire da quella genitoriale, enfatizzando gli aspetti polemici presenti in ogni ‘Edipo’ nel processo di autonomizzazione che conduce all’età adulta.
Il fatto poi che nel nostro sogno megalomanico confluissero varie immagini e varie storie affascinanti del presente e di un passato prossimo che consideravamo tradito, accentuò vieppiù la discontinuità con l’ordine costituito e con la generazione precedente. E ci condusse – subito! – ad intraprendere per emulazione un percorso eroico: la Resistenza e il “Che” innanzitutto, l’esempio che veniva dal Vietnam e da tutte le lotte dei dannati della terra, etc. etc., fino a quell’immagine e a quell’esempio per noi[3] importantissimo di Don Milani!
Ai quali si aggiungevano le figure, le riflessioni e le ipotesi palingenetiche che emergevano dalle nostre letture parallele a quelle ‘scolastiche’[4]: i marxisti classici ed eterodossi, Franz Fanon, i cinesi e i cubani, Marcuse, i francofortesi, i pensatori europei e americani più radicali, gli intellettuali italiani che scrivevano su Quaderni Piacentini e sulle altre riviste di sinistra di quegli anni[5].
La morte del “Che” nell’Ottobre del ’67 e le squillanti vittorie dei Vietcong contro il colosso americano, che proprio nel gennaio ‘68 sfociarono nella famosa offensiva del Têt, fecero da detonatore. Il movimento che – immediatamente in Francia e più tardi da noi – innescò a sua volta le lotte operaie, e dappertutto aprì la strada a lotte e trasformazioni spesso lontane dal sogno rivoluzionario iniziale, fu dappertutto quello studentesco.
Seguì – anche a seguito di una resistenza ottusa, violenta, reazionaria e a tratti golpista di parti consistenti della società e dello stato[6] – un isterilirsi del movimento, un suo auto-ingessarsi, una sua divaricazione fra: – una regressione caricaturale alle mitologie del primo ‘900[7]; – un riflusso meno rabbioso verso gli altri, ma spesso auto-distruttivo; – oppure, più frequentemente, un doloroso, ma più fecondo processo di riparazione ed auto-riparazione (all’inizio confuso e quasi sovrapposto ai primi due sbocchi della crisi).
Dall’esplosione del movimento, e ancor più dalla crisi di questo universo ancora prevalentemente maschile che fu il ’68 italiano, nacque e si sviluppò ‘durante’, e soprattutto poi il movimento femminista italiano che – nonostante la sua distanza, spesso coatta[8], dal mondo delle riforme – fece la sua parte poi nell’accompagnare la trasformazione del Paese che seguì, e che era nata sotto la spinta del ’68.
 
Certo è che tutto ciò avveniva in Italia all’interno di una società che non è possibile definire affluente – perché non era opulenta – ma che purtuttavia, attraverso una vigorosa spinta alla mobilità verticale positiva, aveva permesso a una generazione di giovani di entrare facilmente e stabilmente (sottolineato) nel mondo del lavoro occupando una posizione più vantaggiosa rispetto a quella dei loro genitori. Di entrarvi in maniera costruttiva e critica, grazie alle idee che la caratterizzarono; e nonostante i sogni intrisi d’ideologismo che la attraversavano, soprattutto all’inizio; intraprendendo così da protagonisti quella lunga marcia attraverso le istituzioni di cui parlavamo nel post precedente.
In questo modo il nostro passaggio – cioè quello dei sessantottini – dal sogno megalomanico al progetto realistico, imperfetto e sempre in fieri[9] finì con rendere possibile la realizzazione in termini riparativi ed auto-riparativi di ciò che all’inizio sembrava impossibile.
 
Va detto però col senno di poi che le maggiori difficoltà e le maggiori incoerenze fra ciò che la generazione del ’68 continuò a predicare e ciò che effettivamente fece possono essere riscontrate soprattutto in quell’aspetto importante della riproduzione sociale cui accennavamo all’inizio: e cioè sul piano educativo. Laddove l’adeguamento nei fatti alle sirene della società consumista ha concorso – come tentavamo di dire all’inizio – ad una profonda trasformazione nella formazione della personalità dei nostri figli e dei nostri nipoti.
E non è un caso che oggi coloro che fra di essi riescono a tenere il timone dritto nella devastata società attuale appartengano a quello che io chiamo ‘il residuo anancastico’: cioè – per dirla sempre con Charmet – a coloro che sono stati formati da noi, dalla pre-scuola, dalla scuola e dai media, più nel solco di Edipo che di Narciso.
Detto questo va aggiunto però che se guardiamo alla realtà attuale in termini sistemici diventa un atto di profonda miopia buttare la croce addosso a noi stessi e ai giovani d’oggi; la cui crisi va inquadrata all’interno di quell’insieme di cambiamenti di natura politica, economica e psicosociale che hanno condotto al neoliberismo, o – come diceva Gallino – al finanz-capitalismo.
 
Sul furto di futuro e sui disastri provocati dall’impedimento al pieno e stabile (sempre sottolineato) accesso all’adultità che viene da questo versante ho già detto in più occasioni (cfr. fra tutti: La fine dell'adolescenza e l'ingresso nell'età adulta oggi).
 
Quando noi sessantottini pensiamo ai giovani d’oggi proviamo spesso rabbia nei confronti di quella che, sbagliando, consideriamo una loro incapacità a reagire collettivamente; che invece è una loro impossibilità, di fronte alla quale anche noi dobbiamo sentirci in colpa. E non per piangerci addosso, ma per provare ancora una volta a reagire insieme ad essi in termini riparativi ed autoriparativi.
Sarà questa la nostra ultima battaglia?
 
Reggio Emilia, 20.6.17
 
Bibliografia:
 
– Bergeret J, Personalità normale e patologica, Cortina, Mi, 1984
– Callari Galli M., L'antropologia culturale e i processi educativi, La Nuova Italia, Fi, 1975
– Gallino L., Finanzcapitalismo, Einaudi, To, 2014
– Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, R. Cortina, Mi, 2000
 

 
 

[1] Di lì a poco la pubblicità sarebbe stata diretta anche ai bambini. E addirittura agli adulti per tramite dei bambini!
[2] In altri termini: da una personalità di tipo ‘anancastico’ ad una di tipo ‘anaclitico’, nel senso che a queste due parole dà Bergeret.
[3] E anche questo era un dato generazionale: ricordo ancor oggi vivamente lo stupore e le perplessità dei vecchi docenti di sinistra nei confronti di questo ‘prete del Mugello’ che osava criticare così pesantemente la scuola.
[4] Si! come come ebbe a dire poi il mio amico e compagno di lotte Mauro Rostagno, tutti “ci cibavamo di libri”.
[5] Ricordo vivamente l’impressione che fece a noi ‘trentini’ di Sociologia la lettura dei metodi di democrazia interna usati dallo SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee): l’allora famosa ‘efficienza Snik’ basata sul fatto di non prendere decisioni fino a che non si fosse raggiunta l’unanimità in assemblea: un prototipo di democrazia diretta che non riuscimmo mai ad imitare. Anzi!
[6] la Strage di Stato è del 12 Dicembre 1969
[7] che giunse fino al ripristino dell’azione esemplare di stampo sostanzialmente anarchico (colpiscine uno per educarne cento)
[8] Ad esempio qui in Emilia e Romagna la nascita e la istituzionalizzazione dei Consultori coincise con la estromissione da essi delle femministe, che pure avevano lottato per istituirli.
[9] più tecnicamente è il famoso passaggio dal prevalere in adolescenza di un Ideale dell’Io megalomanico e onnipotente all’emergere di un Super Io adulto riparativo ed autoriparativo, che parte dalla autoconsapevolezza della propria sempre relativa potenza.

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