Dei lavori che ho svolto in vita mia, l’assistenza domiciliare è il più impegnativo. Anche più impegnativo del lavoro in comunità residenziale per bambini con difficoltà psichiche gravi. Lavorare con persone che hanno una certificazione psichiatrica, da soli, senza colleghi, almeno non presenti con te… sola, ma immersa nell’Istituzione famiglia!
Nel caso di Chichi, di cui vi racconto, almeno quest’aggravante non c’era. Questo lo rendeva meno complesso, faticoso e fallimentare, della media, degli interventi di assistenza domiciliare; dove, quando l’equilibrio viene rotto dal miglioramento del paziente, di solito, si rischia di venire cacciati via da un altro membro della famiglia.
Ho cominciato a lavorare come assistente domiciliare a metà degli anni ’90. Allora ce n’erano diversi, come me, studentessa, poi laureata specializzanda, poi laureata specializzata, bisognosa di lavorare e di formarmi clinicamente sul campo. Ma la maggioranza erano neri, filippine… Qualche aspirante artista che non riusciva a mantenersi e qualche giovane che era sfuggito appena dalla certificazione psichiatrica degli utenti.
Il lavoro in cooperative per l’assistenza domiciliare si trovava più facilmente di ora. Io lavoravo per la Cooperativa Cecilia di Roma, sotto la direzione di Otmar Albertini, un collega lacaniano, che avevo conosciuto alla Scuola di Specializzazione quadriennale post-universitaria, l’Istituto Freudiano.
Andavo 4 pomeriggi a settimana, per 4 ore, a casa di una signora di mezz’età che viveva sola in un palazzo piccolo-borghese di quegli anni, sempre meglio che ora.
La signora Chichi aveva creato problemi ai vicini che frescheggiavano nel cortile condominiale, lanciando loro bottiglie di vetro. Era piccolina, un po’ sovrappeso e con qualche problema agli occhi. Per quattro ore giocavamo a dama, ascoltando la radio.
La signora si era calmata, aveva anche leggermente superato la grande depressione che aveva attraversato, nel senso che si alzava, non rimaneva a letto tutto il giorno, ma non usciva di casa da anni, qualcuno, forse anche le figlie sposate, si occupavano della spesa, alla mattina. Io andavo il pomeriggio e non ho mai incontrato nessun altro, a parte Chichi.
Abbiamo passato mesi giocando a dama e parlando poco e del più e del meno…. Grande appiglio è stato Caterpillar di RadioDue, che a lei piaceva ascoltare, ogni giorno.
Finalmente ho imparato, a un certo punto, ho lentamente cominciato a essere per lei un’avversaria meno noiosa, ho apprezzato le ipnotiche danze finali delle dame, walzer che sembrano infiniti e la musica che ti porta lontano dai tuoi problemi, dalla tua vita di tardo-giovane incasinata sentimentalmente, dal tuo lavoro poco pagato per le cooperative, e mettici pure quasi un’ora per arrivare e per tornare… in autobus…
Ma le dame roteano ignare sulla pista da ballo e io ho cominciato perfino a vincere.
Chichi allora, sempre di più, raccontava del suo matrimonio, giovani e meridionali trapiantati a Roma e niente in comune. Lei riassumeva così più di vent’anni di matrimonio:
“Stavo sempre a friggere… Una puzza di fritto…”
Il marito lavorava e amava la cucina del sud, soprattutto il fritto… Nient’altro è degno d’interesse su di lui, neanche l’ombra di un sentimento, o di un piacere sessuale.
Delle figlie ha un bel ricordo. Nel presente non sono né buone né cattive.
“Non ti sposare mai, i figli però sì, i figli sono belli..”
Piano piano mi dice che le piace la pittura, mi mostra qualche opera figurativa, fatta da lei, passiamo un po’ di tempo a guardare e commentare foto di quadri su dei libri.
Non giochiamo più per 4 ore, ma dopo un po’ comunque lei fa:
“Non ci pensiamo… giochiamo”.
E le pedine saltano sulla scacchiera.
Altre volte mi dice che le piace la poesia, mi fa leggere alcune sue poesie e passiamo del tempo a leggere opere poetiche di autori classici, da una sua antologia. Poi:
“Vabbè non ci pensiamo, giochiamo…”
E così comincia a uscire, per piccole commissioni, per fare la spesa, perfino per fare delle passeggiate.
Quasi sempre giochiamo anche a dama, ma a volte no.
Non mi dispiaceva passare quattro ore a giocare a dama, con una signora educata e per bene; mi offriva sempre tè e biscotti.
La mia posizione era dettata dai principi della pratique à plusieurs di Antonio Di Ciaccia. L'esperimento ha avuto inizio nel 1974, e continua ancora oggi, all’Antenne 110, un'istituzione che si trova a Genval, nei pressi di Bruxelles.
Punto uno: non mettersi sull’asse immaginario, non occupare la posizione del sapere, quindi non fare mai interpretazioni, essere segretario dello psicotico. Punti fermi fondamentali che Di Ciaccia ha preso dalla psicoanalisi di Freud e Lacan, mettendoli insieme alle basi dell’animazione: fare qualcosa insieme, possibilmente di divertente, meglio se per entrambi: l’utente e l’operatore.
Dunque, il punto Uno è funzione della posizione autistica e psicotica. Occorre evitare quel luogo che per il nevrotico è quello della repressione, mentre per lo psicotico può essere il luogo del ritorno del reale, che non era stato simbolizzato.
(Antonio Di Ciaccia inOrnicar http://wapol.org/ornicar/articles/234gre.htm).
L’assistenza domiciliare è utile all’utente, se aiuta a migliorare l’ambiente familiare, casalingo, e questo, per gli utenti in posizione autistica e psicotica, dipende dalla capacità del lavoro collettivo di schermare il godimento di troppo, su cui fallisce l’Istituzione familiare. (Ibidem)
Occorre, già in quanto segretario dell’alienato, come dice Lacan, affiancarsi al soggetto, nella lotta già avviata per regolamentare l’Altro sregolato e completo. Farsi parte della catena, frutto del lavoro. Apprendere i loro significanti. Invece di interpretare, occorre dare dignità all’elaborazione metaforica soggettiva. Secondo le parole di Virginio Baio: "docili al tema e intrattabili con l'Altro".
Il gioco della dama è stata la proposta di Chichi. Non ho mai cercato di scavare sul suo passato, o sul suo presente. Cercavo sempre di trattenermi dall’interrogarla, per esempio sulla sua passione per il gioco della dama. Le tracce simboliche si reggevano essenzialmente sulle regole della dama, e il mio intento era di distrarmi dalla mia curiosità e dal furor curandi.
Il mio cervello ha lavorato per concentrarsi sui movimenti delle pedine sulla scacchiera e Chichi ha potuto raccontare, riordinare i ricordi, compreso un delirio paranoico, in cui il marito, dopo essere stato il responsabile di un brutto incidente, ha scontrato con la sua macchina quella dove viaggiavano Chichi e il suo amato cugino, che è morto.
Chichi ricoverata molto grave e per lungo tempo in ospedale sente il marito che complotta per farla morire e vendere i suoi organi.
Quando esce non ne vuole più sapere di lui. Vive sola, ma non si alza dal letto, se non per gettare bottiglie sui condomini che chiacchierano in cortile. Quel cortile che abbiamo cominciato a frequentare anche io e Chichi, parlando con gli adulti e giocando con i bambini.
0 commenti