- LAI-II trimestrale : la freccia nel ventre di una scienza molle?
La recente disponibilità, in Italia, di un preparato LAI-II trimestrale (peraltro arrivato con notevole ritardo rispetto ad altri paesi europei), non ha mancato di sollevare, sia a livello più generale, che a livello individuale, ovvero nei singoli operatori della Salute Mentale (psichiatri e altre figure), atteggiamenti, fantasie, prese di posizione assai diverse.
In alcuni casi diametralmente opposte.
Che in ogni ambito della conoscenza ci siano prospettive diverse non deve stupire, anzi, è di arricchimento. Quello che sconcerta, nel nostro ambito, è che, a volte, sembra si parli senza un minimo comune denominatore. Questo solleva inquietanti interrogativi, non tanto rispetto alla ormai nota variegata organizzazione (o disorganizzazione) dei Servizi di Salute Mentale sul nostro territorio, ma rispetto al fatto che un utente (psicotico) può andare incontro a percorsi terapeutici e di vita completamente diversi a seconda degli operatori e dei Servizi che incontra. Forse una disciplina che si perita di appartenere a pieno titolo alla medicina, con la stessa dignità delle altre branche e vantando lo stesso diritto dei suoi pazienti ad essere considerati innanzitutto come pazienti aventi dignità, cure e pari opportunità degli altri, degli “organici”, dovrebbe lavorare per una maggiore omogeneizzazione delle possibilità e dei percorsi di cura. Ma questo, mi rendo conto, è già un altro discorso.
Questo mio intervento vuole essere lo stimolo per una riflessione intorno alle ambivalenze e reazioni diametralmente opposte sollevate dalla comparsa, in questo nostro panorama, di uno stimolo esterno : il LAI-II trimestrale.
Esse ci rimandano ad interrogarci sullo statuto epistemologico della psichiatria stessa, sul fatto cioè che la psichiatria è una disciplina o una specialità medica sui generis, e sul fatto che esiste una dicotomia, a tratti quasi ormai inconciliabile, tra una psichiatria ufficiale, di consensus, di linee guida, di riviste indicizzate e impattate, di meta-analisi, di convegni e una psichiatria fatta, invece, da migliaia di singoli psichiatri, o di operatori a qualunque titolo della Salute Mentale, i quali hanno in testa ognuno un proprio modello di psichiatria, oppure una propria idea di psichiatria (anche senza un modello), oppure, semplicemente, nessuna idea di psichiatria o di Salute Mentale, con tutte le specifiche che distinguono i due semantemi (psichiatria e salute mentale). Una psichiatria o una Salute Mentale che sopravvivono a se stesse, nel cuore di operatori che sono come gli Alpini durante la disastrosa ritirata sul Don o come i fanti nelle buche di sabbia ad El Alamein, laddove, come recita un detto “mancò la fortuna, non il valore”.
Tutto questo conflitto confusivo, senza possibilità di pacificazione, in genere scorre nel silenzio, nella routine, divorato della problematicità della vita quotidiana, perdendosi tra le maglie delle variegate regionali organizzazioni dipartimentali, senza che il suo rumore di fondo arrivi a coagulare delle voci specifiche, di dissenso o di proposizione. Senza evocare alcuna presa di posizione specifica. Nel silenzio colpevole delle Società scientifiche. Purtroppo anche il clima dei convegni della specialità e delle varie società scientifiche, meno pomposi di un tempo, ma comunque ben rappresentati, è evitante rispetto al sollevamento di queste ambivalenze e di questi conflitti. Portare la pelle a casa, tra 118, VVUU, CC et similia, tra autori di reato presunti malati mentali e intossicazioni di vario tipo, homeless e dementi, ragazzini dirompenti e …in tutto questo…con il carico degli psicotici (i nostri legittimi e appropriati pazienti), non mette gli operatori in condizioni di ragionare serenamente sulle opportunità di una nuova chance terapeutica. Soprattutto quando essa gli viene presentata in contesti patinati, edulcorati, lontani dai teatri applicativi, come può essere lontano un laboratorio dal caos vertiginoso della vita.
Quanto affermo è enfatizzato dalla totale scomparsa della discussione, ai convegni, dopo le presentazioni patinate. Lo spazio delle giornate congressuali è, in genere, ipersaturo di presentazioni, l’ascolto della platea è passivo, la discussione molto carente o assente, i corridoi o le hall degli hotel sempre più pieni rispetto alle aule dove si tengono le presentazioni. Andare ad un convegno, vista anche la scarsa attrazione degli argomenti, il senso di avere davanti delle presentazioni che rispondono a dei format scontati, come i paper sulle riviste, la lontananza del punto focale del relatore dall’attività quotidiana del signolo operatore sono elementi che demotivano all’ascolto. E’ del resto oggettivamente difficile mantenere il focus attentivo su relatori che sforano sistematicamente i tempi e che, pur preparati sui contenuti, in alcuni casi (non rari) mancano completamente del saper porgere e tenere viva l’attenzione dei colleghi.
Quante cose sarebbero da valorizzare, invece, nell’esperienza dei singoli operatori, quanto potrebbero parlare le loro cicatrici, le loro storie, se venisse previsto uno spazio di confronto reale. Ovvero se venissero dedicate delle ore solo alla discussione dei partecipanti su di un tema. Anche il ritrovarsi per gruppi, dopo le plenarie, non riesce a soddisfare questo obiettivo. Perché i gruppi sono pilotati, e quindi falsati. Casi clinici preparati e risposte da televoto invece di favorire una partecipazione attiva incoraggiano l’anonimato. Innalzano le difese passive. Lo stesso dicasi per l’attività di ricerca o didattica delle varie cattedre universitarie di psichiatria. Si procede, in genere, come se la psichiatria fosse un comune branca medica, evitando accuratamente di circoscrivere uno spazio di dibattito attorno alla reale natura della psichiatria, ovvero alla creazione, che andrebbe operata già nello specializzando, di una coscienza critica della psichiatria e dello psichiatra. Una sorta di critica della ragione psichiatrica permanente, parafrasando l’opera di Kant che ha inaugurato l’età moderna, capace di creare un ambito di tolleranza critica, produttiva e non paralizzante tra i diversi paradigmi che la abitano. Se dovessi concepire un corso per gli specializzandi…, anzi, voglio cambiare la prospettiva : mi sarebbe piaciuto tanto se, all’epoca della mia specializzazione, fosse venuto in aula un tizio la cui materia si fosse chiamata : critica della ragione psichiatrica, oppure : epistemologia critica della psichiatria.
Da un qualche tempo il prof. Maj, con la lucidità che contraddistingue i suoi interventi, riprendendo la riflessione epistemologica di Thomas Kuhn, è solito dire che la psichiatria è uscita dalla sua fase paradigmatica di scienza normale, in quanto non ha soddisfatto, nell’arco di un secolo, la sua ipotesi fondativa, ovvero che le malattie mentali sono tout court malattie del cervello con una precisa base anatomo-patologica e fisio-patologica (ipotesi di Griesinger) e, pertanto, è finita da un pò in una fase post-paradigmatica di scienza rivoluzionaria. Ovvero di scienza senza più un paradigma, nuovamente alla ricerca della propria identità. Purtroppo nell’ambito della convegnistica e della vita accademica e territoriale della psichiatria e della salute mentale questo discorso non trova l’eco che merita. Ecco perché vorrei provare a rilanciarlo a partire dalla “semplice” osservazione che l’introduzione di una nuova (più diluita nel tempo) possibilità terapeutica (LAI-II trimestrale) solleva un polverone di atteggiamenti diametralmente opposti in seno alla comunità degli specialisti, avanzando la domanda se non sia il caso di aprire una radicale riflessione su cosa possiamo condividere per rilanciare un nuovo paradigma.
- LAI-II trimestrale : il “luminol della perplessità” negli psichiatri
Vorrei provare a riassumere di seguito gli atteggiamenti della comunità degli psichiatri italiani reattivi al LAI-II trimestrale, e vorrei farlo in modo molto schematico, estremizzato e controverso, cioè esponendoli per tesi e antitesi, come pregudizi antinomici contrapposti, per continuare poi la discussione. Così come il reattivo luminol evidenzia tracce di sangue normalmente invisibili, così l’introduzione di questa chance terapeutica ha evidenziato i pregiudizi cresciuti tra le crepe del nostro assetto di cura post-paradigmatico.
- IL LAI-II trimestrale : i pregiudizi e gli anti-pregiudzi.
- Si tratta di una terapia che ingabbia il paziente in un trattamento farmacologico irreversibile, cioè cui è poi difficile tornare indietro. Qualunque cosa capita al paziente nell’intervallo di tre mesi dovrà essere gestito pensando che una ineliminabile quota di farmaco è in circolo;
- Si tratta di una terapia che libera il paziente dal Servizio, favorendone il distacco, la dimenticanza da parte degli operatori, il paziente tende così a scomparire;
- Se si immagina un certo numero di pazienti messi in trattamento in questo modo è anche il Servizio a sentirsi liberato dalla pressione dei pazienti, dunque per questo disoccupato;
- La malattia psicotica ha comunque le sue ricadute nonostante la medicalizzazione precoce, stabile e continuativa. Dunque questo sforzo è inutile;
- In psichiatria la diagnosi non è mai certa, pertanto sulla base di una diagnosi che può cambiare si mette in trattamento un paziente in maniera cristallizzata, iperduratura e cronica;
- Ora hanno inventato il tre mesi poi si ci sarà il sei mesi e poi quello di un anno. Finiremo per controllare chimicamente con poco sforzo l’umanità tutta.
7. tutta la spinta sui LAI-II ha a che fare con la scadenza dei brevetti delle case farmaceutiche sui farmaci orali. Adesso, che nulla di nuovo è stato inventato, devono spingere solo sulla formulazione diversa;
Anti 7: brevetti a parte, la formulazione LAI ha una diversa farmacocinetica che influenza anche la farmacodinamica, fino al punto da rendere incomparabili per efficacia e riduzione delle collateralità la terapia con un LAI rispetto alla terapia con un orale. Perché non sfruttare comunque l’interesse di un’azienda se può avere una ricaduta positiva sulle nostre prassi terapeutiche?
8-“Io non sono per i Long Ancting. Li considero i farmaci simbolo dello scadimento della relazione e della cronicità. I pazienti che seguo preferisco che prendano le terapie consapevolmente, all’interno di un clima terapeutico di fiducia, anziché che vengano curati passivamente con il long acting”.
Anti 8: il LAI-II è diverso dal LAI-I. In particolare il trimestrale richiede una stabilizzazione e dunque una relazione costruita con il paziente. Si tratta di un farmaco da poter dare all’inizio della malattia e non alla fine, con l’idea di modificare il corso stesso della malattia. Questa filosofia comporta un lavoro di alleanza con il paziente ed un progetto di lunga durata con il paziente. Paradossalmente la prescrizione orale è meno vincolante, e risente di un contatto episodico, che non si impegna sul suo seguito. Inoltre illude il paziente che la terapia sia di breve durata, attribuendo al paziente la responsabilità di assumerla o meno. E’ un non impegnarsi del medico avere un pregiudizio nei confronti del LAI.
9. se i pazienti assumono stupefacenti questi vanno ad agire sul farmaco in corso e creano problemi.
Anti 9: la presenza di un farmaco costante che occupa in parte i recettori su cui agiscono gli stupefacenti riduce l’effetto degli stupefacenti stessi e aiuta il paziente a sentirsi protetto. Inoltre la non disponibilità di orale nelle mani del paziente evita le assunzioni non terapeutiche dello stesso farmaco.
10. Le psicosi procedono per crisi, poi c’è un rientro nella normalità. Solo le crisi vanno trattate farmacologicamente.
Anti 10. Alcune psicosi sono cosi, ovvero assumono il significato di reazioni psicotiche. Ma la malattia psicotica è pervasiva e i sintomi maggiori distaccano il paziente dalla vita sociale. In questi casi anche al di fuori delle crisi permangono sintomi di base radicati nella modifica della struttura mentale del paziente. Pertanto il trattamento antipsicotico deve coprire sia la fase critica che quella intercritica.
- LAI-II trimestrale : la scomparsa della terapia?
E’ opportuno ricordare, a questo punto della discussione, che le indicazioni del trimestrale sono limitate ad un sottogruppo di pazienti stabilizzati già con un LAI-II di medesima molecola. Dunque concernono un pool limitato di pazienti. Virtualmente in crescita, certo, se le evidenze daranno riscontro positivo. Nel senso che si recluteranno pazienti al trattamento proprio con una certa molecola in vista della possibilità del trimestrale.
Come mai non riusciamo ad entrare in un’ottica laica, post ideologica, aperta alla sperimentazione, al confronto, alla rilevazione delle risposte soggettive dei pazienti e delle loro famiglia? Come mai non riusciamo ad accogliere una novità senza esaltazione ma anche senza demonizzazione? Quali sono le paure che ci pervadono? Da dove viene questo senso di sfiducia che abbiamo nei confronti di ogni elemento potenzialmente innovativo? Come siamo arrivati a questo punto? Vorrei provare ad andare più in fondo.
A mio avviso le tesi antinomiche che ho sopra esposto, certo radicalizzate, ma raccolte nei corridoi dei vari convegni, nascono dalla mancanza di intesa su alcuni concetti fondamentali.
I Servizi italiani sono nati sull’onda di un grosso movimento di rinnovamento sociale e politico, che ha coinciso con l’avvento della modernità nel nostro Paese. Poi la marea si è ritirata. Il reflusso ha lasciato scoperte spiagge deserte e detriti. Scoprire che oggi, la maggior parte dei pazienti affetti da psicosi, in “carico” presso questi nostri Servizi, non beneficia d’altro che del trattamento farmacologico è assai deludente. Ecco che se quel trattamento è minacciato da una scomparsa (quattro iniezioni l’anno configurano una sorta di ghost therapy), allora si corre il rischio di sentire attaccata la propria ultima e unica funzione, che è quella del prescrittore o dell’erogatore di farmaci con modalità ricorrenti brevi. Oppure si ha il timore di perdere i pazienti con un rapporto diventato lasco (ma è solo limitato al long acting mensile?)
- About Psychiatry and Mental Health: di cosa siamo convinti?
Di seguito una serie breve di “fondamentali” che dovrebbero essere condivisi, ma che, evidentemente, non lo sono.
- Le psicosi assimilabili al gruppo delle schizofrenie (originaria definizione bleuleriana, al plurale) rappresentano delle modalità pervasive, capaci di modificare profondamente la struttura psichica del soggetto colpito; hanno un’eziopatogenesi multifattoriale, un decorso cronico recidivante;
- Le recidive psicotiche peggiorano enormemente la capacità di riadattamento del soggetto;
- La terapia farmacologica razionale è un cardine nel trattamento a lungo termine dei soggetti affetti da psicosi;
- I soggetti affetti di psicosi in trattamento farmacologico si giovano moltissimo di modalità di trattamento non farmacologico;
- Un Servizio deve sviluppare ambiti attrattivi nei confronti degli utenti, da un lato volti a promuoverne l’autonomia, dall’altro volti a rinforzare il legame con il Servizio stesso.
Se questi pochi assunti fossero condivisi personalmente mi sembra strano che l’introduzione di una formulazione LAI-II trimestrale possa configurare un pericolo, una minaccia, o il rischio di una espropriazione della cura dalle mani dello psichiatra o dell’equipe curante. Se i Servizi e le equipe sono ridotti, invece, alla pochezza del dover vincolare i pazienti a terapie più brevi, allora dovrebbero spostare l’interrogativo sulla propria ragione di continuare ad esistere.
- La psichiatria riduzionista : il canto del cigno
Dopo l’avvento delle teorie della complessità, avvenuto alla fine del secolo scorso, sembra che le società post-moderne o iper-moderne stiano flirtando sbrigativamente con la semplicità, o con la semplificazione (riduzionismo). Viviamo in un mondo easy. Ci spostiamo come-dove-quando vogliamo, grandi masse si spostano abolendo le barriere del tempo e dello spazio. Non c’è più tempo per le cose difficili, complicate, complesse. La complessità non è più di moda. I percorsi di istruzione si scheletrizzano. Non si studia più su tomi polverosi e gravosi. Le informazioni si inseguono nell’etere e durano lo spazio di un mattino. La patologia borderline, tra le cosiddette psicopatologie del presente, è diventata onnivora. Privata del suo peso specifico psicopatologico-clinico, anche la nostra psichiatria è diventata easy, da bere, liquida. Pensiamo di derubricare la schizofrenia, alla stregua di come abbiamo derubricato in bipolar disorder la follia circolare maniaco-depressiva e la melanconia endogena in depression. L’angoscia con le sue stratificazioni vertiginose è il DAP e la follia del dubbio è il DOC. E così via.
Siamo iperconnessi, stiamo poco con i nostri pazienti, parliamo poco, anche con gli amici o con i partner amorosi, con i figli o con i vicini di casa. Tutto ciò che è complicato, complesso, come stare, parlare, ingaggiarsi, impegnarsi, progettare sul medio lungo termine è fuori moda. Le tecniche che si affermano in tutti i campi, rispondono ai criteri di costi bassi, funzionalità, e poi via, sostituzione. Questo è easy. La forma e la consistenza delle nostre automobili, delle nostre motociclette, delle nostre case, dei nostri vestiti, risponde a questo. Anche la medicina d’organo è così. Addio semeiotica, addio observatio et ratio, imaginng e dati a tappeto, protocolli, e via. Dimissioni.
Ma la psichiatria? Si presta male. Come ogni pratica artigianale. Si presta male alla mdalità easy. La psichiatria vuole tempo, vuole spazio. Il tempo e lo spazio sembrano avere costi sociali insostenibili. Nei nostri studi privati ridiventiamo, tutti, quello che con difficoltà siamo nel pubblico: gli psichiatri dell’ascolto, gli psichiatri dell’incontro. Facciamo lavorare il nostro vecchio controtansfert. Cerchiamo l’intuizione, l’immagine, la metafora. Ci soddisfa vedere il passaggio in avanti del paziente lungo un percorso. Sono i pazienti, piuttosto, che non hanno tempo, o non hanno denaro. E ci chiedono scorciatoie. Percorsi di riadattamento veloce, piuttosto che di ristrutturazione. Di cosmesi psichica, farmaco-psicoterapeutica, piuttosto che cantieri di scavo. Ad ogni modo, per easy che si voglia essere, la psichiatria non è easy. E’ rimasta intrappolata nella complessità. Che lo vogliamo o no, le psicosi rimangono il nostro nucleo duro, e ce ne dobbiamo fare carico. E non possiamo farlo nei nostri studi privati, se non in misura estremamente limitata. Essendo le psicosi disturbi complessi, necessitano di interventi complessi.
In questo scenario la possibilità di avere farmaci LAI di nuova generazione, mensili o trimestrali, con la possibilità di lasciare sullo sfondo la terapia, e di riassumerci l’onere della complessità, potrebbe essere anche una chance. Anziché diventare l’inizio della fine. Ma questo ha a che fare con la nostra disponibilità a riassumerci la complessità come mission. Sembra una battaglia di retroguardia. E’ una battaglia di avanguardia. E’ per l’umano incarnato nell’irriducibile complesso, che noi siamo schierati, ogni volta che incontriamo, ascoltiamo e curiamo un nostro paziente. La psichiatria medico-riduzionista ha occhieggiato al mondo easy. Per troppi anni, liberandosi delle zavorre. L’assunzione di una nosografia puramente descrittivo-acritica e l’adozione della farmacoterapia come principale modalità di gestione della complessità psicotica non ci hanno fatto onore. Hanno reso i nostri convegni noiosi, e hanno allargato la forbice tra i ricercatori che necessariamente debbono ridurre la complessità al dettaglio semplice per poterla studiare (il recettore, la sinapsi, la sub unità molecolare) e i clinici o gli operatori che hanno a che fare con il mondo delle persone e con le persone nel loro mondo.
Se la psichiatria medica si ostina ad appiattirsi sul riduzionismo, non riesce più, evidentemente, a tenere lo spazio della storia. Il numero degli psichiatri diminuisce progressivamente in tutto il mondo occidentale. La psichiatria non è più cool come scelta professionale, non ha appeal sociale. La formazione è lunga, costa, ed è finalizzata a due cose semplici, diagnosi e terapia farmacologica, pertanto meno psichiatri e più operatori manager-gestori delle economie vitali dei pazienti. Il paradosso è che anni di psichiatria di questo tipo ci rendano perplessi di fronte ad una nuova modalità di terapia, come se ormai fossimo inerti, resilienti, basiti, diffidenti, demotivati. Stanchi.
E’ paradossale che la comparsa di un farmaco trimestrale sollevi angosce come quelle sopraesposte.
E’ un farmaco, come un altro, migliore di un altro, saranno i fatti a dirlo. Intanto noi dobbiamo recuperare le altre anime della psichiatria, le anime perdute per strada : quella psicodinamica, quella fenomenologico-psicopatologica, quella sociale, quella culturale.
E’ questa la psichiatria che non teme l’avvicendarsi dei trattamenti biologici, poiché li incastona in un sistema complesso, di cui essi vanno a poco a poco ad occupare lo sfondo. Non li teme perché l’architrave del trattamento è l’incontro : volto, gesto, invito, scommessa, rischio.
Personalmente, forse un po’ in controtendenza, trovo invece affascinante l’idea di una ghost therapy, ovvero di una terapia a scomparsa, che mi tolga il problema di contrattare sul farmaco, e mi dia la possibilità di occuparmi di altro, di occuparmi del paziente, finalmente, e della mia vicenda umana con lui. Ci sono cose, nella psichiatria della complessità che non possono essere vicariate e surrogate da nessun’altra figura professionale che non sia uno psichiatra, medico e uomo insieme.
Queste, credo, sono le cose che ci hanno consentito di strappare i nostri pazienti delle catene giudiziarie prima, con Pinel, dalla segregazione dell’internamento asilare dopo, con Basaglia. Queste sono le cose che ci fanno entrare nelle case, che ci fanno andare per le strade, che ci fanno essere, nell’emergenza, gli interpreti della crisi, coloro che la decodificano e che consentono ad un gruppo di riallacciare, a poco a poco, la relazione saltata con un singolo. Questa è la psichiatria che non teme i LAI. Che non teme gli elettroshock, che non teme le contenzioni, che non teme i trattamenti sanitari obbligatori e non teme di entrare nelle celle delle carceri. Questa, che non teme i suoi strumenti, poiché mai si identifica con loro, è la psichiatria che è praticata, ogni giorno e ogni notte, di domenica, a Natale e a Pasqua e a Ferragosto (quando non si tengono i convegni) sulla pelle di migliaia di psichiatri, i quali, sebbene lasciati soli, nonostante il burnout, usano ancora se stessi, con i pazienti, in mancanza di tutto.
A volte anche in mancanza delle cose di base. Accumulando ore di lavoro, stanchezza, mettendo da parte le ferite delle proprie vite personali. Molti di questi psichiatri sono e siamo stanchi, anche non più verdi negli anni, ma facciamo ancora il nostro lavoro.
Sono questi i colleghi che incontro nei corridoi dei convegni, nei buffet all’impiedi, a fumare fuori dalle porte girevoli, quelli che forse sarebbero anche disposti a confrontarsi, se qualcuno chiedesse il loro parere, oltre che a considerarli vasi vuoti da riempire di certezze e di paure, come se i dubbi di ogni giorno non avessero scavato dentro di loro gallerie di diffidenza. Lo schiacciamento degli ultimi venti-trentanni anni sulla psichiatria riduzionista, forse anche per bilanciare l’eccesso di antipsichiatria, hanno prodotto solo vuota perplessità.
E la perplessità non favorisce l’assunzione di responsabilità.
Soprattutto non favorisce l’inoculazione di speranza nei pazienti e nei loro familiari, che, da sempre, dal trattamento morale al LAI-II trimestrale, accompagna la comparsa di ogni nuova terapia in psichiatria.
Sono un estremista e penso
Sono un estremista e penso che non sia compito dello psichiatra obbligare alla consapevolezza proprio il paziente, ma lasciarlo libero di vivere la propria superficialità come il 90% delle persone, incluso, generalmente, anche gli psichiatri. Penso anche che non ci sia nulla di superficiale nella superficialità del mondo moderno e nella felicità che ne consegue. Demonizzare il mondo moderno è romantico e decadente…
Uno scritto meraviglioso.
Uno scritto meraviglioso. Gilberto Di Petta conferma con questo lungo contributo di essere maestro: per cultura, capacita intellettuali, impegno clinico e volontà di condivisione. Ancora una volta ci fa sentire orgogliosi di essere psichiatri, riqualificando di nuovo il nostro dimesso abito identitario: avendo il coraggio di recuperare posizioni non scontante nell’ambito del dibattito odierno, che rischia di essere appiattito tra posizioni ideologiche antiche (ora di maniera) e ingenui attestati di fiducia ad una informazione farmaceutica troppo piegata agli interessi economici. Il farmaco antipsicotico genericamente modula una relazione, che viene disturbata dalla psicosi, quella tra soggetto e mondo e plasma un’altra relazione, quella tra specialista e paziente. E’ il prescrittore che usa lo strumento e non se ne fa usare; ne è padrone quando conosce la natura psicopatologica del disturbo, ne individua la collocazione nosografica, riesce a prognosticarne quando possibile il percorso evolutivo, valuta la posizione che assume la persona di fronte alla malattia e di fronte alle modifiche indotte dal farmaco: qualunque sia la copertura temporale che la formulazione farmaceutica fornisce. Grazie Gilberto!
Caro Giorgio, grazie per aver
Caro Giorgio, grazie per aver colto questo senso di orgoglio. L’orgoglio di essere psichiatri. Basta con il senso di colpa dell’internamento, basta con il senso di colpa di non essere riusciti a cambiare il mondo, basta con il senso di colpa di non essere riusciti a piegare lo stigma, con il senso di colpa di non essere riusciti a dare una base anatomo-patologica o fisio-patologica a tutti i disturbi mentali, con il senso di colpa di non aver trovato approcci psicoterapeutici risolutivi. Basta. Sono molte le cose che la nostra disciplina, frutto dell’illuminismo francese (insieme a libertà uguaglianza e fraternità) non ha realizzato. Ma sono altrettante quelle che ha realizzato. Tu sottolinei l’equazione personale e relazionale del nostro lavoro : questo è esattamente il futuro. In questi giorni invio alla collega di un csm un paziente in trattamento con risperidone da 37.5, che, purtroppo, a seguito di un abuso alcolico ha riavuto uno scompenso molto grave con tentato suicidio, chiedendo alla collega di passare al paliperidone 150 mensile, e la risposta è : da protocollo posso passare solo al paliperidone 75. Io questo protocollo non lo conosco. E mi risulta che le dosi vadano modulate sulla gravità del quadro clinico. Come in ogni ambito della medicina. Stiamo diventando la più protocollare delle discipline. Forse proprio per reggere un vuoto, più interno che esterno. La formazione degli psichiatri deve essere permanente e sottoposta a verifiche periodiche. La psichiatria cammina sulle nostre gambe. Ti abbraccio.
Non ha senso parlare di
Non ha senso parlare di farmaci se non si precisa l’uso che se ne fa. Gilberto Di Petta, in quest’articolo, ci offre una chiara illustrazione di un uso “terapeutico”, nel senso più autentico del termine. Il farmaco ha un senso se utilizzato, innanzi tutto, per favorire la relazione terapeutica, in pazienti che non sarebbero altrimenti raggiungibili; ed il farmaco di cui si discute nello scritto si adatta a svolgere tale funzione, offrendo al rapporto tra curante e paziente il tempo, la continuità e la stabilità che gli occorrono. Un rapporto intensamente vissuto, empatico, ha il potere di creare un contatto vivificante tra i mondi interni delle due persone che vi partecipano. Solo se il paziente si è sentito parte di questo rapporto, egli può rientrare in contatto con la parte più autentica di se stesso, e tornare a vivere una vita il più possibile piena. Al contrario, un uso dei farmaci al puro scopo di eliminare i sintomi riduce spesso il malato ad automa obbediente, la cui apparente “normalità” non è altro che una gabbia. Concordo, perciò, pienamente con Gilberto Di Petta quando sostiene: “E’ questa la psichiatria che non teme l’avvicendarsi dei trattamenti biologici, poiché li incastona in un sistema complesso, di cui essi vanno a poco a poco ad occupare lo sfondo. Non li teme perché l’architrave del trattamento è l’incontro : volto, gesto, invito, scommessa, rischio.”
Ripenso alla Renèe di “Diario
Ripenso alla Renèe di “Diario di una schizofrenica” : quando leggevo l’ angoscia che provava nell’ avvertire la Luce accecante che tutto raggelava e come percepisse fredde e distanti tutte le cose accanto a lei, facevo fatica a continuare la lettura, avrei votuto alleviare quell’ angoscia possente, devastante, poterla aiutare a percepire di nuovo “la bella realtà”. Così come nell’ incontro di tanti pazienti spezzati dall’ angoscia psicotica, che noi psichiatri incociamo nei csm, nei pronto soccorso o nelle case, quando il dialogo non basta ad alleviare il loro senso di “fine del mondo ” e di stravolgimento totale di tutto e si arena in un “dialogo dell’ assurdo”, tra persone separate da un vetro che non riescono a toccarsi, allora penso che sia fantastico poter usare dei farmaci che possano aiutarci a rompere quel vetro, a ricomporre quel naufragio, a lanciare un appiglio prima del precipizio per riportare qurlle persone nella “bella realtà”, senza più luci raggelanti e desertificanti. Ben venga ogni farmaco che ci può aiutare.
Personalmentr sto sentendo parlare da alcuni mesi della possibilità di utilizzare un nuovo farmaco ogni 3 mesi, non posso ancora usarlo dove lavoro, ma spero di poterlo fare presto, adattandolo alle esigenze di vari pazienti.
Poi, c’è tutto il resto : la visita in ambulatorio o a casa, il colloquio, l’ incontro, la possibilità di chiamare e di essere chiamati tutti i giorni, di fare un percorso insieme con un altro essere umano, che ti guarda, ti ascolta, cerca di capirti. Penso che nessuno , oggi, possa negare l” errore di Cartesio” ( il grande Descartes che di meriti ne ha comunque tanti…) : mente e corpo sono indissolubilmemte embricati, meravigliosamente uniti. La bellezza del nostro lavoro è poter lavorare con il corpo e con la mente, con i farmaci e con la parola.
Grazie mille per queste importanti riflessioni e per la possibilità di commentare e partecipare ad uno scambio di idee.
Cara Alessandra, tu cogli, in
Cara Alessandra, tu cogli, in questo tuo commento, il senso dell’essere psichiatri. Rimasti solo noi a presidiare “l’errore di Cartesio”, che prima di lui fu di Platone. A presidiare i labbri di questa scissione irricomponibile, e a ricomporla nel tendere una mano ad un dolore, al più umano dei dolori, che questa scissione ignora, ma che questa scissione scava. Laing parlava di “posizione intenibile” dello schizofrenico. Siamo pari. Anche la nostra è una posizione intenibile. Eppure sentiamo di essere e di fare gli psichiatri solo sui labbri di questa ferita, e rimanendo instabili. Senza i setting che tu hai descritto, noi non esistiamo. Non c’è una risposta che sul piano teorico la psichiatria come scienza può dare che pretenda di essere soddisfacente. Nell’incontro, nella relazione, nella cura sono molte le risposte soddisfacenti che gli psichiatri possono dare. Ci portiamo dentro l’intenibilità di una disciplina che per esistere deve passare attraverso di noi e attraverso l’altro. Altrimenti è virtuale. Chi tra di noi non pratica più la clinica smette di essere psichiatra. Chi tra di noi si dedica ad altro smette di essere psichiatra. Fuori dalla clinica quotidiana la psichiatria non esiste. Grazie a chi come te la pratica con immutata passione.
Sei sempre squisitamente
Sei sempre squisitamente gentile a rispondere ai commenti e a dare nuovi spunti di riflessione e carica per il nostro lavoro, così complesso e così bello, da maneggiare con cura.
Spero di tornare, appena mi sarà possibile, agli incontri di Figline per nutrirmi di cultura, umanità e passione.
Consiglio come UTILE LETTURA
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