Capita, nel rapporto terapeutico (ma anche nella vita di tutti i giorni) d’incontrare persone interiormente morte: persone incapaci di desiderare, temere o interessarsi a qualcosa, soprattutto nell’ambito dei propri simili.
Questo vuoto è spesso tenuto nascosto da una maschera d’affabilità artificiosa, o d’arroganza, o di efficienza in occupazioni che non richiedono sensibilità e iniziativa.
Talora queste persone appaiono e si ritengono “normali”, e non richiedono un aiuto di nessun genere.
Se, viceversa, avvertono una qualche forma di sofferenza interiore e si rivolgono al medico, limitarsi ad una terapia sintomatica (un trattamento farmacologico o psicoterapico che elimini i sintomi, e non consideri neppure i motivi interiori) è quanto di più anti-terapeutico si possa immaginare: si fa perdere al paziente l’occasione (che potrebbe non più ripetersi) di guarire veramente, ossia di “rianimarsi”, e si rischia di renderlo ancor di più un “automa obbediente”.
Che fare in questi casi?
Il paziente non fa né dice alcunché di spontaneo e dargli direttive è proprio l’opposto di quel che gli occorre, ossia ritrovare una “anima” che sia la sua, e non quella del terapeuta.
Quel che fa una madre sana col suo neonato è il modello da seguire: la puerpera, partendo da ciò che ha intuito mettendosi in sintonia col suo bambino, “sogna” su di lui, costruisce con la sua immaginazione quella persona che il bambino sta diventando; gli dà un’anima ed i mezzi espressivi con cui essa può manifestarsi.
E’ la stessa rêverie di cui fa uso il poeta: coglie una realtà umana inespressa, indicibile e, con la sua immaginazione, le dà forma: la scopre e, al tempo stesso, la crea.
Che senso hanno i criteri di verifica della validità di psicoterapie (o di rapporti) di questo genere?
Se si attengono unicamente a ciò che è oggettivamente rilevabile (comportamento, scomparsa di sintomi, adattamento sociale), nessuno. Giudicare i fatti della vita interiore senza ricorrere all’empatia è come pretendere di giudicare la musica senza ricorrere all’udito.
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