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Baudelaire e la “tortura aspra e deliziosa” della morte

16 Nov 17

A cura di Sabino Nanni

La morte spesso è fantasticata come recupero della condizione di quiete e beatitudine che precedette la vita. Ciò costituisce un problema clinico spesso non facile da risolvere. Un desiderio rimosso di tale pace illusoria può essere alla base di tormentose idee ossessive. Un trattamento sintomatico (tramite psicofarmaci o psicoterapia cognitiva) rischia d’essere gravemente incompleto, lasciando inalterato il desiderio sottostante il sintomo, con seri rischi per il paziente. Infatti, la stessa fantasia malata della morte come evento desiderabile, è alla base di molti suicidi. D’altra parte, l’attesa della fine delle tribolazioni della vita, del “riposo eterno”, costituisce spesso l’unico alimento possibile alla speranza, necessaria per sopravvivere ancora qualche tempo. Ciò vale soprattutto per i pazienti molto anziani o gravemente malati.
L’ambiguità dei sentimenti verso la morte è ben descritta da Baudelaire ne “Le rêve d’un curieux”:

 
Connais-tu, comme moi, la douleur savoureuse,
Et de toi fais-tu dire : « Oh ! l’homme singulier ! »
J’allais mourir. C’était dans mon âme amoureuse,
Désir mêlé d’horreur, un mal particulier ;
 
Angoisse et vif espoir, sans humeur factieuse.
Plus allait se vidant le fatal sablier,
Plus ma torture était âpre et délicieuse ;
Tout mon cœur s’arrachait au monde familier.
 
J’étais comme l’enfant avide du spectacle,
Haïssant le rideau comme on hait un obstacle…
Enfin la vérité froide se révéla :
 
J’étais mort sans surprise, et la terrible aurore
M’enveloppait. Eh quoi ! n’est-ce donc que cela ?
La toile était levée et j’attendais encore.
 

(Conosci anche tu, come me, il gusto del dolore / e fai dire di te: “Che uomo singolare! / Stavo per morire. Nella mia anima appassionata / c’era,  desiderio mischiato a orrore, un male singolare; // angoscia e viva speranza, senza umore fazioso. / Più la fatale clessidra andava vuotandosi, / più la mia tortura si faceva aspra e deliziosa; / il mio cuore si strappava dal mondo familiare. // Come il bambino avido di spettacoli, / odiavo l’ostacolo del sipario. / Infine si rivelò la fredda verità: // ero morto senza sorpresa, e la terribile aurora / m’avvolgeva. Ma come, è tutto qua? / Il sipario s’era alzato, e io aspettavo ancora”)
 
La fine della speranza coincide con la morte; si può capovolgere il ben noto detto in “finché c’è speranza c’è vita”. La speranza è l’anima della vita: è la promessa di un recupero del “paradiso perduto” che ci consente di sopportare la nostra esistenza materiale. Essa fa diventare persino la morte un’occasione di tale recupero. Si crea, così, un paradosso: l’angoscia di dissolversi nel nulla si fonde con l’aspirazione a ricongiungersi al “tutto”, a superare gli angusti limiti della nostra esistenza individuale. Ne risultano quel “desiderio mescolato ad orrore”, quella “tortura aspra e deliziosa” che si spengono solo con la definitiva disillusione. E questa è la vera morte.]

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