L’autore, protagonista del movimento che ha ridato dignità e diritto di cittadinanza ai reclusi nelle strutture manicomiali, descrive la propria esperienza esponendo i suoi presupposti teorici e clinici. Gli ampi resoconti del lavoro in gruppo, suo strumento privilegiato, ravvivano la memoria di un passato non remoto di passioni -che già appare preistorico nell’ambito della psichiatria attuale- rimettono in scena un patrimonio di curiosità, immaginazione, solidarietà colpevolmente disperso.
Erving Goffman (1961) ha definito le grandi strutture manicomiali come “istituzioni totali”: luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, allontanate dalla società per un periodo lungo di tempo, vivono insieme in un regime chiuso e inglobante che si amministra da sé secondo regole proprie. Storicamente la funzione dei manicomi è stata quella di eliminare dalla società il fastidio e l’inquietudine provocati dal disordine della sofferenza psichica più grave e destrutturante e dal suo effetto contaminante, destabilizzante. Un servizio di nettezza urbana del dolore che isolato nelle strutture di reclusione, veniva cloroformizzato, silenziato con tutti i mezzi a disposizione. La cura manicomiale era una pratica violenta, riconosciuta come repressiva, ma supposta necessaria, di uniformazione, spersonalizzazione dell’esperienza, inclusa quella dei suoi operatori, scissi, nell’esercizio della loro funzione, dalla loro identità di cittadini “normali” proprietari di uno spazio privato e di una vita propria.
Coperta dalle sue motivazioni di contenimento repressivo, la cura manicomiale svolgeva, contemporaneamente, la funzione di dare forma concreta e legittimazione indiretta all’agire desoggettivante che sottende vaste aree della vita sociale. Le mura dei manicomi rendevano ammissibile la conformazione a un ordine impersonale tra le pratiche di educazione sociale e, al tempo stesso, le negavano un riconoscimento aperto, la nascondevano.
Ci si può chiedere se a essere psicotici fossero i pazienti reclusi o piuttosto l’istituzione, come Margherita sostiene. L’affermazione non è eccessiva. I soggetti che impropriamente chiamiamo psicotici, confondendoli con la loro reazione difensiva a forze desoggettivanti che minano precocemente l’integrità della propria esperienza, cercano spontaneamente di riappropriarsi di un senso personale di esistenza, accettando di rompersi. I loro deliri, allucinazioni e comportamenti irregolari, bizzarri mirano a riparare la rottura senza negare le sue ragioni, sono una spinta soggettivante. La loro cura manicomiale, che annullava la loro soggettività, era, invece, psicotica, psicotizzante.
Come è accaduto con altre domande di cambiamento sociale dell’ultima parte del secolo scorso, anche la riforma della cura psichiatrica è stata accolta formalmente e tradita nella sostanza. I grandi manicomi sono stati chiusi (anche se sopravvivono in dimensioni minori in varie forme), ma la reclusione, spersonalizzazione della sofferenza è stata introiettata dal corpo sociale.
Vive in modo diffuso, più insidioso, in una nuova pratica di soffocamento del sintomo manifesto: l’uso massiccio, rigorosamente sedativo dei farmaci. La compressione pura dell’angoscia che in questo modo si realizza, è del tutto omogenea alla psicosi asintomatica, devitalizzante diventata la più temibile, invisibile, forma di alienazione sociale.
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