“Nemesi”, uno degli ultimi romanzi di Philip Roth, offre al clinico preziosi suggerimenti, utili alla comprensione di almeno due temi: 1) il potere delle oscure tracce mnestiche lasciate da esperienze traumatiche alla nascita (o, estrapolando tali osservazioni, in alterati stati di coscienza, come il coma vigile o “agripnico”) – 2) l’idea semi-delirante (o francamente delirante) di “onnipotenza malefica” alla base di molti stati depressivi e di comportamenti autolesionistici.
La vicenda si svolge nell'estate del 1944, epoca terribile in cui, ai massacri della guerra si aggiunsero, negli U.S.A., quelli causati dall'epidemia di poliomielite. Il protagonista, Bucky Cantor, è segnato, per tutta la sua vita, dalla tragica perdita della madre, morta mettendolo alla luce. Rimarrà per sempre interiormente legato ad un oggetto arcaico onnipotente e malvagio (caratteristiche che egli attribuisce a Dio), ritenuto responsabile di tutti i mali del mondo. Persistendo il rapporto di simbiosi con la madre arcaica, egli attribuisce la malvagità onnipotente tanto a Dio quanto a se stesso. Fino a quando l'epidemia non lo travolge, Cantor contrasta i suoi latenti sensi di colpa con un’estrema scrupolosità nello svolgere i suoi compiti (di insegnante-educatore, e di nipote premuroso nei confronti dei nonni che lo avevano adottato) e con una grande rettitudine morale. Venendo meno questo fattore di compenso, travolto dagli eventi (contrae egli stesso la poliomielite), Cantor dedica la sua vita all'espiazione, rinunciando all'amore della fidanzata Marcia (per non condannarla a convivere con uno “storpio”) e ad ogni ambizione.
La persistenza, in Bucky, delle oscure tracce mnestiche del trauma della nascita è evidente in incubi, che egli ebbe prima dello scompenso: “A volte la notte si svegliava, gridando, da un incubo in cui, per stendere un lenzuolo, lei [la nonna] si sporgeva troppo oltre il davanzale e precipitava giù dal terzo piano. Prima che i nonni decidessero come e quando rendergli noto che la madre era morta di parto, lui si era messo in mente che anche lei fosse morta precipitando a quel modo” [pag. 64]. In una situazione, quale quella del neonato, in cui l'individuo non è ancora un individuo (ossia vive ancora all'interno del rapporto di simbiosi), le oscure tracce mnestiche dell'evento traumatico della nascita vengono attribuite retrospettivamente alla madre. La nascita, per Cantor, significò essere catapultato nel vuoto, al di fuori del ventre materno, senza essere accolto dalle braccia della genitrice. In generale, meno c'è possibilità di elaborazione mentale, più la sofferenza è travolgente. Il neonato non ha la capacità di “pensare” al suo dolore, e neppure di registrare precisi ricordi. Tuttavia un'esperienza di sofferenza, subìta passivamente e senza soccorso, lascia tracce indelebili. Queste sono evidenti tanto negli incubi di Bucky, quanto nella patologia che manifesterà in seguito.
Come s’è visto, Bucky Cantor, tormentato dalla convinzione d’aver contagiato allievi e amici (oltre che dall’idea di un Dio malvagio, che non ha alcuno scrupolo ad “uccidere dei bambini”), vive uno stato depressivo che lo porta a dedicare la sua vita all’espiazione. Invano un amico tenta di persuaderlo con argomentazioni logiche: “Se Dio è un criminale, allora Bucky non può che essere vittima”. Altrettanto inefficace è il tentativo dell’amico di riportarlo ad una spiegazione terrena dell’epidemia: “Che si tratti di qualcosa d'insensato, contingente, incongruo e tragico non lo soddisfa. Che si tratti del proliferare di un virus non lo soddisfa. Cerca invece disperatamente una causa più profonda, questo martire, questo maniaco del perché, e trova il perché o in Dio oppure in se stesso oppure, misticamente, misteriosamente, nel loro letale fondersi nell'unico distruttore” [pag. 173] L'onnipotenza, legata al rapporto simbiotico con l'oggetto arcaico cui Cantor rimane fissato, gl'impedisce di vedere l'evento catastrofico come indipendente dalla sua volontà, e/o da quella di un Dio malvagio, e/o da quella dell'unico distruttore, ossia da quell'unità simbiotica figlio-madre che rappresenta il nucleo centrale del suo essere. Come in ogni forma di delirio, anche in quello melanconico a nulla possono servire, per riportare il paziente alla realtà, le argomentazioni logiche o l’evidenza dei fatti.
I suggerimenti che la sensibilità di un Artista come Roth ci offre, rappresentano, a mio avviso, un ammonimento a non gestire con superficialità e incoscienza esseri umani come il neonato, o l’individuo in certe forme di coma. È espressione di superficialità e leggerezza il credere che essi non siano capaci di vivere esperienze negative, ed esserne influenzati in modo durevole. È, inoltre, superficiale e dissennato ignorare l’idea di “onnipotenza malefica” di certi depressi, i cui sensi di colpa non possono che esasperarsi di fronte a rimproveri o a discorsi moralistici: “devi reagire! Se solo vuoi, puoi star meglio!”. Il depresso non vive la propria impotenza come tale, ma come propria “cattiveria” verso chi lo aiuta, e diventerà ancor più depresso.
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