Confesso di essere rimasto un po' sorpreso per l’enorme numero delle visite che in brevissimo tempo sono state fatte al mio post “I vissuti del preadolescente in difficoltà”.
Avevo ritrovato per caso fra le mie carte questo intervento ad un vecchio seminario tenuto a Reggio Emilia a cura del Comune. Lo scritto, battuto a macchina (e cioè precedente all'avvento della rete), mi ha colpito lì per lì per le considerazioni più esplicitamente politiche in esso contenute; per cui l'ho scannerizzato e pubblicato qui pensando soprattutto alle scelte – o alle mancate scelte – fatte dal Comune di Reggio Emilia, che ora si ritrova a dovere affrontare in termini di urgenza una situazione in cui tutto lo scempio che nel frattempo è stato fatto sul piano urbanistico, unito alle profonde trasformazioni indotte dall’arrivo dei migranti esterni[1], ha reso ancora più squilibrato il tessuto urbano, esponendolo a gravi rischi sul piano della coesione sociale.
Rileggendolo però mi sono reso conto che implicitamente nel post sono esposte per sommi capi tutta una serie di caratteristiche inerenti al setting che ‘ieri’ era possibile mettere in piedi grazie ad un insieme di fattori che meritano il nostro interesse, soprattutto in considerazione dell’anniversario della 180.
Fattori che ieri c’erano grazie ad una critica pratica compiuta dagli operatori della mia generazione contro le istituzioni totali e i loro vecchi setting, tutti centrati sulle logiche dell’esclusione. Critica pratica che ieri si era sostanziata nella definizione – nei ‘luoghi di frontiera’ in cui normali e diversi si incontrano – di nuovi setting, figli di un nuovo discorso, quello dell’inclusione, che ieri, e cioè alla fine degli anni ’60 ha attraversato e sconvolto l’assetto delle varie discipline (psichiatria, psicologia, riabilitazione, pedagogia, etc). E lo ha fatto definendo in itinere le nuove procedure e i nuovi protocolli dell’inclusione incentrati sull’incontro con l’altro da me.
Setting che oggi praticamente non ci sono più poiché – come cercheremo di vedere – sostituiti da un ulteriore nuovissimo e – direi – utilitaristico discorso sull’alterità, da cui promana un nuovo dispositivo che si va cristallizzando in nuovi protocolli e, a cascata, nuove procedure.
Perciò sono andato a rileggermi il mio post cercando di comprendere quali logiche facessero da sottofondo a quell’intervento, per poi fare un rapido confronto fra quel modo di operare, nato col welfare ed incentrato sul discorso dell’inclusione, e da una parte quello precedente al welfare, basato sull’esclusione e la segregazione, e dall’altra quello nuovissimo che si va imponendo in quest’ultimo periodo, a partire dalla messa in crisi (e non dalla crisi)[2] del welfare, e che potremmo definire come discorso dell’ ‘aziendalizzazione’.
Cercherò di elencare innanzitutto per sommi capi quali erano[3], a mio modo di vedere, gli elementi di fondo impliciti nel caso di Filippo, come in tutti gli interventi dell’era dell’inclusione, per poi fare un confronto fra il prima e il dopo.
Il primo elemento che caratterizza i setting quando prevale la logica dell’inclusione è quello della territorialità. Si può dire anzi che in questo periodo la stessa locuzione ‘territorio’ allude ad un luogo punteggiato da servizi – educativi, sanitari e sociali – complanari e fra loro dialoganti, all’interno dei quali si nota una comune propensione all’orizzontalità dei rapporti e, soprattutto una propensione ad un nuovo rapporto con le alterità, basato sull’incontro e su “l’alleanza per”, e non sulla segregazione.
Tale incontro, come diceva Napolitani, avviene in quel luogo di frontiera dove fino a ieri imperava “il doganiere pavido” che manteneva ai margini il diverso segregandolo; e dove alla fine degli anni ’60, a partire dalle lotte antiautoritarie che dal ’68 punteggiano tutti i servizi, invece comincia a emergere un nuovo “operatore di frontiera” che va coraggiosamente verso l’altro cercando di ricondurlo a casa, a scuola, al lavoro, in base a progetti terapeutici, educativi e assistenziali flessibili.
All’interno di tutte le equipe e in tutti i collettivi di lavoro vengono così ad operare degli “esperti che hanno cognizione della cosa” (Adorno) e non dei tecnici acefali, confinati a funzioni meramente esecutive.
E questi esperti – che oltretutto operano quasi tutti in una condizione di sicurezza e di tutela che proviene dal fatto di essere assunti nel ‘pubblico’ a tempo indeterminato – si rapportano con degli “amministratori accorti” (sempre Adorno) figli delle stesse lotte dei primi.
Dalla territorialità, dalla complanarità che accomuna tutte queste entità educative, sanitarie, e sociali e dal continuo dialogo che ne scaturisce è possibile mettere in piedi dei setting molto dinamici, in grado di aggiornare e ri\adattare in continuazione i progetti in base alle esigenze ‘attuali’ dei soggetti seguiti. Si solidifica così nel tempo una coniugazione e – direi – una triangolazione fra i tre poli dell’educazione, della riabilitazione e dell’assistenza che vengono a formare come tre lati di un triangolo ciascuno dei quali può espandersi o contrarsi in rapporto alle contrazioni o le espansioni degli altri.
All’interno di questo dinamismo il pensiero dialogico e terapeutico prevale su quello diagnostico e classificatorio, e anche i vecchi profili professionali messi in crisi da questo nuovo modo di operare possono essere recuperati attraverso un lavoro comune sul campo e una comune riflessione centrata sul lavoro e basata sul dialogo.
Il discorso dell’esclusione invece era centrato sulla trasformazione delle istituzioni promiscue (la Salpetrière!) dell’epoca precedente in istituzioni totali, ovviamente separate dal resto della società, con la quale mantenevano i rapporti solo attraverso una rete di invianti, che erano i medici e vari altri specialisti, che usando la diagnosi come la coda di Caronte inviavano ai vari gironi dell’esclusione in base all’aura che li circondava e li rendeva credibili agli occhi delle famiglie; gli specialisti e le varie autorità che invece, anche contro il parere degli specialisti, spesso potevano inviare ope legis.
I rapporti all’interno di queste istituzioni erano basati sulla formalità e sulla verticalità tipiche dello ‘staff’ (Goffman), che in questo modo, svolgeva solo funzioni esecutive. Il rapporto con gli ‘internati’ era basato sulla manipolazione e la spersonalizzazione, particolarmente intense al momento dell’ingresso nell’istituzione.
Lo specialismo era volto alla compartimentazione ‘scientifica’ e alla definizione statica dei setting in base alla diagnosi, che in questo modo più che funzionale al ‘reinserimento’ appariva come una pietra tombale prescrittiva di un destino. Lo stesso rapporto con le famiglie era filtrato – come dice sempre Goffman – solo al fine di mostrare all’esterno ‘una facciata’.
Lo staff era composto di operatori del pubblico o del privato assunti a tempo indeterminato, ma soggetti ad una disciplina e ad una serie di vincoli, fra i quali spiccava sempre quello dell’obbedienza acefala.
La compartimentazione impediva una vera coniugazione fra operatori dell’assistenza, della sanità e dell’educazione, poiché essi erano autarchicamente presenti in ogni tipo di istituzione (fosse essa il manicomio, l’orfanotrofio, la Casa della Giovane, etc.) e però soggetti, come tutti, alle regole dello staff, basate sulla gerarchia e l’obbedienza.
Molti di loro – come dicevamo prima – furono poi recuperati al nuovo discorso dell’inclusione attraverso la formazione sul campo, che così diventò il principale terreno di saldatura fra vecchio e nuovo.
Più difficile è individuare le coordinate che sono alla base di quello che ho definito ‘il discorso dell’aziendalizzazione[4]’: innanzitutto perché si tratta di un processo in fieri, che in Italia comincia con la seconda repubblica e con il discorso prodiano sul welfare mix; ma soprattutto perché questo ulteriore cambiamento non nasce da un movimento che sfida apertis verbis il modello precedente, ma in base ad un accordo politico che in Italia rappresenta una delle premesse del patto sul quale si fonda l’aggregazione fra le forze politiche che danno vita la secondo centrosinistra: quello che nasce per contrastare il berlusconismo, mantenendosi però all’interno di una logica neoliberista.
La stessa spinta, giustificata praticamente dappertutto come una reazione alla presunta ‘crisi del welfare’, si nota praticamente nel resto del mondo occidentale.
In tutti i modi, e rimanendo in Italia, mano a mano che emerge questo nuovo modus operandi si assiste a tutta una serie di movimenti che tendono a spostare i servizi dall’ambito dei costi a quello delle entrate, vale a dire a ridefinirli cercando di non far pesare il loro costo allo Stato ed agli enti locali, ad esempio tikettandoli, privatizzandoli, chiudendoli; o aziendalizzandoli, appunto.
Ne discendono, a cascata, tutta una serie di conseguenze: la privatizzazione permette al privato no profit e profit[5] d’area di aprire nuovi servizi che sostituiscono, ma a volte si aggiungono a quelli pubblici (aumentando in questo modo le spese), ma che lo fanno con un personale precario, spesso sottopagato e non sufficientemente formato e aggiornato.
In base alla situazione di precarietà questo personale non può esprimersi liberamente, ma deve sottostare alla direzione, spesso composta da manager senza specifiche competenze nel settore in cui opera, ma fedeli ai politici ed agli amministratori appaltanti lontani mille miglia dai loro predecessori ‘accorti’: in questo modo ciò che si crea prioritariamente è un esercito di procacciatori di clientele (i manager) e di clientes ob torto collo (gli operatori precari). E la connotazione degli operatori come clientes non solo uccide il loro spirito critico, ma alla lunga toglie loro ogni dignità di uomini liberi.
Il rapporto con le istituzioni pubbliche (ad esempio con la scuola) è centrato sulla meticolosa delimitazione delle proprie competenze, nonché sulla moltiplicazione delle stesse[6], dando spesso la stura a chiusure a riccio che non giovano certo ai soggetti di cui ci si prende cura.
Quelle che erano le strutture intermedie diventano dei luoghi separati, scollegati dal resto dei servizi, e soprattutto tesi a moltiplicarsi in base ad una serie infinita di compartimentazioni, spesso artificiose e non giustificate sul piano epidemiologico[7].
In questo modo i setting si fissano, come accadeva nelle istituzioni totali, ma non per ragioni legate ad una impostazione scientista e segregante, bensì per accrescere le entrate. Mentre nel pubblico tutto ciò che può essere sbaraccato viene passato al privato[8]. E ciò che non può essere passato tende ad essere gestito implementando anche nel pubblico il numero dei precari; ma anche creando una nuova leadership, più burocratica e disposta a sbaraccarsi dei servizi affidandoli al privato. Leadership che all’inizio, come dice P. F. Galli, affianca quella precedente riservandosi però i rapporti con le amministrazioni[9], successivamente la marginalizza, ed infine la sostituisce del tutto allorché la leadership precedente va in pensione, contornandosi – come dicevamo prima – di specialisti precari e appoggiando pedissequamente ogni scelta delle varie amministrazioni.
Per quanto riguarda la precarizzazione della specialistica l’esempio più esecrabile – almeno a Reggio Emilia – è quello dei NPI a contratto che spesso devono gestire dal proprio ambulatorio, e senza alcun legame con gli altri servizi pubblici o privati e le altre istituzioni, le più disparate questioni a partire dalla stesura dei piani individualizzati per disabili dei quali spesso non conoscono neanche la scuola in cui sono inseriti.
È molto facile in questi casi trovarsi di fronte o a un soggetto che avrebbe bisogno di cure, ma non è visto da alcuno poiché il monte ore a disposizione degli specialisti risulta insufficiente, oppure che lo stesso soggetto sia stato visto da più specialisti del pubblico e\o del privato che però non si sono mai potuti conoscere e scambiare le proprie impressioni; e che in ogni caso spesso in età evolutiva non ci sia alcun raccordo fra scuola, sanità e sociale.
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Bibliografia:
– Adorno Th. W., Cultura ed amministrazione, in ‘Scritti sociologici’, Einaudi, ‘76
– Goffman E., Asylums, Einaudi, To, 1968
– Napolitani D., "La struttura intermedia nel panorama psichiatrico", in "Psicoterapia e scienze umane", N. 4, 1986, pagg. 74/86.
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