Da tempo si afferma che, per arrivare ad un’interpretazione, è opportuno, per l’analista, attingere a tutto ciò che si affaccia spontaneo alla sua mente, mentre il paziente parla: pensieri, sensazioni, ricordi e fantasticherie o rêverie. Talora la rêverie assume forma poetica. Poiché la Poesia (se è veramente Poesia) ha un valore universale, essa è capace non solo di gettare un ponte di empatia tra il mondo interno del paziente e quello del terapeuta, ma anche di raggiungere la sensibilità di chiunque legga. Se, come spero, queste mie produzioni possono essere giudicate vere Poesie, esse potrebbero raggiungere l’animo del lettore, dando voce alla vita interiore dei miei pazienti. Eccone alcune:
Autismo
Per noi Dei non c’è tempo finito,
non c’è posto tra gli uomini mortali.
Esistiamo da sempre, mai fummo generati,
mai fummo amati da chi ci mise al mondo.
Perfetti da sempre, mai ci fu dato di provare
la gioia delle conquiste di chi cresce.
Non conosciamo incanto, non conosciamo amore:
illuderci, per noi Dei, non è possibile;
e le suppliche e le lodi dei mortali
non fan che accrescere la nostra eterna noia;
e non esiste chi è capace di alleviare
quest’infelicità profonda, che ci affligge,
che nessuno (nemmeno noi stessi) sa vedere.
Il cieco
Io non potrò mai più godere
Gli spazi immensi, illimitati, eterni.
Per me d’eterno ed infinito
C’è solo il buio che mi sento dentro,
Interrotto da una fuggevole carezza,
Da una parola che sento pronunciare.
Ma tutto presto scompare, si dilegua,
Sprazzi di luce in una lunga notte,
Che finirà con un perenne esilio.
Non c’è più l’ape regina
Non c’è più il sole, e la regina è morta.
Una città, una mente, un alveare
Vivono ancora per forza d’abitudine,
Ma tutto ha perso il suo senso, la sua anima
E si è persino indecisi sul cammino da percorrere
Verso la meta certa della morte.
Ninna nanna per un tradimento
Dedico a te queste note sdolcinate,
velenose, retoriche, che sempre
ci fanno piangere.
Te le cantavo quando ancora le mie mani
potevano cullarti, avvolgerti.
Ti parlavano di un luogo lontano, perduto
(perduto, perduto!) in cui non c’erano
mai freddo, né brutte sorprese
dai propri simili.
Tu m’ascoltavi, mi guardavi con occhi
apparentemente innocenti in cui già allora
riconoscevo quel che più odio di me stesso.
“Nec tecum, nec sine te”
Eri mortale, anche se fonte di vita,
Di una vita che non fa che fuggire
Da una separazione impossibile a un incontro,
Un incontro che non può più avvenire.
Io vorrei, vorrei sopra ogni cosa
Che tu non fossi morta, o che non fossi nata,
che non fossi mai nato neppur’io.
Sopravvivenza
Ci sarà tempo per rimpiangere
Quel che non può più ritornare.
Ci sarà, ci sarà tempo
Per cominciare a morire.
Ci sarà tempo per capire
Che non potrai mai più sentire
Le parole perdute, impossibili,
impensabili che ti volevo dire.
I tuoi occhi
Sì, ti amo, ma come posso perdonarti
Che sei mortale? Che tra qualche istante,
O tra un secolo, o alla fine della vita,
Tutto sarà per me perduto, estraneo?
Che ne farò di queste immagini di monti
Se non potrò mai più vederle coi tuoi occhi?
Un condannato a morte (03/02/2018)
Ciò che mi rovinò fu la speranza,
Quella speranza tenace, illusoria, maledetta.
Mai mi riuscì di fare trapelare
Quel che accade dietro la soglia dei miei occhi;
E mai nessuno mi aiutò a capirlo.
E ora nessuno neppure tenta di varcarla,
di guardar oltre la soglia del mio mondo.
E bacerò la mano al mio carnefice,
E lo ringrazierò per fare quello
Che la speranza m’impedì di fare.
Quel che è certo, è che sono stato io a scrivere queste poesie; il giudizio sul loro scarso o nullo valore artistico deve, perciò, riguardare solo me. Tuttavia non saprei dire con certezza chi è il vero autore: se prevalentemente io o i pazienti. Sicuramente la loro fonte è quel “terzo intersoggettivo” (Ogden) che s’interpone regolarmente tra malato e terapeuta, ed in cui confluiscono le vite interiori di entrambi.
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