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Niente poveri e disabili nei nuovissimi licei italiani

9 Feb 18

A cura di dinange

Qui niente poveri né disabili” Le pubblicità classiste dei licei. La lettura di questo post segnalato dall’amico Luigi D’Elia, giustamente orripilato per la notizia, in un sito per psicologi, e soprattutto le reazioni di alcune colleghe psicologhe ignoranti – poiché letteralmente senza istruzione  – dei fatti della scuola italiana mi hanno profondamente turbato. Per cui – dopo essere intervenuto un po’ sgarbatamente, lo ammetto, sul sito – ho deciso di esprimere  qui in maniera più argomentata le ragioni del mio sdegno nei confronti dei licei in questione, e la mia critica all’Accademia italiana di psicologia che non si cura di far riflettere i propri discenti sul significato della formazione e della scuola.

Una sessantina di anni fa ho avuto modo di studiare in una scuola ancora incentrata sul vecchio impianto gentiliano, che ha continuato a rimanere in piedi anche nel dopoguerra, e che era funzionale ad una società sostanzialmente statica all’interno della quale le esigenze che sul piano formativo provenivano sia dalla vecchia fabbrica industriale, sia dal mondo agrario[1] , erano rappresentate dagli studiosi dei problemi della scuola come una piramide ai cui vertici c’era una percentuale minima della popolazione scolastica, composta dai figli delle classi alte; nella parte mediana, un po’ più ampia, i figli delle classi medie; e nella parte bassa, molto più estesa rispetto alle due precedenti, i figli delle classi subalterne.
Cioè, grazie al netto prevalere di una selezione di censo, solo ai primi (ed eccezionalmente ai secondi) era possibile arrivare ai licei e all’università, che accoglieva solo l’uno per cento delle popolazione scolastica; tutti gli altri si fermavano alla frequenza dell’obbligo (che allora terminava in quinta elementare), o al massimo potevano accedere agli istituti tecnici attraverso l’avviamento professionale, cioè una specie di scuola media per poveri, che impediva l’accesso ai licei; così come la frequenza degli istituti tecnici bloccava l’accesso all’università.
Questo impianto, basato sul censo, era funzionale ad una società statica, che per funzionare aveva bisogno di un fulcro di comando costituito da burocrati fedeli più che da supertecnici capaci di innovazione tecnologica; di un’esile trama di impiegati in funzione meramente esecutiva, e di una forza-lavoro non qualificata sia in fabbrica che nelle campagne in grado appena di leggere e di scrivere, e destinata o a vivere di stenti o a migrare.
 
All’inizio degli anni ’60 però s’innesca un processo dinamico che condurrà nell’arco di poco più di un quindicennio ad una situazione nuova in cui per la prima volta un’ampia parte della popolazione fino ad allora costretta nelle parti basse della piramide si troverà per la prima volta di fronte alla possibilità di fruire di un ascensore sociale destinato a sgretolare la piramide classista sulla quale fino ad allora si era basata la società.
Ciò avviene grazie alla confluenza in quegli anni di vari fattori che si influenzano e che, pur fra mille impedimenti controriformistici, si rafforzano reciprocamente e che qui mi limito ad elencare: il boom economico e lo sviluppo industriale, che introducono il paese nel neo-capitalismo; l’estendersi di nuovi modelli di produzione anche nelle campagne che ‘liberano’ manodopera e innescano un nuovo processo migratorio verso la città e verso il nord; le profonde trasformazioni dell’assetto urbano, della struttura familiare e della condizione femminile che ne derivano; la nascita del primo centrosinistra che, grazie alla maggiore rilevanza delle forze riformiste apre finalmente –  e con grave ritardo rispetto al welfare degli altri stati europei – la strada al welfare italiano, etc. – E in questo clima l’emergere col ’68 studentesco e col ’69 operaio di nuove soggettività che saranno le protagoniste del cambiamento.
Tutto ciò portò alla nascita di una scuola nuova che: – nei disegni della parte più avanzata della borghesia doveva essere funzionale a questo nuovo ed estremamente dinamico stato di cose, che richiedeva a tutti i livelli una forza lavoro più qualificata e in grado di adattarsi alle innovazioni che lo sviluppo tecnologico imponeva; – nelle lotte degli studenti, e successivamente dei nuovi docenti e di tutti i fruitori della scuola, fu per un lungo periodo un luogo di sperimentazione di un’utopia concreta che produsse una nuova pedagogia critica che trovò fondamento nella Scuola di Barbiana, nelle esperienze di autogestione, nel pensiero e nelle pratiche pedagogiche influenzate dal pensiero negativo e più in generale dal pensiero francofortese, dalla psicoanalisi critica, dall’antipsichiatria, etc.-   
 
Dalla confluenza di queste due spinte – spesso non sovrapponibili, ma anzi fra loro in continua polemica sia sul piano teorico che nella prassi – emerse un nuova formazione, che – come dice Elge Becchi[2] – è un “tessuto, fatto di pratiche educative, che comprende la scuola, ma non si esaurisce assolutamente in essa, e che si dirama all'interno di varie istituzioni, o in luoghi meno formali”, e – aggiungiamo noi –  che in quegli anni vede spesso i genitori e tutto l’ecosistema adulto muoversi da protagonisti intorno ai vari luoghi della formazione.
Questi nuovi progetti formativi condussero innanzitutto ad una scuola che non era più scleroticamente centrata sul censo, ma, per i riformatori più legati alle esigenze produttive, sul merito; per i soggetti più radicali sulle logiche preventive e compensative previste dalla Costituzione.
Nacquero così le scuole per l’infanzia con funzioni non più assistenziali, ma educative, e poco dopo i nidi che innescarono un modello di educazione moderatamente policentrico. Fu esteso l’obbligo scolastico fino al compimento della terza media. Furono abbandonati i programmi centralizzati che avevano caratterizzato la scuola fino ad allora per lasciar spazio ad una programmazione decentrata che partisse da una osservazione del bambino reale che il docente aveva sotto gli occhi, e non dall’idea del ‘fanciullino’ ideale che era sottesa nel vecchio sistema.
Fu eliminato l’avviamento professionale e fu istituita la scuola media unica, che fra l’altro permise l’ingresso in scuola della generazione degli ex studenti e delle ex-studentesse del ’68[3]. Furono liberalizzati gli accessi ai licei e all’università, all’interno della quale presero finalmente piede anche in Italia gli studi sociali (sociologia, psicologia) lungamente osteggiati a partire dalla riforma Gentile, e tutta una serie di specialità.  E tutto ciò favorì l’emergere di una nuova classe dirigente funzionale alle nuove esigenze produttive, contribuendo allo ‘sviluppo della nazione’.  
Nel frattempo, e in base sempre a queste spinte, nacquero tutta una serie di lotte che sfociarono in riforme destinate ad estendere le tutele dei più deboli e la democrazia. E parliamo dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, della riforma della previdenza sociale, dell’abolizione delle gabbie salariali, dello Statuto dei lavoratori, del divorzio, del diritto all’aborto, della legislazione sui referendum, delle Regioni, delle leggi che istituivano la progressività fiscale, del diritto di famiglia, della legge urbanistica, della 180, etc – In una parola del welfare italiano, che quindi, come tutto il resto, va visto in termini sistemici come prodotto e nello stesso tempo motore del cambiamento.
 
Verso la metà degli anni ’90 con l’abbandono delle politiche neokeynesiane e l’affermarsi del neoliberismo tutto questo sistema a poco a poco entra in crisi: a risentirne non sono le conquiste avvenute sul piano dei diritti civili (che anzi rimangono e si estendono in questi ultimi decenni come foglia di fico che copre tutto il resto), ma il lavoro, le sue tutele e – cosa per noi importantissima – le sue fondamenta sul piano formativo. E soprattutto l’area della democrazia, che viene erosa e immolata sull’altare delle esigenze dirigiste della finanza.
Per comprendere ciò che sta avvenendo sul piano formativo in Italia va detto che, in base alla debolezza e alla pusillanimità endemica del capitalismo italiano, questo nuovo corso da noi è contrassegnato dal mancato reinvestimento sul piano del rinnovamento tecnologico del surplus, così come dei graziosi doni che i governi della seconda repubblica hanno fatto a più riprese agli industriali.
Ciò influisce pesantemente ed esplicitamente sul mondo del lavoro, poiché per rimanere nel mercato, in assenza di rinnovamento tecnologico, si punta sull’erosione dei salari con tutti gli annessi e connessi: precarizzazione del lavoro, cancellazione dei diritti e delle tutele[4] (sanità, assistenza, etc), delocalizzazione, disoccupazione.
Ma ciò in maniera più subdola influisce altrettanto pesantemente sul sistema formativo che nella seconda repubblica è sottoposto ad una serie di torsioni che sono funzionali a queste nuove esigenze produttive: l’aziendalizzazione del sistema formativo, le privatizzazioni che ormai vanno dagli asili nido all’università, il sistematico disinvestimento sulla scuola pubblica, lo spostamento degli obiettivi formativi dalle esigenze di conoscenza e di formazione della personalità del discente a quelle del sistema di avere forza lavoro acritica (fungibile, si diceva una volta), che ha comportato il centramento degli obiettivi formativi sull’area delle ‘competenze’ (vedi ‘Invalsi).
Ciò risulta sempre più funzionale ad una nuova immagine delle società in cui da una parte ci sono le esigenze esclusive ed escludenti di questo nuovo un per cento, dall’altra non più una piramide che santifichi e blocchi la società in uno stato di stabilità favorito dalle barriere doganali e basato sulla ciclica migrazione della forza lavoro eccedente. Ma un caotico agglomerato di esclusi espropriati dai media della propria coscienza, e abbandonati a se stessi poiché privi di rappresentanza; cui si aggiungono i nuovi flussi migratori verso l’Italia che spesso agli occhi dei nuovi poveri nostrani assumono, sempre ‘grazie’ ai media, le sembianze di concorrenti inammissibili.
 
Come meravigliarsi quindi che nella scuola, a fianco ad una maggioranza di docenti che ancora combattono aspramente per il mantenimento delle vecchie idee e delle vecchie prassi sperimentate a partire dagli anni ’70 emergano questi nuovi servi sciocchi che per i figli di quell’un per cento, e solo per loro, vorrebbero creare una specie di ghetto d’oro esclusivo ed escludente? Essi sono solo la rappresentazione sul piano formativo di un nuovo sistema in cui da una parte c’è un universo di privilegiati, separato ed egoista, dall’altra un mondo caotico frutto di una sorta di scissione atomistica indotta, in cui vecchi e nuovi poveri, immigrati e autoctoni, disabili e normalmente dotati si arrangino, e possibilmente combattano l’un contro l’altro deprivati di ogni spirito critico.
E mi fa senso soprattutto che le presidi che hanno voluto fare questa propaganda razzista e anticostituzionale siano delle donne!
 
 

 

[1] che allora rappresentava una porzione di società molto più estesa di quelle attuale
 
[2] Becchi E., Introduzione, in: Becchi E. (a cura di), Storia dell'educazione, La Nuova Italia, Firenze 1987, pp. 1-34
[3] la ulteriore femminilizzazione della docenza avvenuto in quegli anni è un fenomeno estremamente importante, che a mio avviso meriterebbe più attenzione.
[4] Che – non dimentichiamolo – erano “salario indiretto”

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2 Commenti

  1. stefaniafabris

    Grazie dell’intervento, sono
    Grazie dell’intervento, sono un’insegnante di Pedagogia di un liceo delle Scienze umane di Genova, una partigiana della scuola pubblica italiana. Utilizzerò il suo intervento domani, in classe, con i miei studenti di quinta, per la sintesi rigorosa ed efficace, dal punto di vista della ricostruzione storico-culturale, dell’intreccio dei fattori che ci hanno condotto fin qui. Grazie soprattutto perchè il suo intervento invita all’impegno da parte degli psicologi, insieme agli insegnanti e a tutti noi che abbiamo a cuore la salute e il futuro delle nuove generazioni. C’è solo un aspetto che non emerge chiaramente e che non è sottolineato abbastanza e cioè che mentre discutevamo/guardavamo all’erosione del welfare e della scuola pubblica perchè ” non ce la possiamo più permettere”, non vedevamo che enormi interessi economici privati approntavano un sistema di formazione del tutto diverso in nome del policentrismo, dei bisogni educativi speciali certificati dagli psicologi e perfino di Don Milani e dei vantaggi della descolarizzazione, ma, soprattutto, parassitavano la scuola e l’università statale pervertendone i fini. Questa è stata la sfida, ma si tratta ormai degli ultimi vent’anni di scelte di politica sull’istruzione assolutamente coerenti e in continuità, per cui questa rischia di essere drammaticamente la nostra realtà.

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    • dinange

      La ringrazio, Stefania, e
      La ringrazio, Stefania, e sono curioso di conoscere com’è poi andata con i suoi studenti! effettivamente la ricostruzione è carente sotto molti punti di vista. E soprattutto è reattiva, rabbiosa. In rete ero stato addirittura sgarbato con alcune giovani colleghe, che l’accademia di psicologia a mio avviso non forma adeguatamente soprattutto sul piano della storia delle istituzioni in cui ‘dopo’ andranno ad operare.
      Per quanto riguarda l’ingresso dei privati effettivamente ci sarebbero da dire molte cose: a mio avviso l’aspetto più rilevante, almeno a Reggio Emilia – città in cui vivo da quasi 50 anni – , è la commistione fra logica affaristica e questione di egemonia sul piano ideologico che fu alla base dell’incontro fra ex-pci ed ex-dc all’inizio degli anni ’90. L’intesa con le scuole materne cattoliche, l’espansione delle scuole private susseguente al finanziamento pubblico (pompato in mille modi anche con leggi regionali ad hoc), la privatizzazione – brevi manu e senza concorso – delle strutture intermedie riabilitativa, assistenziali, etc (che a Reggio si sovrappone quasi alla ‘clericalizzazione’ delle stesse), etc., sono tutte iniziative che vanno lette sotto questa duplice veste: quella affaristica (che comprende anche la formazione di clientele), e quella della necessità di marcare una egemonia.
      Le faccio un piccolo, ma a mio avvio eloquentissimo esempio personale: ho guidato il Consultorio Giovani dell’Ausl di Reggio Emilia dal 1992 al 2003. Ovviamente rispondevamo ai bisogni dei giovani e dei loro genitori. Ebbene a un certo punto, mentre stavamo per varare una iniziativa che ebbe molto successo rivolta ai genitori degli adolescenti, ci fu suggerito di sovrassedere poichè quel terreno (la genitorialità) era appannaggio dei privati d’area che proprio in quel periodo si andavano espandendo con le modalità cui accennavo sopra. Io non accettai l’invito, ma questo era il clima. Un clima in cui l’aspetto affaristico si intrecciava fortemente con quello ideologico. Purtroppo le cose poi sono andate ben al di là!

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