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“BELLI DENTRO”: IL DIRITTO ALLA SOMIGLIANZA di Ingrid Iencinella

11 Feb 18

A cura di Franco Lolli

NDR: Ingrid Iencinella lavora come psicologa-psicoterapeuta presso un servizio territoriale per disabili adulti e fa parte della Rete Nazionale Disabilità Intellettiva. Nel contributo che propongo  ci parla del lavoro svolto con una paziente (Franco Lolli)

 

 “La peggiore delle diversità è quella di non avere simili” (S. Sausse)

Gessica- la donna di cui vi parlerò- è in carico al servizio per disabili adulti per cui lavoro, da molti anni (da quando è uscita dal percorso scolastico). E' stata sempre seguita dai servizi sin dalla tenera età, per problemi di ritardo psico-motorio. Personalmente la seguo da circa 6 anni, da quanto aveva 33 anni. Per un lungo periodo ho svolto con lei dei colloqui psicoterapeutici che mi hanno dato la possibilità di entrare nel suo mondo e di scoprire i suoi bisogni più intimi; oltre a ciò mi sono occupata di supervisionare il  lavoro dell'educatrice domiciliare, di collaborare con l'assistente sociale per la messa a punto dell'inserimento lavorativo ed, infine, di individuare un percorso gruppale che le ha consentito di trovare una propria dimensione nel sociale, in altre parole di strutturare un discorso.

G. è una ragazza bruna, con i capelli ricci di media lunghezza; porta gli occhiali ed è in sovrappeso. Il suo aspetto fisico nel complesso non è propriamente gradevole. É comunque curata: porta lo smalto, ha le sopracciglia sistemate. Cammina da sola, ma in maniera piuttosto goffa e con un equilibrio instabile. I suoi movimenti  sono rallentati e c'è un generale impaccio motorio. Parla bene, ha soltanto un lieve difetto di articolazione. Il suo vocabolario è buono. Ha un atteggiamento composto, ma discorsi e modalità di relazione sono piuttosto infantili: dà subito del tu, interrompe mentre si parla, non risponde subito quando le si chiede qualcosa ecc..

Vive tuttora con i suoi genitori ed ha una sorella di qualche anno più piccola, che vive da sola con un figlio piccolo.

La certificazione L104 risalente al 1997 (quando G. aveva 17 anni) recita: “riconoscimento di handicap con carattere di permanenza con diagnosi di insufficienza mentale grave e disturbo di personalità” .

Ad una prima conoscenza, salta all'occhio una discrepanza tra quanto si legge, rispetto alla gravità del ritardo, e quello che si osserva: vi sono momenti in cui emergono associazioni e deduzioni logiche che parrebbero mettere in dubbio l'esistenza stessa del deficit.

Inizio a svolgere i colloqui con lei in quanto l'assistente sociale mi segnala una situazione di stallo su più fronti, ed in particolare una certa insistenza della ragazza su un episodio del passato, che per lei ormai da anni rappresenta un “chiodo fisso” e che mette in difficoltà anche i genitori, i quali non sanno più come fare per distoglierla. Da alcuni anni ha anche iniziato a scrivere un libro, sulla scia di questo evento. Il libro, probabilmente frutto delle indicazioni di una educatrice, è in realtà un epistolario tra due amiche (Ambra e Giorgia) in cui Giorgia/Gessica racconta le proprie esperienze di vita quotidiana, seguendo la scia “epistolare” che ha sempre portato avanti sin dalla scuola: scriveva continuamente lettere, a personaggi famosi e non solo in cui insistentemente chiedeva di ricevere risposte, di essere chiamata e considerata, minacciandoli in vari modi se non lo avessero fatto.

L'evento centrale del libro è legato ad un'educatrice che la affiancava nella sua attività occupazionale presso una scuola materna. G. sostiene che l'abbia maltrattata, chiusa più volte in bagno, sgridata in malo modo, svilita e “ricattata”. Lei non ha mai avuto il coraggio di dirlo ai genitori e si sarebbe decisa a parlarne con la nonna soltanto 5 anni dopo il presunto accaduto, quando ormai questa persona non prestava più servizio con lei.

Durante i nostri colloqui dunque, per un lungo periodo è questo il tema centrale: quando G. parla della sua ex-educatrice utilizza termini carichi di aggressività, c'è un luccichio nei suoi occhi, un godimento nel pronunciare le parole carogna, stronza, ricattatrice, malata di mente, nell'immaginare di picchiarla (“le do due schiaffi”, “le spacco la faccia”), di rovinarle la vita facendo sapere a tutti cosa ha fatto. Il libro, secondo lei dovrebbe avere proprio lo scopo di vendicarsi del torto subito facendo sapere a tutti quanto commesso da quella persona in modo da svergognarla ed arrecarle dolore: visto che per la strada dell'assistente sociale e della cooperativa non ha ottenuto di incontrarla, si è ancorata anzitutto all'idea del libro come strumento per arrivare a lei per “fargliela pagare cara”, per “umiliarla e mortificarla” “come è stato fatto a lei”. Una volta che verrà pubblicato, secondo lei, verrà fuori chi è veramente quella persona e immagina che, quando i giornalisti la intervisteranno per la presentazione, leggerà la parte in cui parla della “carogna” dicendo il suo nome e cognome (che non è riportato nel libro) e così la “nemica” la verrà a cercare. A quel punto potrà dirle ciò che pensa di lei e che non è mai riuscita a dirle. Oppure la “carogna” andrà dall'assistente sociale per chiederle di incontrare G.. Potrebbe, in alternativa, cercare il suo numero di telefono per contattarla e chiederle scusa. Non contempla la possibilità che l'altra possa arrabbiarsi, non credere a quanto ha scritto o semplicemente lasciar perdere. In particolare immagina che una volta reso pubblico, il libro consentirà alla figlia dell'educatrice di rendersi conto di chi è veramente la madre e quindi rovinerà il loro rapporto. Nel tempo mette in atto altri tentativi per arrivare al suo scopo: riesce a trovare un numero di telefono e la chiama a casa, scrive una lettera che mi consegna sperando che io la possa inviare, fino a farle pervenire la bozza del suo libro tramite un'altra educatrice. Insomma tutte le sue energie sembrano essere dirette all'obiettivo di punire questa persona e vendicarsi dei presunti soprusi. Si pone alla mia attenzione, ovviamente, la questione sulla veridicità o meno di quanto riferitomi, anche per il ruolo che ricopro: quello di psicologa all'interno di un'istituzione pubblica. Dopo alcune indagini arrivo alla conclusione che vi siano stati degli atteggiamenti inappropriati da parte della persona incriminata da G.- che nel periodo in cui la seguiva  stava passando un brutto momento familiare- ma che non fosse arrivata a compiere atti di vero e proprio sopruso, come invece sostenuto da G.. D'altronde il quadro che raccolgo rispetto al passato di G., mi fa supporre che non sia la prima volta che si “fissa” su una persona, fantasticando sulle azioni proprie ed altrui, arrivando  quasi a perseguitarla. Non posso non tenere in considerazione che nel periodo in cui ha “partorito” la sua dichiarazione di “soprusi” da parte dell'educatrice alla nonna, la sorella minore era incinta. G. in un lapsus dirà di volersi togliere “un sassolino dalla pancia”. C'è qualcosa di reale che si è installato nel corpo, che ha a che fare con un incontro con l'Altro intriso di godimento? So dalle parole dell'educatrice attuale e dell'assistente sociale che anche il rapporto con la sorella è sempre stato molto difficoltoso, finché sono vissute sotto lo stesso tetto. G. però non ne parla, non ne fa una questione di cui discutere.

E' dunque necessario dare ascolto al “chiodo fisso” di G., lasciarle decidere di cosa vuole parlare. Dirle di lasciar perdere, di smettere di parlarne, come invece fa la madre, non fa altro che alimentare la sua spinta a parlarne, che a sua volta sembra produrre direttamente un'azione sul piano concreto: la parola, il linguaggio pare non svolgere quella funzione di mediazione rispetto alla realtà, ma crea direttamente delle azioni. Il linguaggio che G. manovra con una certa dimestichezza, diviene un'arma nelle sue mani, l'unico strumento che possiede per dimostrare qualcosa, per incidere sul reale, per avere un controllo sulle persone. Con le parole mette in atto un ruolo attivo, oserei dire “sadico” rispetto all'altro, mentre nella sua quotidianità sembra piuttosto essersi trovata spesso in un ruolo passivo, “masochistico”, senza riuscire a reagire. Ha sperimentato prima di tutto su di lei, evidentemente, che con le parole si può ferire, che le parole lasciano dei segni…

Le parole della madre, in effetti, nelle numerose occasioni di confronto, sono sempre cariche di di una certa insofferenza, di critiche, di insoddisfazione nei confronti della figlia; non trapela affettività, ma è come se volesse continuamente dimostrare che non è colpa sua se la figlia è così:   le dà consigli ma lei non li accetta, ascolta di più gli altri che i propri genitori, non si impegna quando cammina e rischia spesso di cadere, in casa non fa nulla, non aiuta e vuole fare solo quello che le pare. Qualsiasi tentativo di porre l'accento sulle capacità o potenzialità della ragazza, viene sminuito dalla madre e viene sottolineata soprattutto la sua completa mancanza di volontà, che giustificherebbe il suo non riuscire in molte cose.

Vi è un atteggiamento ambivalente, come spesso accade da parte dei genitori di ragazzi disabili, incastrati in quel “lutto impossibile” del bambino immaginario di cui parla S. Sausse: da un lato non sembrano riconoscere un handicap vero e proprio alla figlia e riducono la problematica ad una svogliatezza e pigrizia di G.,  dall'altro faticano a riconoscere i bisogni di crescita e di separazione che pure la figlia manifesta.

Il padre, meno presente nei momenti di incontro, quando c'è palesa una certa partecipazione emotiva nei confronti della figlia, mostrando un lato più “femminile” di quello della madre: piange al pensiero delle speranze spezzate, di quello che sarebbe potuta diventare questa figlia sfortunata, dei fallimenti che hanno incontrato da quando è piccola; parla del futuro che l'aspetta  e, a distanza di anni da quando li ho conosciuti, arriva ad autorizzarsi a chiedere di fare la domanda di invalidità civile, per tanto tempo rimandata anche per paura di sottoporre G. ad ulteriore sofferenza.

G. nel complesso, parla poco dei genitori, con cui dice di avere un pessimo rapporto e che descrive come “ultraseverissimi”. Nel libro racconta che la ricattano e che litigano spesso, che sono stati degli alleati dell'ex educatrice e che la costringono ad uscire con loro. Un giorno, finita la seduta, appena vede la madre mi dice: “chiedile perché non mi ha creduto”.  É come se avesse bisogno di un intermediario tra le sue questioni e la madre ed in generale tra lei ed il mondo. Mi dice che da piccola avrebbe tanto voluto parlare con una psicologa, per dirle le cose che voleva fare così la psicologa le poteva dire ai suoi genitori. Le chiedo come mai i genitori si arrabbiano con lei e dice che è perché non fa le cose che loro le dicono di fare, perché non ha voglia, oppure perché fa cose che loro non condividono. Non si sente considerata “diversa” dai genitori, mentre dalle altre persone si sente considerata “invalida, minorata”.

Rispetto alla sua disabilità, G. sa di essere una persona disabile (“sono nata a sette mesi e per questo ho il ritardo mentale e lo strabismo”), ma poi dice che non si sente diversa dagli altri, che sono gli altri che ce la considerano, perché la vedono sempre insieme ai suoi genitori; dice che vorrebbe tornare indietro e non nascere a 7 mesi per non avere il ritardo, ma di non sapere cosa significa handicappata e chiede spiegazioni. C'è un sapere su sé stessa che ha paura di affrontare e di assumere e che cerca di rifiutare, costruendosi una realtà parallela, secondo il meccanismo della sconfessione. Non vi è dunque un discorso ben definito, attraverso il quale G. possa rapportarsi al proprio godimento per strutturare un legame sociale, per “abitare il linguaggio” in modo da poter coniugare le esigenze della comunità alle proprie esigenze pulsionali.

Ecco allora la necessità per G. di costruirsi un mondo da abitare, dove le cose si svolgono come in una telenovela con drammi e sceneggiate (come quelle che vede in TV) mai veri fino in fondo, ma che vitalizzano un'esistenza che altrimenti sarebbe piatta e vuota. Alla sua età una donna è nel “mezzo del cammino”, mentre G. sembra vivere ancora in una eterna pre-adolescenza, fatta di fantasie e sogni ad occhi aperti, di “hello kitty”, gatti e recite. Il dispiegamento di una vita da donna adulta è rimandato ad un futuro non meglio identificato, ad un domani sempre atteso. Diventare un'attrice famosa, pubblicare il libro, sposarsi sono sogni in cui crede fermamente e che danno senso allo scorrere quotidiano ed abitudinario. Se non si identificasse nel ruolo dell'attrice e della scrittrice, su cosa potrebbe basare la sua fragile identità? In modo “intelligente” si è agganciata a delle insegne che non la facciano sprofondare nell'incertezza angosciante del “chi sono”. D'altronde il suo libro dal titolo “La solitudine, lettere alla mia amica Ambra” è la dichiarazione di una solitudine reale, l'affermazione della sua diversità e della distanza che la separa dagli altri.

Come dice S. Sausse “in quale modello si possono identificare, loro che sono continuamente definiti per ciò che non sono o ciò che non hanno? Diversi dagli altri, cercano disperatamente, come Narciso, uno specchio che possa riflettere la sua immagine” (Specchi infranti, ed. Ananke, pg 49)

E' a partire da questa lettura, che sono state messe in atto delle importanti azioni nel corso degli anni, che hanno dato una nuova direzione al “progetto di vita” di G..

Un paio di anni fa, infatti, è stato proposto a G. di partecipare ad un progetto sperimentale denominato “E' tempo di andare”, rivolto a ragazzi con disabilità intellettiva non gravissima. I ragazzi divisi in piccoli gruppi (5/7 persone) un paio di pomeriggi a settimana, si incontrano presso un appartamento e, coadiuvati da un paio di educatori, sono chiamati a scegliere quali attività svolgere, sia all'interno che all'esterno dell'appartamento, attività che abbiano a che fare soprattutto con la vita reale. Il piccolo gruppo diviene lo specchio in cui riflettersi, pur rimanendo agganciati al contesto sociale: non un centro diurno, ma un appartamento di civile abitazione; non attività strutturate, ma esperienze decise insieme da svolgere sul territorio; non il pulmino, ma l'automobile; non la mensa ma il cucinare. Tutto ciò crea una prospettiva, un futuro possibile “su misura” per loro, al di fuori della famiglia, al di fuori della comunità/istituto, ma insieme ad altri “simili”.

Dopo un'iniziale ritrosia rispetto alla nuova esperienza, G. ha partecipato in maniera entusiastica e, con le sue modalità, ha subito legato con gli altri ragazzi ed iniziato a fare proposte: ha trovato degli amici, i “belli dentro”, come hanno deciso di chiamarsi.  La sua vita, insomma, ha preso un'altra piega: un ragazzo l'ha iniziata a corteggiare, ha iniziato a vedersi parte di un qualcosa, a sentirsi meno sola, a cambiare alcune sue abitudini ormai rigide, a non sentirsi più soltanto “oggetto” degli altri e delle loro decisioni. Nel rispecchiamento con gli altri ha trovato la spinta ad attuare dei cambiamenti, che hanno avuto degli effetti benefici sulla sua qualità di vita in generale, nonostante la difficoltà di collaborare da parte della madre. Ad esempio è nettamente migliorata la sua deambulazione, segno di una sempre maggiore sicurezza e stabilità, anche psicologica.

Per quanto riguarda il libro, con il supporto dell'educatrice domiciliare e del regista del gruppo teatrale che frequenta, è riuscita a “pubblicare” il suo libro, anche se è diventato un'altra cosa: le parti in cui G. usava toni molto forti nei confronti della ex educatrice, sono state praticamente cancellate. Quello che ne è venuto fuori è un “innocuo” libricino, da cui emerge uno spaccato della sua solitudine, piuttosto che della sua “rabbia”. Ad ogni modo, anche alla luce della nuova esperienza di gruppo che sta vivendo,  la figura “minacciosa” dell'ex educatrice è praticamente scomparsa dai racconti di G.: ora parla delle cose che fa con il suo gruppo di amici, oppure delle presentazioni del libro che ha realizzato grazie ai suoi contatti con alcune associazioni di volontariato e parrocchiali. Nel frattempo ha iniziato a scrivere un altro libro dal titolo “L'amore sopra ogni cosa”.

Non vi è dubbio che la carica pulsionale ha subìto uno spostamento ed una trasformazione attraverso il senso di appartenenza e la relazione reale con gli amici dei “Belli dentro”, nel tentativo, seppur maldestro, di instaurare un rapporto di reciprocità con i suoi simili.

Inoltre si è proceduto ad una radicale modifica della sua attività occupazionale, interrompendo quella che era oramai diventata un'attività priva di senso e di valore, non più dignitosa per lei, e individuando un altro contesto più consono e di suo gradimento: quello di un maneggio.

G. infatti ha sempre amato i cavalli e gli animali in generale: da alcuni anni ha ripreso a fare lezioni di equitazione ed il centro ippico si è reso disponibile ad accoglierla anche in altri orari per svolgere un tirocinio di inclusione sociale.

Altro importante risultato è il fatto che i genitori abbiano deciso di chiedere il riconoscimento di invalidità civile, che le dà diritto ad una pensione, sentendosi supportati in questo anche dal servizio in cui opero: G. ha chiesto cosa volesse dire invalido, cosa significassero le parole ritardo mentale scritte dal neurologo sulla relazione e si è riconosciuta nella diagnosi di “ritardo mentale medio”, riuscendo a dare un nome alle sue difficoltà e, di conseguenza, accettando la scelta dei genitori.

In generale ho la sensazione che G. abbia iniziato a costruirsi un progetto quanto più simile possibile a quello di una persona adulta, grazie ad un lavoro di rete fatto di ascolto e condivisione.

Il lavoro che è stato svolto è il segno che, come dice S. Sausse, “un orientamento psicoanalitico può ispirare, nutrire, approfondire delle pratiche al di fuori della situazione puramente analitica e rivolgersi a professionisti che non necessariamente occupino una posizione analitica” (Le cliniche dell'estremo, ed Poiesis,  pg. 5).

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