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NOI E ALTRI. A proposito d’identità e differenza

16 Feb 18

A cura di Paolo F. Peloso

Noi e altri. Identità e differenze al confine tra scienze diverse è il titolo del libro curato dal genetista Emilio Di Maria – da anni impegnato sul tema dell’assistenza sanitaria ai migranti e anima e motore del Gruppo Ligure Immigrazione e Salute – e pubblicato a Genova da De Ferrari per la Genova University Press, che è scaricabile gratuitamente come e-book dal sito gup.unige.it (clicca qui per il link).
Mi pare un testo di straordinaria importanza, e ringrazio Emilio per avermi chiesto di prendervi parte. Non è usuale, lo so, recensire un testo del quale si è anche coautore; ma in questo caso credo di potermelo permettere perché nel mio intervento mi sono limitato a riproporre, prendendo spesso in prestito anche le sue stesse parole, le idee di Frantz Fanon, lo psichiatra martinicano di colore che ha scelto di unirsi alla lotta di liberazione algerina, i cui scritti più e meno noti sono oggi tutti disponibili in italiano[i].
Il volume, che raccoglie gli interventi al convegno omonimo tenutosi a Genova nell’ottobre 2014 e qualcosa in più, è diviso in tre parti, ma io preferisco leggerlo qui nella sua unitarietà per essere più libero di lumeggiare alcune connessioni che diversamente potrebbero sfuggire. E lo farò a partire dall’intervento che mi pare centrale, quello dell’antropologo Francesco Remotti dell’Università di Torino, che approfondisce i vantaggi di una rappresentazione del confronto tra gli esseri umani nei termini somiglianze/differenze, rispetto a quella nei termini dicotomici identità/alterità. I massacri e i genocidi, in questa prospettiva, hanno forse anche a che fare con il tentativo esasperato di negare alla radice l’ineludibile e ostinata somiglianza che lega l’uno all’altro gli esseri umani[ii]. A partire dal sofista Protagora per il quale ogni cosa è, in certo modo, simile all’altra. Se la strada dell’antropologia percorsa da Remotti lo porta a stemperare la dicotomia identità/alterità in quella somiglianze/differenze, quella della storia che io ho scelto di percorrere per mano a un compagno di viaggio più grande di me, Fanon appunto, porta in direzione per certi aspetti opposta per arrivare poi però, mi pare, alla stessa conclusione. Fanon ci mostra infatti lo stesso problema senza collocarsi “fuori campo” – come mi pare faccia Remotti – ma dal punto di vista di chi è “altro” rispetto all’identità per eccellenza, quella di noi “bianchi”. Di fronte ai quali lui è il dannato, nero martinicano per nascita e algerino per scelta, e affronta il tema della sua alterità rifiutando di risolverla tanto con l’accentuare le somiglianze (lattificazione), che le differenze (negritudine). Ma lo fa percorrendo la strada di afferrare quella dicotomia per le corna, esasperandola e demistificandola insieme per coglierne l’autentico significato di oppressione culturale, economica, politica dell’europeo sull’altro[iii]. Solo sfuggendo alla trappola di viversi come “altro” rispetto all’uno, rispetto al quale sforzarsi di somigliare o di differenziarsi, il dannato – che è lui stesso, ed è anche colui a/per cui scrive, e che solo gli interessa – potrà realizzare a un livello più alto la propria identità, l’identità di essere umano. Il che lo porta allo stesso risultato, mi pare, al quale ci guida Remotti coll’invitarci a scoprire come ciascun gruppo umano presenti infinite differenze al proprio interno e altrettante somiglianze tra i  membri propri e quelli di altri gruppi. Una conclusione, questa, alla quale giunge a sua volta, percorrendo non la strada dell’antropologia né della storia ma quella della genetica, Guido Barbujani nel suo contributo al testo.
Tre strade, dunque, quelle di Remotti, Fanon e Barbujani, molto diverse per giungere allo stesso risultato, mi pare: che gli uomini sono troppo somiglianti e differenti per poter essere divisi in gruppi (stirpi, razze ecc.) che risultino omogenei al proprio interno, ed eterogenei l’uno dall’altro.
Ed è un obiettivo al quale concorrono ancora altri contributi che pongono al centro la nozione di razza, per demistificarla. Si tratta di quello dell’antropologo Antonio Guerci o ancora di Barbujani, il quale nella seconda parte del suo intervento demolisce il concetto di razza a partire dalle sue espressioni più grottesche nel Manifesto degli scienziati razzisti pubblicato dal fascismo nel luglio 1938, del quale ricorreranno quest’anno i settant’anni[iv], e sulla rivista La difesa della razza che, diretta da Telesio Interlandi, divulgava il pensiero razzista del regime. Ma prosegue anche – perché in campo di razza il nazifascismo non fa infondo che esasperare quello che è stato il pensiero dominante dell’Europa dei secoli precedenti – con i vari fallimenti delle classificazione su base razziale dell’umanità a partire da quella di Linneo nel XVIII secolo. Per poi concludere, con Charles Darwin, che con la divisione in razze dell’umanità siamo comunque nell’ambito dell’opinione, non della scienza. Opinioni che comunque hanno avuto un peso terribile nella storia. Del concetto di razza si occupa ancora Federico Falloppa, che ricostruisce e problematizza la vicenda dell’uso di quella parola nella legislazione italiana, traccia e monito di qualcosa che si vorrebbe appartenesse al passato, ma al passato non riusciamo nonostante tutto a consegnare. Ed è, questo, un tema divenuto improvvisamente e inaspettatamente attuale in questi giorni, dopo l’incauta (stupida, se posso permettermi, e tale che dovrebbe togliere già da sola ogni dubbio all’elettore!) uscita del candidato di destra alle elezioni lombarde Attilio Fontana a proposito della “razza bianca”, e il suo maldestro tentativo di giustificarla a posteriori agitando la Costituzione. Dove la parola razza certo sta scritta – e deve a mio parere rimanere scritta – perché serve a designare un pregiudizio insensato, del quale egli per primo si è dimostrato ancora portatore, e non un concetto scientifico. Deve rimanervi scritta perché, se è vero che come fenomeno biologico quel concetto non ha nessun senso, come illustri biologi e genetisti danno ormai per scontato; pure come fenomeno storico ne aveva invece molto in quel 1947, e continua purtroppo ad averne.
Il neurologo Stefano F. Cappa si occupa delle implicazioni della questione identità/differenze nell’ambito delle neuroscienze, ripercorrendo gli studi recenti volti a indagare il fondamento neurologico dell’empatia. E ci spinge a porci la domanda: ma se l’empatia, e altrove abbiamo parlato del “valore dell’altro[v], è sentimento tanto diffuso e tanto correlato all’essere uomo da avere addirittura un fondamento neurologico, perché in tanti casi non funziona?
Credo che a questo concorra il fatto che razzismo, genocidio, perdita di valore della vita dell’altro hanno spesso a che fare con la sua precedente degradazione alle categorie del subumano, non del tutto umano,  intermedio tra l’umano e il “scimmiesco”. Raskolnikov, del resto, deve prima ridurre a schifoso pidocchio l’usuraia nella sua mente, per poterla poi schiacciare. E così – devo a Gaddo Flego questa suggestione – Fabrizio de André in una bellissima melodia mediterranea ispirata al bombardamento israeliano della città libanese di Sidone nel 1982 canta: scurri a gente comme selvaggin-a, inseguire la gente come selvaggina[vi]. E’ da questa posizione mentale che l’altro non mi rassomiglia più in base a un’esperienza di umanità che ci è comune, e vengono allora favoriti l’assassinio, la guerra, il genocidio.
Poi questo testo, davvero così ricco di suggestioni da non poter essere certo tutte qui raccolte, prosegue con l’antropologo Ilario Rossi che si sofferma sulla relazione tra corpo e migrazioni e il nuovo significato che assumono il corpo e il soggetto in un mondo divenuto così mobile, dove la diversità è divenuta la norma in società eterogenee e plurali e la mancanza di contenitori comunitari obbliga ciascuno a costruire la propria identità con un grado di autonomia e responsabilità decisamente più elevato. Tahr Lamri, intellettuale poliedrico di origine algerina, propone a sua volta importanti riflessioni sulla differenza del concetto d’identità tra la cultura europea e una cultura “altra”, quella araba, ripercorrendo la storia di come l’europeo abbia terrorizzato da secoli, e continua a terrorizzare oggi, il resto dell’umanità attraverso la superiorità tecnologica nella produzione di armi, imponendo la centralità della propria storia e cultura su quelle, antiche e recenti, sviluppate in altri contesti. E termina col ripercorrere la vicenda dell’immigrazione contemporanea in Italia dai primi anni, quelli nei quali ad arrivare erano soprattutto i “vu’ cumprà” senegalesi, qualche maghrebino e i profughi dell’Albania e dell’ex Jugoslavia, che  il succedersi turbinoso degli eventi ci porta rapidamente a dimenticare.
Nel campo delle migrazioni contemporanee si muove anche l’etnopsicologa Lelia Pisani che affronta le difficoltà dell’incontro transculturale di cura tanto nell’ambito della cooperazione che dell’assistenza ai migranti. Il trauma vissuto in patria, all’origine del viaggio, ma anche durante il viaggio stesso: il deserto, la Libia e il mare. E oggi, aggiungerei dopo il decreto Minniti, il nuovo trauma ulteriore del ritorno indietro, la sconfitta del progetto migratorio, il tradimento dell’Europa e la riconsegna all’inferno libico[vii].
Elvira Mujcic apre la questione dei conflitti contemporanei offrendo una testimonianza diretta del proprio vissuto dell’identità e differenza nel corso della guerra nella ex Jugoslavia. E, sempre in  ambito di conflitti anche se più distanti da noi, altri tre interventi hanno al centro, in occasione del suo ventennale, il genocidio ruandese il cui ricordo era una degli obiettivi che Di Maria perseguiva nell’organizzare la giornata. Si tratta di quello del medico Gaddo Flego, del quale ho recentemente recensito su questa rivista il diario[viii], che qui rintraccia attraverso un ragionamento colto e convincente l’esistenza di un filo comune invisibile e insanguinato tra i massacri della Grande guerra, conosciuti attraverso i ricordi del nonno, quelli dei quali si è trovato testimone nel Ciad di Hissène Habré e nel Ruanda, la guerra fratricida alle nostre porte tra i popoli della ex-Jugoslavia, ma anche gli episodi di razzismo ipocrita e ostinato che caratterizzano episodi di cronaca anche recentissimi negli Stati Uniti e i fili spinati e l’ostilità con i quali l’Europa sta contrastando la spinta migratoria che la investe dalla parte povera del mondo. In mezzo  a tanta sciagura che ha caratterizzato l’ultimo secolo di storia, non manca però da parte sua l’evocazione di qualche esempio incoraggiante di pacifica convivenza e tolleranza, che lo porta a pensare per contrasto a «cosa potrebbero essere il mondo, il Mediterraneo, l’Italia se davvero cercassimo la convivenza e la pace, e non un’astratta definizione di ciò che siamo e non siamo». Più enfasi sulle somiglianze a partire da una comune esperienza che è data agli esseri umani, quella della vita umana stessa, dunque, e meno sulle differenze che portano alla separazione in gruppi dai confini sempre meticci e incerti. Ancora di Ruanda scrive Jean Paul Habima che illustra in modo convincente le radici che affonda anche quel genocidio, nato apparentemente da vicende autoctone, nella storia coloniale e ne propone una drammatica testimonianza in prima persona.
Nella cultura europea siamo abituati a vivere in modo dissociato la pratica della giustizia: da una parte c’è la giustizia di Cesare, dello Stato, degli uomini, basata sulla ricerca della verità attraverso l’inquisizione, l’identificazione del colpevole e la punizione. Che può anche avere fini riabilitativi, può tenere conto e premiare la “buona condotta” o anche la collaborazione alle indagini (definita con una certa ipocrisia “pentimento”), ma sempre punizione è. E dall’altra parte, c’è la giustizia di Dio, basata sulla confessione, il pentimento (quello vero, interno), la riparazione come fatti intimi collocati in una dimensione dialogica, privata. Il primo più attento ai fatti, il secondo più alle intenzioni. E, per inciso, mi pare che nella vicenda dell’inquisizione di Delitto e castigo e in quella del processo de I fratelli Karamazov Dostoëvskij si sia soffermato, accanto ad altre questioni, sulla difficile coabitazione nella stessa cultura europea di queste due differenti concezioni della giustizia[ix]. Quello che la giurista Valentina Codeluppi approfondisce è un fenomeno interessante, perché nelle forme giuridiche che la riconciliazione ha assunto in Ruanda il sistema della giustizia umana come è usualmente concepita si è rivelato impacciato, in una situazione nella quale il crimine era stato tanto diffuso, generalizzato, e in cui criminale era stata una porzione tanto ampia della popolazione. E così a questo sistema, che certo ha pure funzionato attraverso il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda e le Corti ruandesi, se ne è affiancato un altro, recuperato dalla tradizione africana e somigliante per molti aspetti alla concezione della giustizia come riconciliazione che il mondo cristiano ha relegato nella sfera religiosa, ma da essa differente perché spostato qui dalla dimensione dialogica, privata, intima e segreta a una dimensione comunitaria, pubblica: il metodo “guacaca”. Che è un metodo che richiama per affinità le pratiche di riconciliazione utilizzate in Sudafrica per chiudere l’immensa ingiustizia dell’apartheid, si basa sull’interazione diretta carnefice/vittima al cospetto della comunità e ha per fine prioritario la pacificazione e la reintegrazione del criminale nella comunità stessa attraverso un’interazione diretta criminale/vittima/comunità che offre forse una maggiore possibilità di soddisfazione e pacificazione interiore alla vittima. Il che è tanto più interessante perché sembra rispondere anche all’esigenza posta da alcuni più recenti orientamenti della criminologia, di una maggiore attenzione  alla persona della vittima, e alle sue dirette esigenze di riparazione emotiva e materiale. 
Ma non è ancora tutto. Il testo è arricchito da due DVD che presentano un video realizzato dall’associazione Les hommes débout” sul genocidio ruandese e consentono di ascoltare una buona parte dei testi raccolti nel volume, ma ne propongono anche altri. A partire dallo storico Antonio Gibelli che insiste, basandosi sui suoi studi sulla cultura popolare nell’ambito della prima guerra mondiale, sul fatto che coesistere pacificamente tra gli uomini e prevenire così il momento in cui improvvisamente parte quell’ubriacatura che li trasforma e li porta alla guerra, non è qualcosa che possiamo aspettarci venga naturalmente da sé, ma richiede studio e sforzo politico. La storia ci dimostra, in altri termini, che la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, anche attraverso quello strumento che è la guerra, è nell’ordine delle possibilità e se si vuole contrastarla, è necessario un lavoro politico in quella direzione. Si tratta insomma per Gibelli di sforzarsi di studiare per meglio comprendere quel momento in cui la guerra (o il pogrom razzista) ha inizio, in particolare come disposizione d’animo, per evitare che la situazione deflagri. Eventi e testi, insomma, come questi messi in campo da Di Maria, nei quali la contrapposizione “noi”/”altri” è demistificata attraverso molteplici strade, mi pare possano essere utili proprio a questo. In un intervento al solito affascinante e profondo, poi, Moni Ovadia esplora il concetto di alterità basandosi sulla tradizione comune alle tre religioni monoteistiche; ed è struggente la lettura da parte di Carla Peirolero di testimonianze di sopravvissuti al genocidio del Ruanda, o quella di una lettera aperta di Jonas Hassen Khemiri su cosa significhi avere tratti somatici non caucasici quando si tratta di passare una frontiera o entrare in un negozio ed essere, già a motivo dei tratti somatici, un individuo sospetto. Nell’Europa di oggi, non in chissà quale incivile passato. Ed è un brano, questo di Kemiri, che mi ha evocato una scena della quale mi è capitato di essere spesso imbarazzato testimone, quella in cui mi è parso evidente che personale addetto al controllo dei titoli di viaggio, dei documenti d’identità o del bagaglio a mano in una stazione ferroviaria seguisse nel procedere un criterio inconfessabile ma costante: quello dei tratti somatici non "caucasici" che tradiscono un’alterità impossibile da nascondere e considerata evidentemente in sé sospetta. Tratti impressi nel corpo, sul cui ingombro ha scritto pagine bellissime Fanon. E chissà se dietro la scelta di questo criterio stavano inconfessabili circolari “riservate”, od ordini che nessuno si è permesso di rendere scritti ma sono stati solo allusi in una muta e solerte intesa o semplicemente pregiudizi individuali.
Silvio Ferrari, infine, commenta l’insieme degli interventi per cogliervi l’auspicio di una nuova «nozione di mediterraneità che sia appunto differenza e però fortemente convergenza», nonché la consapevolezza del fatto che «ci sono nel nostro Paese molte forze capaci culturalmente e socialmente di dare vita a una nozione di cultura molto alta, e contemporaneamente fanno molta fatica a trasformare queste qualità in senso comune».
Mi pare perciò che attraverso questo libro Emilio abbia – lavorando con la determinazione e la costanza che apprezzo in lui per la sua realizzazione – saputo raccogliere voci e argomenti diversi per fare del centenario della Grande guerra e del genocidio armeno, del settantennale della fine della seconda guerra mondiale e del ventennale della guerra nella ex-Jugoslava e del genocidio ruandese, che stiamo celebrando in questo periodo, un’occasione preziosa per affrontare questioni nelle quale siamo, nonostante tutto, ancora incredibilmente immersi. Come l’incredibile persistere del razzismo nelle sue varie declinazioni, fino al grottesco[x], l’atteggiamento xenofobo con il quale l’Europa sta affrontando l’ondata migratoria che la investe e la irresponsabile determinazione con la quale sta presidiando i suoi confini[xi], ma anche alcuni dei più recenti conflitti armati che hanno ancora per oggetto il “territorio”[xii]. Temi, tutti, che nel loro insieme ci dicono come la questione dello stare sulla terra insieme “noi e altri” sia oggi centrale.
Le parole che questo testo e i suoi DVD raccolgono sono dunque speranza di un nuovo mondo, e incoraggiano a spendere noi stessi per lottare con caparbietà perché esso divenga possibile.
Sembra difficile ma ne vale la pena, credo!
 
 
Nel video allegato il brano Io ti rispetto tratto dall’album La cantagranda, forse walzer pubblicato nel 2000, quando le migrazioni erano soprattutto quelle dai Balcani, dal cantautore Ivan Della Mea (1940-2009).
 

[i] Per la recensione all’ultima raccolta di scritti relativi alla guerra di liberazione dall’Algeria, cfr, su questa rivista: P.F. Peloso, Frantz Fanon: scritti politici, e non solo (clicca qui per il link).
[ii] Cfr. F. Remotti, Contro l’identità, Bari, Laterza, 1996; L’ossessione identitaria, Bari, Laterza, 2010.
[iii] P.F. Peloso, Il valore del sangue. Un  pensiero alle stragi terroriste del 12 e 13 novembre, POL. it, 2015 (clicca qui per il link).
[iv] Cfr. P.F. Peloso, La mostra di Roma e il “mea culpa” della psichiatria, POL. it, 2017 (clicca qui per il link); L. Benevelli, Gli psichiatri e la legislazione razzista del 1938 , POL. it, 2018 (clicca qui per il link).
[v] A.M. Ferro, P.F.Peloso, L. Ferrannini, Alcune vicissitudini del sentimento del valore altrui, della responsabilità e della colpa nell’omicidio, Psicoterapia e scienze umane, XLI, 2, 2007, pp. 171-190; poi in: Aa. Vv.: Forme del male. Esperienze umane e psicopatologia (a cura di A.M. Ferro, C. Parodi, S. Porazzo, R. Bosio), Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 155-172.
[vi] «Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza. La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea» (da un’intervista a Fabrizio de André).
[vii] P.F. Peloso, Politiche migratorie. Preoccupazioni dalla svolta estiva, POL. it, 2017 (clicca qui per il link).
[viii] Si veda su questa rivista, a proposito del diario di Gaddo Flego sulla sua esperienza in Rwanda, P.F. Peloso, Un milione di vite. Recensione, 2017 (clicca qui per il link).
[ix] Sui due romanzi cfr. su questa rivista:  P.F. Peloso, Dostoëvskij e la psichiatria positivista del suo secolo, POL. it, 1997 (clicca qui per il link); e 150 anni con Raskolnikov, POL. it, 2016 (clicca qui per il link), oltre all’intervista OPG, il problema della pericolosità e Raskolnikov,   POL. it, 2012  (clicca qui per il link).
[x] Cfr.: P.F Peloso, Turbocapitalismo e cosmominchioneria, POL. it, 2017 (clicca qui per il link).
[xi] P.F Peloso, “Non sono razzista, ma”. Luigi Manconi a Genova, POL. it, 2017 (clicca qui per il link);
[xii] Cfr. su questa rivista la recensione a un saggio snello ma molto suggestivo di Sandro Mezzadra: Terra e confini. Una recensione (clicca qui per il link).

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1 commento

  1. admin

    Quale Editor della rivista mi
    Quale Editor della rivista mi permetto di consigliare ai lettori di andare seguendo il link all’indice della Rubrica (e questo vale per tutte le Rubriche di Psychiatry on line Italia) onde scoprire se non lo si è ancora fatto gli altri contributi che rappresentano un corpus che merita di essere scoperto.
    Ho notato (i counter son ormai molto raffinati e ci dicono assai delle abitudini dei lettori senza scomodare il grande fratello) che molto spesso la lettura di un pezzo è SINGOLA con successiva uscita qunado in realtà il vero arricchimento per chi legge sarebbe scoprire l’evoluzione del pensiero dell’autore che nel tempo ha pubblicato pezzi con un “razionale” comune che meriterebbe di essere scoperto e aprezzato.

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