Autori: Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito
Editore: Sensibili alle Foglie
Anno: 2017
Pagine: 303
Costo: 18 euro
E’ possibile uccidersi dandosi fuoco per un bicchiere d’acqua? Beh, sì se quell’acqua diventa il simbolo della propria dignità, diventa la posta di un braccio di ferro impari tra un’istituzione che ha tutto il potere e una donna che non ha nessun potere.
Già, perché pare sia proprio perché la sua richiesta di un bicchiere d’acqua non è stata raccolta che Antonia Bernardini si è data fuoco nel letto del manicomio criminale di Pozzuoli al quale si trovava legata.
La sua storia è emblematica di tanti “crimini di pace” che si sono consumati e si consumano nelle istituzioni totali, in quelle situazioni cioè dove la persona è spogliata d’ogni potere e tutto il potere è nelle mani di chi gestisce l’istituzione, che non sempre è consapevole di questa sproporzione assoluta e non sempre usa di quel potere assoluto con la prudenza, la coscienza e la responsabilità che il sentimento di giustizia e di rispetto del valore dell’altro dovrebbe imporre a ognuno.
Per questo sarebbe bene che situazioni estreme nelle quali ha luogo questa sproporzione assoluta fossero evitate; per proteggere le persone che ne sono vittima dal rischio di subire abusi, e anche le persone che vengono a trovarsi in mano così tanto potere da esserne inebriate dal rischio di commetterne.
Potremmo elencare tantissime situazioni di questo tipo nel mondo di ieri e anche in quello di oggi; il manicomio e il carcere – e a maggior ragione il manicomio criminale che rappresenta la sintesi dei problemi dell’uno e dell’altro – appartengono ad esse.
Antonia è una donna ai margini, he vive in una baracca alla periferia di Roma. Abbandonata dal marito, qualche volta è ricoverata in manicomio, per lo più su base volontaria, e quando è fuori è abbandonata a se stessa. Siamo nell’Italia prima del 1978, dove il perno dell’assistenza psichiatrica erogata pubblicamente è ancora il manicomio e l’assistenza sanitaria nel Paese delle mutue non è ancora un diritto riconosciuto in modo universalistico. Antonia si trova a essere così oggetto innanzitutto del potere della Magistratura che rischia di diventare arbitrio tanto più quando chi lo subisce è povero – povero materialmente, ma anche povero nella capacità di costruire rete e contrattualità sociali – e non può perciò provvedere a organizzare al meglio la propria difesa. A partire da un reato piccolo di entità modesta che commette da incensurata, viene a trovarsi in carcere e poi, probabilmente per i precedenti psichiatrici e per un comportamento non del tutto rassegnato, in manicomio criminale; finisce così lontana dalla figlia, povera anch’essa e minorenne, che è l’unico riferimento importante. Lì viene sostanzialmente dimenticata dai giudici, lasciata in balia dell’arbitrio dei medici e del personale ausiliario, religioso e civile. Il suo è dunque, senz’altro un “morire di classe” come ricordava il titolo un libro di Franco e Franca Basaglia in quegli anni.
Nel manicomio di Pozzuoli sono molteplici i segni del divenire assoluto del potere dell’istituzione sulla persona, ma quello più vistoso è certamente l’uso che viene fatto della contenzione. Un gruppo di donne considerate genericamente “agitate” è sottoposto dai medici a una prescrizione generica della contenzione, a prescindere da quando siano realmente agitate e quando no, per periodi lunghissimi, di giorni e giorni. Di fatto, nonostante il regolamento applicativo della legge 36, del 1909, sia allora ancora vigente e prescriva chiaramente che la contenzione nei manicomi debba essere stabilita per iscritto dal medico che ne fissa mezzi e durata, nella prassi di quel manicomio il medico si limita a prescrivere una sorta di vaga “possibilità di contenere” a durata pressoché illimitata, delegando poi all’arbitrio delle suore la possibilità di decidere quando e come la contenzione debba essere concretamente applicata. Una delega in bianco che giunge al punto che, a quanto pare di evincere dagli atti giudiziari, il medico partendo per le ferie firma alcune pagine del registro delle contenzioni senza indicare chi sarà oggetto del provvedimento, in modo che il personale religioso possa inserire in seguito i nomi che ritiene necessari. Quel gruppo di donne vive, così, perennemente oggetto del ricatto di una “contenzionabilità” senza appello, senza neppure quella garanzia prevista per tutti dalla legge che è il giudizio medico. Il regolamento del 1909, in più, stabiliva che la contenzione dovesse essere un provvedimento “eccezionale”, ma invece a Pozzuoli risulta chiaramente che esso rappresentava, almeno per quel gruppo di donne, piuttosto la regola che l’eccezione. Al punto che, nelle parole del giudice istruttore, che confessa stupore per la “superficialità” nel disporre la contenzione, dalle testimonianze è emerso un suo uso metodico e indiscriminato, al di fuori di quelle limitazioni imposte dalla legge «dirette a rendere l’uso della misura di coercizione fisica un sussidio terapeutico di uso eccezionale e non comodo e facile sistema per ottenere tranquillità o, peggio ancora, un disumano e vile strumento punitivo» (p. 205). Del resto, in nessun punto dell’inchiesta emerge chiarezza sul motivo specifico per cui, in quel momento preciso in cui si diede fuoco, Antonia fosse legata: è solo la figlia a chiederselo (p. 259) e a quella domanda non c’è ancora oggi riposta.
Di più, poiché anche gli aguzzini vengono di tanto in tanto toccati dal sentimento di colpa, la contenzione a Pozzuoli era non solo applicata in modo illegalmente generalizzato, ma era anche applicata in modo ambivalente, e la persona legata al letto lo era perciò quel tanto da non potersi alzare e “disturbare”, ma non era realmente immobilizzata. Una situazione perciò che oltre a essere umiliante, dolorosa per chi la subiva era anche, come i fatti dimostrano, a maggior ragione pericolosa.
In questa situazione, costretta in manicomio criminale per un futile motivo e senza che, pur essendo trascorso molto tempo, l’Autorità giudiziaria abbia preso una decisione formale a suo riguardo; legata al letto per periodi lunghi, senza una concreta ragione, al di fuori della legge e senza specifica prescrizione medica, capita probabilmente che Antonia abbia sete. Chiede probabilmente a voce sempre più alta, disperatamente, un bicchier d’acqua. Non è un desiderio difficile da esaudire, infondo. Ma i desideri di Antonia, come la sua intera persona, non contano. E’ l’ennesimo sopruso, che si aggiunge a tanti. E Antonia dà fuoco al proprio letto: sarà forse un ultimo disperato tentativo di richiamare su di sé l’attenzione; sarà un disperato gesto di affermazione, sia pure nel distruggersi, della signoria su se stessa e il suo destino; sarà un tentativo impotente ribellione, di colpire l’istituzione colpendo se stessa, come se ne vedono tante nelle istituzioni totali: «sono stata spinta a fare quel che ho fatto perché ero sempre legata… ci legavano come Cristo in Croce» sono le ultime parole raccolte dal giudice al suo capezzale (p. 208). Chissà. Antonia muore, e in questa situazione di arbitrio assoluto i giudici di primo grado si sforzano di parcellizzare una colpa che appartiene evidentemente a un sistema nel quale ciascuno ha la sua parte, dentro e fuori il manicomio, e distribuire le responsabilità e le punizioni. Quelli dell’appello mandano tutti assolti. Non ci sono colpevoli per la morte di Antonia, eclissatasi come persona nel momento in cui, per una banale lite alla stazione, è entrata in un meccanismo doppiamente infernale dal quale è restituita cadavere.
E non è, questa, l’unica vicenda consumatasi in quegli anni a Pozzuoli della quale gli autori danno conto. Qualche tempo prima c’è stata anche una giovane donna inglese, Carol Berger, appartenente a un ceto più potente di per sé rispetto ad Antonia e cittadina di una potente nazione alleata, ma appartenente anche a quel mondo degli hippy oggetto di disprezzo per le persone per bene, che finisce anch’essa per ragioni che paiono assurde a Pozzuoli, e restituita cadavere perché le è stata negata la cura medica della quale aveva vitale necessità. Poi c’è l’impiccagione di Teresa; certo in luoghi di privazione della libertà il suicidio non rappresenta un fatto raro, e bisognerebbe anche su questo riflettere, ma comunque in quel luogo e in quel momento, mentre divampa la polemica pubblica per l’impressionante morte di Antonia, il fatto appare in una luce diversa.
Così il mondo del manicomio è messo a nudo in tutto l’incredibile abbrutimento che aveva raggiunto in quei primi anni ’70, e leggiamo del direttore dell’altro manicomio criminale napoletano, quello di Sant’Eframo, che giustifica la contenzione in questi termini: «bisogna distinguere: noi parliamo dell’essere umano malato, non dell’essere umano sano. E’ logico che se anche io, che sono apparentemente sano, mi chiudo in una cella non resisterò tre o quattro ore. Ma il malato di mente ha i suoi problemi, vive nel suo mondo… Come se noi due, che siamo sani, dovremmo (sic) subire un’operazione che non è necessaria» (p. 127). E non stupisce che, se la psichiatria ragiona in questo modo, William Berger, Il compagno di Carol che, detenuto a sua volta, aveva cercato disperatamente di aiutarla, commenti a proposito della morte di Antonia: «in quel posto può succedere di tutto. E’ difficile pensare ad atrocità che non siano di casa a Pozzuoli» (p. 133). Lì può succedere di tutto come in ogni luogo – paradigmatico il lager – dove l’altro non è più l’altro, ma l’alieno, dove l’altro è spogliato del suo essere persona che lo rende pari a me. La legge 180, infondo, ha rappresentato uno sforzo per contrastare questa tendenza all’alienazione dell’altro che, forseè la contraddizione che la psichiatria è destinata a portarsi sempre dentro; e liberare la persona con una malattia della mente da questa posizione ingiusta. In qualche misura ha avuto successo in questo, ma mai in modo ubiquitario e mai in modo definitivo, come periodicamente la cronaca e l’esperienza diretta ci dimostrano.
Storie di malasanità di altri tempi, si potrebbe osservare. Oggetto d’interesse per gli storici, ma non per gli operatori psichiatrici che hanno estirpato la malapianta del manicomio con la legge 180, e oggi anche la malapianta del manicomio criminale. Ma vicende tristi che si sono consumate in questi anni, come quella di Franco Mastrogiovanni morto dopo più di 70 ore in contenzione in gran parte trascorse immobile in un moderno SPDC, ci dicono che le cose non stanno così. Che in luoghi sempre a rischio di arbitrio e di eclissi della persona nei suoi più vitali diritti, come sono sempre i luoghi della psichiatria, valgono sempre le parole dello psichiatra Ernesto Belmondo quando nel 1904 ammoniva i colleghi: facciamo a meno della contenzione, strumento di un inaudito potere di una persona su una persona, perché anche solo il primo passo nell’uso è sempre a rischio di scivolamento verso l’abuso. Perciò, la storia di Antonia che Dell’Aquila e Esposito hanno il merito di avere disseppellito dagli archivi dei tribunali e dei periodici, è storia di oggi.
Il libro La storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio nasce da un paziente lavoro d’archivio, che immaginiamo lungo e faticoso, e da un tentativo decisamente riuscito di tenere insieme rigore scientifico e storico e un registro narrativo che ne rende senz’altro agevole la lettura.
Contribuisce infatti a renderlo prezioso, oltre l’interesse e l’attualità dei temi che affronta, il fatto di essere – nonostante il carattere della vicenda di cui tratta desti certo ancora tristezza, scoramento, indignazione – di lettura avvincente e, pur essendo noto fin dalle prime pagine quale sarà l’epilogo per la protagonista, capace di coinvolgere come una vera inchiesta giornalistica nella curiosità di scoprire pagina dopo pagina come siano andate realmente le cose e come siano state, alla fine, attribuite le responsabilità.
Nello stesso ciclo sarà prsentato mercoledì 9 maggio "L'ascolto gentile" di Eugenio Borgna (clicca qui per il link alla recensione). Clicca qui, invece, per il link al programma del ciclo.
aggiunto video con gli autori
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