Esattamente quarant’anni fa entrava in vigore la legge 180, che decretava la chiusura degli ospedali psichiatrici civili. Era l’esito di un percorso decennale di deistituzionalizzazione, cui aveva contribuito in misura determinante la “rivoluzione basagliana”.
Questo accadeva quarant’anni fa in Italia; ma cent’anni prima ancora? In occasione dell’anniversario ci permettiamo di proporre una breve incursione in una pagina particolare e oggi forse poco nota della storia delle istituzioni psichiatriche nel nostro Paese.
Nel luglio 1871 il consiglio provinciale di Pesaro organizzò un concorso pubblico per la nomina del nuovo direttore del manicomio locale. Quest’ultimo, intitolato “Ospizio di San Benedetto”, situato nel centro storico, era stato inaugurato dal governo pontificio nel gennaio del 1829 e consisteva in un fabbricato a più piani, con due cortili interni, diviso in tre sezioni: una per gli uomini, una per le donne e una terza riservata ai “furiosi, maligni o queruli”.
Nella prima metà del XIX secolo l’organizzazione delle strutture asilari per gli alienati appariva in ritardo rispetto alla realtà delle nazioni europee più avanzate. Nel 1822, al termine di un viaggio nel nostro Paese, il medico francese Louis Valentin criticava i mezzi impiegati nel trattamento dei folli, lamentando che al Sant’Orsola di Bologna «sono i furiosi incatenati ai piedi», alla Senavra persistevano «i grandi inconvenienti delle catene e delle battiture», San Servolo appariva «ospedale vizioso e male accomodato» e solo ad Aversa i malati si curavano con terapie morali ispirate a quelle di Pinel (1).
In effetti, il paradigma psichiatrico di Pinel, fondato sul principio del trattamento morale, non aveva incontrato da noi grande favore, probabilmente per la distanza sussistente rispetto alla concezione della follia come malattia delle passioni, impostasi almeno parzialmente in Francia nei primi decenni del XIX secolo. Infatti in Italia la psichiatria del tempo riservava maggiori consensi alle scuole mediche tedesche; si affermava in opposizione all’astrattezza di una filosofia metafisica e non poteva che incontrarsi con un’antropologia positivista, anzi, come scrive Delia Frigessi «sembra quasi che positivismo, organicismo e psichiatra […] facciano tutt’uno» (2). Per il medico milanese Andrea Verga, uno dei padri della psichiatria italiana, presso il quale il giovane Lombroso studiò a Pavia, non aveva senso ricercare le cause della pazzia soprattutto nei fattori morali, mentre essa traeva invece origine da lesioni e alterazioni morbose dei tessuti cerebrali, trattandosi di «un’affezione congenita» oppure «acquisita ed accidentale del cervello […] per la quale alterandosi le relative funzioni della sensibilità, della intelligenza e della volontà, un individuo appare diverso dalla comune degli uomini e da quel che era egli stesso» (3).
A Pesaro, da pochi anni annessa al nuovo Regno unitario, dopo il crollo dello Stato Pontificio, si intendeva trovare una guida che segnasse un’innovazione per il locale frenocomio e all’esito della selezione si individuò il nome di Cesare Lombroso. Quest’ultimo, all’epoca 36enne, era ancora lontano dalla notorietà che avrebbe raggiunto come padre dell’antropologia criminale, ma godeva già di stima per le esperienze manicomiali a Pavia, dove era incaricato del corso di Clinica Psichiatrica nel locale Ateneo. Iniziava così una breve, per certi versi straordinaria esperienza, che è stata da ultimo rievocata in un bel saggio dello storico Roberto Vecchiarelli (4).
Appena assunta la direzione dell’Ospizio di San Benedetto, lo psichiatra veronese redisse una Relazione Statistica Sanitaria con una serie di innovative proposte per un recupero della struttura sotto il profilo igienico e sanitario; fra queste, rivestire di sughero le camere e le celle d’isolamento; aerare gli ambienti ampliando le finestre fino al pavimento; sostituire i pagliericci con veri e propri letti; istituire un laboratorio per la lavorazione delle stuoie, calzoleria, sartoria, falegnameria e laboratorio del fabbro; acquistare terreni per il lavoro agricolo dei ricoverati.
Come ricorda la figlia Gina, nella sua biografia del padre (5), Lombroso si sforzò di «creare ai ricoverati un ambiente che possa consolarne e renderne dolce la vita» e, oltre a introdurre esami antropologici, sperimentò alcune terapie «di recupero attraverso il lavoro congeniale al loro temperamento». Ispirandosi al “trattamento morale” e alla terapia d’ambiente di derivazione francese, tentò di assicurare più umane condizioni di vita per i pazienti: creò una scuola di alfabetizzazione per le donne, una scuola di disegno per gli uomini, raccolse una ricca biblioteca, organizzò conferenze, introdusse “giochi ginnastici”, condusse gli alienati a villeggiare la domenica e affidò loro la cura di animali esotici. Come scrisse sempre Gina Lombroso «Riordina, dunque, quell’asilo sul sistema inglese delle porte aperte cercando di creare ai ricoverati un ambiente allegro [… ] concedendo loro teatri, libri, musica, pitture; eccitandone l’attività, dando libero sfogo alle loro tendenze artistiche e poetiche, con recite, con esposizioni in cui raccogliere i loro saggi, e soprattutto con un giornale manicomiale [il Diario del San Benedetto], che inaugura primo in Italia per dare ai parenti notizie dei malati e a questi una tribuna ove far conoscere i migliori loro squarci letterari».
Fu quest’ultima infatti, la più originale e anticipatrice fra le iniziative lombrosiane, come è riportato nella Statistica Sanitaria dell’Ospizio di S. Benedetto: «Onde tenere occupati alcuni alienati di singolare ingegno, letterati tipografi e per informare le famiglie senza ricorrere alle lunghe corrispondenze dello stato dei loro ricoverati si pensò a modo di quanto si pratica in Germania ed in Inghilterra di fare uscire un Diario stampato degli stessi ricoverati in cui essi potevano pubblicare i loro pensieri e così si otteneva il vantaggio di diffondere idee più esatte e nobili sulle condizioni morali degli alienati e rialzarli agli occhi del volgo che considera spesso i dementi come bestie feroci».
Seguace istintivo di quel paradigma indiziario comune alle scienze umane del tardo Ottocento, Lombroso attribuiva grande importanza ai segni come tratti rivelatori della natura umana e fra questi i disegni, gli scritti; basti pensare al suo celebre libro sui Palimsesti del carcere (1886). Col Diario agli alienati veniva offerta la possibilità, rimarca Vecchiarelli, di riappropriarsi dell’esistenza, di soddisfare la grande necessità di comunicare, di raccontare la loro storia fuori dall’isolamento, di rendersi riconoscibili grazie alla narrazione scritta, di far affiorare frammenti di documenti, informazioni e pensieri di tutto un popolo di reclusi spesso dimenticati.
Osserva ancora lo storico che, pur nei limiti rigidi di un’istituzione certo ancora ben lontana dalla rivoluzione di cent’anni dopo, il “giornale dei pazzi” del manicomio di Pesaro divenne – forse oltre la piena consapevolezza del suo stesso promotore – uno strumento di liberazione individuale: in una doppia relazione tra interno ed esterno, l’internato trovava il mezzo di far conoscere i propri pensieri, mentre l’opinione pubblica («il volgo») aveva la possibilità di costruirsi un’idea differente del sofferente psichico, meno stereotipata e negativa. L’iniziativa giornalistica, costruita con attenzione e serietà, riscosse grande successo e fu di stimolo al recupero psicologico e spirituale degli ospiti, fra i quali non mancarono personaggi di rilievo, come lo scrittore Stanislao Mercantini, fratello del più noto poeta e patriota Luigi Mercantini, autore di liriche risorgimentali celeberrime, come la Spigolatrice di Sapri; e come Geltrude Artusi, sorella di Pellegrino, il famosissimo gastronomo.
Può stupire che tali aperture si realizzassero grazie all’opera di un personaggio associato tradizionalmente al più retrivo paradigma organicista e custodialista. Tuttavia ciò non è in antitesi con la personalità complessa e ricca di contraddizioni che le più recenti ed equilibrate analisi storiche su Lombroso hanno posto in luce, ed anche con la profonda fascinazione che sin dagli inizi esercitò su di lui il binomio “genio-follia” ed il suo legame col progresso civile.
Secondo Lombroso la scoperta scientifica e la creazione poetica sono spesso il frutto di uno stato semicosciente, che consente l’emersione quasi automatica di materiale inconscio, una concezione in fondo non lontana da quella dei suoi contemporanei simbolisti che celebravano l’artista come veggente: «Goëthe ripeteva, spesso, essere una certa irritazione cerebrale necessaria ai poeti, e molti dei suoi canti essere stati dettati da lui in uno stato simile al sonnambolismo. Klopstock confessò d'aver attinte in sogno molte ispirazioni del suo poema. Voltaire fece, in sogno, una delle cantiche dell'Henriade e Sardini una teoria sul Flageolet e Seckendorf quel bellissimo canto, sulla Fantasia che riflette nell'armonia la sua origine.
Newton e Cardano sciolsero in sogno alcuni problemi di matematica. Il Kubla di Coleridge, la Phantasie di Holde furono composte in sogno. Mozart confessava che le invenzioni musicali gli venivano involontarie, come vengono i sogni. E Hoffmann, ripeteva sovente agli amici: “Per comporre, io mi metto al piano e chiudo gli occhi e copio ciò che mi sento dettare dal di fuori”» (6). In definitiva, per il padre della criminologia moderna, la patologia mentale poteva amplificare certe capacità: «coloro che opinano venir meno nei folli la potenza intellettiva, versano in grave errore, mentre, anzi, questa spesso si esalta in essi ed in singolare maniera» (7). Questi convincimenti lo portarono, nel tempo, a costruire una concezione più articolata e anche positiva del deviante, visto come possibile fattore di trasformazione sociale, grazie alla sua carica anticonformistica e “filoneista”.
Ma l’avventura del manicomio pesarese ebbe durata assai breve: di fronte alle difficoltà economiche che frenavano il suo ambizioso piano di rinnovamento, nel novembre 1872 (otto mesi dopo averne assunto la direzione) Lombroso rinunciò all’incarico e rientrò a Pavia. Il Diario di quei giorni lamentò quella partenza come «dispiacevole, e così inaspettata da non potersi raffigurare. Da lui sembra aver quasi ogni cosa mutato d’aspetto». La vita del periodico manicomiale fu invece lunga: il Diario dell’Ospizio di San Benedetto in Pesaro fu pubblicato sino al 1880, quando la testata fu semplificata in Diario del San Benedetto in Pesaro; con la nuova denominazione uscì sino al 1907.
Più di un secolo dopo, alla metà degli anni Novanta, l’Ospedale psichiatrico della città marchigiana venne definitivamente chiuso, in esito all’applicazione della legge 180.
Questo accadeva quarant’anni fa in Italia; ma cent’anni prima ancora? In occasione dell’anniversario ci permettiamo di proporre una breve incursione in una pagina particolare e oggi forse poco nota della storia delle istituzioni psichiatriche nel nostro Paese.
Nel luglio 1871 il consiglio provinciale di Pesaro organizzò un concorso pubblico per la nomina del nuovo direttore del manicomio locale. Quest’ultimo, intitolato “Ospizio di San Benedetto”, situato nel centro storico, era stato inaugurato dal governo pontificio nel gennaio del 1829 e consisteva in un fabbricato a più piani, con due cortili interni, diviso in tre sezioni: una per gli uomini, una per le donne e una terza riservata ai “furiosi, maligni o queruli”.
Nella prima metà del XIX secolo l’organizzazione delle strutture asilari per gli alienati appariva in ritardo rispetto alla realtà delle nazioni europee più avanzate. Nel 1822, al termine di un viaggio nel nostro Paese, il medico francese Louis Valentin criticava i mezzi impiegati nel trattamento dei folli, lamentando che al Sant’Orsola di Bologna «sono i furiosi incatenati ai piedi», alla Senavra persistevano «i grandi inconvenienti delle catene e delle battiture», San Servolo appariva «ospedale vizioso e male accomodato» e solo ad Aversa i malati si curavano con terapie morali ispirate a quelle di Pinel (1).
In effetti, il paradigma psichiatrico di Pinel, fondato sul principio del trattamento morale, non aveva incontrato da noi grande favore, probabilmente per la distanza sussistente rispetto alla concezione della follia come malattia delle passioni, impostasi almeno parzialmente in Francia nei primi decenni del XIX secolo. Infatti in Italia la psichiatria del tempo riservava maggiori consensi alle scuole mediche tedesche; si affermava in opposizione all’astrattezza di una filosofia metafisica e non poteva che incontrarsi con un’antropologia positivista, anzi, come scrive Delia Frigessi «sembra quasi che positivismo, organicismo e psichiatra […] facciano tutt’uno» (2). Per il medico milanese Andrea Verga, uno dei padri della psichiatria italiana, presso il quale il giovane Lombroso studiò a Pavia, non aveva senso ricercare le cause della pazzia soprattutto nei fattori morali, mentre essa traeva invece origine da lesioni e alterazioni morbose dei tessuti cerebrali, trattandosi di «un’affezione congenita» oppure «acquisita ed accidentale del cervello […] per la quale alterandosi le relative funzioni della sensibilità, della intelligenza e della volontà, un individuo appare diverso dalla comune degli uomini e da quel che era egli stesso» (3).
A Pesaro, da pochi anni annessa al nuovo Regno unitario, dopo il crollo dello Stato Pontificio, si intendeva trovare una guida che segnasse un’innovazione per il locale frenocomio e all’esito della selezione si individuò il nome di Cesare Lombroso. Quest’ultimo, all’epoca 36enne, era ancora lontano dalla notorietà che avrebbe raggiunto come padre dell’antropologia criminale, ma godeva già di stima per le esperienze manicomiali a Pavia, dove era incaricato del corso di Clinica Psichiatrica nel locale Ateneo. Iniziava così una breve, per certi versi straordinaria esperienza, che è stata da ultimo rievocata in un bel saggio dello storico Roberto Vecchiarelli (4).
Appena assunta la direzione dell’Ospizio di San Benedetto, lo psichiatra veronese redisse una Relazione Statistica Sanitaria con una serie di innovative proposte per un recupero della struttura sotto il profilo igienico e sanitario; fra queste, rivestire di sughero le camere e le celle d’isolamento; aerare gli ambienti ampliando le finestre fino al pavimento; sostituire i pagliericci con veri e propri letti; istituire un laboratorio per la lavorazione delle stuoie, calzoleria, sartoria, falegnameria e laboratorio del fabbro; acquistare terreni per il lavoro agricolo dei ricoverati.
Come ricorda la figlia Gina, nella sua biografia del padre (5), Lombroso si sforzò di «creare ai ricoverati un ambiente che possa consolarne e renderne dolce la vita» e, oltre a introdurre esami antropologici, sperimentò alcune terapie «di recupero attraverso il lavoro congeniale al loro temperamento». Ispirandosi al “trattamento morale” e alla terapia d’ambiente di derivazione francese, tentò di assicurare più umane condizioni di vita per i pazienti: creò una scuola di alfabetizzazione per le donne, una scuola di disegno per gli uomini, raccolse una ricca biblioteca, organizzò conferenze, introdusse “giochi ginnastici”, condusse gli alienati a villeggiare la domenica e affidò loro la cura di animali esotici. Come scrisse sempre Gina Lombroso «Riordina, dunque, quell’asilo sul sistema inglese delle porte aperte cercando di creare ai ricoverati un ambiente allegro [… ] concedendo loro teatri, libri, musica, pitture; eccitandone l’attività, dando libero sfogo alle loro tendenze artistiche e poetiche, con recite, con esposizioni in cui raccogliere i loro saggi, e soprattutto con un giornale manicomiale [il Diario del San Benedetto], che inaugura primo in Italia per dare ai parenti notizie dei malati e a questi una tribuna ove far conoscere i migliori loro squarci letterari».
Fu quest’ultima infatti, la più originale e anticipatrice fra le iniziative lombrosiane, come è riportato nella Statistica Sanitaria dell’Ospizio di S. Benedetto: «Onde tenere occupati alcuni alienati di singolare ingegno, letterati tipografi e per informare le famiglie senza ricorrere alle lunghe corrispondenze dello stato dei loro ricoverati si pensò a modo di quanto si pratica in Germania ed in Inghilterra di fare uscire un Diario stampato degli stessi ricoverati in cui essi potevano pubblicare i loro pensieri e così si otteneva il vantaggio di diffondere idee più esatte e nobili sulle condizioni morali degli alienati e rialzarli agli occhi del volgo che considera spesso i dementi come bestie feroci».
Seguace istintivo di quel paradigma indiziario comune alle scienze umane del tardo Ottocento, Lombroso attribuiva grande importanza ai segni come tratti rivelatori della natura umana e fra questi i disegni, gli scritti; basti pensare al suo celebre libro sui Palimsesti del carcere (1886). Col Diario agli alienati veniva offerta la possibilità, rimarca Vecchiarelli, di riappropriarsi dell’esistenza, di soddisfare la grande necessità di comunicare, di raccontare la loro storia fuori dall’isolamento, di rendersi riconoscibili grazie alla narrazione scritta, di far affiorare frammenti di documenti, informazioni e pensieri di tutto un popolo di reclusi spesso dimenticati.
Osserva ancora lo storico che, pur nei limiti rigidi di un’istituzione certo ancora ben lontana dalla rivoluzione di cent’anni dopo, il “giornale dei pazzi” del manicomio di Pesaro divenne – forse oltre la piena consapevolezza del suo stesso promotore – uno strumento di liberazione individuale: in una doppia relazione tra interno ed esterno, l’internato trovava il mezzo di far conoscere i propri pensieri, mentre l’opinione pubblica («il volgo») aveva la possibilità di costruirsi un’idea differente del sofferente psichico, meno stereotipata e negativa. L’iniziativa giornalistica, costruita con attenzione e serietà, riscosse grande successo e fu di stimolo al recupero psicologico e spirituale degli ospiti, fra i quali non mancarono personaggi di rilievo, come lo scrittore Stanislao Mercantini, fratello del più noto poeta e patriota Luigi Mercantini, autore di liriche risorgimentali celeberrime, come la Spigolatrice di Sapri; e come Geltrude Artusi, sorella di Pellegrino, il famosissimo gastronomo.
Può stupire che tali aperture si realizzassero grazie all’opera di un personaggio associato tradizionalmente al più retrivo paradigma organicista e custodialista. Tuttavia ciò non è in antitesi con la personalità complessa e ricca di contraddizioni che le più recenti ed equilibrate analisi storiche su Lombroso hanno posto in luce, ed anche con la profonda fascinazione che sin dagli inizi esercitò su di lui il binomio “genio-follia” ed il suo legame col progresso civile.
Secondo Lombroso la scoperta scientifica e la creazione poetica sono spesso il frutto di uno stato semicosciente, che consente l’emersione quasi automatica di materiale inconscio, una concezione in fondo non lontana da quella dei suoi contemporanei simbolisti che celebravano l’artista come veggente: «Goëthe ripeteva, spesso, essere una certa irritazione cerebrale necessaria ai poeti, e molti dei suoi canti essere stati dettati da lui in uno stato simile al sonnambolismo. Klopstock confessò d'aver attinte in sogno molte ispirazioni del suo poema. Voltaire fece, in sogno, una delle cantiche dell'Henriade e Sardini una teoria sul Flageolet e Seckendorf quel bellissimo canto, sulla Fantasia che riflette nell'armonia la sua origine.
Newton e Cardano sciolsero in sogno alcuni problemi di matematica. Il Kubla di Coleridge, la Phantasie di Holde furono composte in sogno. Mozart confessava che le invenzioni musicali gli venivano involontarie, come vengono i sogni. E Hoffmann, ripeteva sovente agli amici: “Per comporre, io mi metto al piano e chiudo gli occhi e copio ciò che mi sento dettare dal di fuori”» (6). In definitiva, per il padre della criminologia moderna, la patologia mentale poteva amplificare certe capacità: «coloro che opinano venir meno nei folli la potenza intellettiva, versano in grave errore, mentre, anzi, questa spesso si esalta in essi ed in singolare maniera» (7). Questi convincimenti lo portarono, nel tempo, a costruire una concezione più articolata e anche positiva del deviante, visto come possibile fattore di trasformazione sociale, grazie alla sua carica anticonformistica e “filoneista”.
Ma l’avventura del manicomio pesarese ebbe durata assai breve: di fronte alle difficoltà economiche che frenavano il suo ambizioso piano di rinnovamento, nel novembre 1872 (otto mesi dopo averne assunto la direzione) Lombroso rinunciò all’incarico e rientrò a Pavia. Il Diario di quei giorni lamentò quella partenza come «dispiacevole, e così inaspettata da non potersi raffigurare. Da lui sembra aver quasi ogni cosa mutato d’aspetto». La vita del periodico manicomiale fu invece lunga: il Diario dell’Ospizio di San Benedetto in Pesaro fu pubblicato sino al 1880, quando la testata fu semplificata in Diario del San Benedetto in Pesaro; con la nuova denominazione uscì sino al 1907.
Più di un secolo dopo, alla metà degli anni Novanta, l’Ospedale psichiatrico della città marchigiana venne definitivamente chiuso, in esito all’applicazione della legge 180.
NOTE
- VALENTIN L., Voyage médicale en Italie, Nancy, 1822, p.80.
- FRIGESSI D., Cesare Lombroso, Torino, 2003, p.154.
- VERGA A., Se e come si possa definire la pazzia. In Archivio italiano per le malattienervose e più particolarmente per le alienazioni mentali. 1874, 1, 81.
- VECCHIARELLI L. Cronache dal manicomio. Cesare Lombroso e il giornale dei pazzi del manicomio di Pesaro, Sestri Levante, 2017. Si veda in merito l’acuta recensione di F. PELELLA, Cesare Lombroso “illuminato” dal giornale dei pazzi del manicomio di Pesaro, in Storie, rivista internazionale di cultura (www.storie.it), 8 settembre 2017.
- LOMBROSO-FERRERO G., Cesare Lombroso. Storia della vita e delle opere narrata dalla figlia. Torino, 1915.
- LOMBROSO C., L’uomo di genio, Milano, 1877, capitolo II.
- Ibidem.
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