QUEL TEMPO CHE NON PASSA.
Trauma e ripetizione
Relazione esposta al XVI Congresso Nazionale della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi.
Bologna, 15 16 Giugno 2018
Due cose colpiscono nell’ascolto di alcune persone sottoposte a trauma violento e ripetuto: la sospensione del tempo soggettivo e la refrattarietà alla scansione della seduta. ‘Il trauma è dato dal fatto che certi avvenimenti vengono a situarsi in un certo posto di quella struttura, vi assumono il valore significante che vi è connesso in un determinato soggetto. Ecco in che cosa consiste il valore traumatico di un avvenimento’. Questa frase di Lacan rimase per me a lungo enigmatica sino a che non ne sperimentai la verificabilità sulla mia pelle di analizzante e, in seguito, i suoi effetti di insegnamento sulla mia pratica clinica. Vivo e lavoro a Modena, città che ospita l'Accademia militare. Ho ricevuto in studio alcuni reduci dalla guerra in Afghanistan in stato di scompenso post bellico che già avevano usufruito delle cure del centro di riabilitazione psicologica offerto dall'accademia stessa. Molti di essi sono tornati ad una vita regolare, chi riprendendo servizio, chi cambiando lavoro. Tutti tranne uno. Un possente colonello che ricevo in uno stato di forte prostrazione mentale e ritiro sociale. Dopo un periodo trascorso in Afghanistan viene congedato per inabilità con una diagnosi di disturbo post traumatico da stress: una infernale condizione di ripetizione che presentifica le scene di guerra sotto forma di incubi ricorrenti, scene che tracimano nel giorno assumendo un aspetto vivido e terrorizzante. Io vedo quelle scene ogni giorno e le sogno ogni notte. Lei mi crede?. E’ sulla validazione e la credibilità della sua parola che inizia il percorso, poiché la struttura militare credette sì al suo disagio, ma nella misura in cui l’effetto del trauma era funzionale alla messa in congedo. L’Escercito scelse di credergli per allontanarlo, di accettarne la parola per rifiutarne la storia, facendosi bastare la sintomatologia per toglierli la divisa. Io lo ascolto ma, differenziando la mia posizione del quella dello psichiatra militare, dico che dopo diverse sedute centrate sulla descrizione dei suoi incubi e delle sue visioni, avrei poi voluto sapere anche altro della sua vita. E cosi’ si comincia. Intraprese la carriera militare cercando quell’ordine e quella disciplina utili a fare qualcosa di ciò che di lui aveva fatto un ambiente familiare perverso e sregolato. Nei suoi ricordi genitori violenti ed anaffettivi erano soliti chiuderlo nell’armadio per ore percuotendone le porte con le mani per impedirne l'uscita, cosi’ da potersi assentare da casa..Il capriccio genitoriale prese il posto della legge simbolica, creando un individuo gracile ed angosciato che scelse di costruirsi uno spesso abito militare che resistette per molti anni, sino al reincontro col proprio passato. Nei campi di battaglia di Gulistan ritrovò infatti l’Altro sadico dal quale stava fuggendo sotto forma di soldati che lo rinchiusero in una profonda buca sigillata, mentre sopra infuriava la battaglia. Trascorse due settimane sepolto vivo prima di essere liberato. In ospedale iniziarono gli incubi e le allucinazioni. Lo Stato non gli ha riconosciuto l’invalidità, in quanto il ptsd non è classificato come danno invalidante. Cerco di operare una biforcazione creando uno snodo che gli permetta di operare su un doppio binario sul quale dare il via ad un percorso fatto di una lunga e faticosa opera di differenziazione tra episodi del passato e del presente, dove ai sogni dei bombardamenti si affiancano i ricordi dei genitori che chiudevano le porte dell'armadio. Le sedute non interrompono la sequenza delle scene nel quotidiano ma, creando uno spazio tra il passato ed il presente, attenuano l’angoscia. La ripetizione è infatti ormai automatica, un qualcosa che lo perseguita, per il quale io posso solo esercitare una funzione di segretariato che ne attutisca i colpi. Per questo chiedo , in seduta, di parlare del suo passato, della sua storia prima del trauma. Quando invece le visioni lo assalgono gli do ampia disponibilità a telefonarmi. La divisone tra questo due momenti permette una riduzione di quell’angoscia che non è il viatico al sentiero che apre al desiderio del nevrotico, quanto piuttosto il suono di un eterno fuggire dalla condizione di oggetto in stato di assedio. Egli è stato oggetto dell’Altro familiare violento, e l’angoscia che si risveglia in seduta a causa della rivisitazione del suo passato si sovrappone a quella ben più pesante ed ingestibile, relativa al timore che le scene belliche lo assalgano mentre cammina per strada. Egli dimostra buone capacità di revisione del passato riuscendo a collocarsi in quel disegno familiare perverso. Con questa modalità abbozzata, riesce a marcare una debole linea divisoria che permette al lavoro in seduta di non essere schiacciato dagli eventi oltre le mura dello studio. Tuttavia è’ tardi. Il trauma ha lacerato quella membrana che egli aveva costruito tra il passato ed il presente, scompensandolo in maniera definitiva. Perché? Quel militare era solo uno dei tanti che patì quelle pene in battaglia, ma solo lui crollò, solo per lui ciò costituì un trauma non rimarginabile. Ciò avvenne, e qua torniamo alla frase di Lacan, perché ebbe la sventura di ritrovare in seduta ciò da cui fuggiva e che cercava di lenire. L’episodio violento azzerò il passato, divenendo l’alba fredda di una nuova vita psichica immobile e ripetitiva, sovrascrivendosi sopra al punto più vulnerabile del soggetto sino a quel momento velato.
Non so ancora, e forse mai saprò, in cosa consti il desiderio di un analista. So che è una lega di metallo composita, ed è dall’incontro con soggetti di questo tipo che viene messa alla prova nei suoi punti strutturali. Il suo ingresso nel mio studio si intersecò col mio primo percorso di analizzante. Nella mia stanza 101 giaceva un bisogno di riconoscimento paterno, figura che doveva tenere il posto senza fuggire. Quando la macchina transferale si mette in moto, la stanza dell’analista diventa lo schermo di proiezione di scene passate, alle quali egli viene illusoriamente chiamato a partecipare. E’ questo il modo con il quale il soggetto mette in scena il suo rapporto con l'Altro, riallestendo il palco che lo ha intrappolato, e col quale cerca di sbrogliarsela. Ogni analista sa che non deve commettere l’errore di calarsi direttamente, in loco, indossando l’abito che il paziente vuole che egli indossi. La funzione centrale dell'analista, che da la cifra del suo desiderio, è quella di riconoscere la sua posizione transeunte rendendosi terzo e in una zona d'ombra laddove non si può proiettare nulla. Solo così il dispositivo analitico può mostrare al soggetto quello che lui sta chiedendo, a chi lo sta chiedendo, portandolo, in absentia, a rettificare la sua scena primaria, giungendo a maneggiare una domanda che non può essere evasa in loco. Ho capito tutto questo solo dopo la fine di un 'analisi devastante ed invalidante, in un lungo e doloroso aprés coup. Nella mia stanza le scene vennero sovrapposte, reificando la figura del padre reale al quale io domandavo, occupando una posizione letale, dalla quale sarebbe stato opportuno svincolarsi lasciandomi libero. L’angoscia crescente segnalava che l’impalcatura immaginaria sulla quale si poggiava il simulacro di analisi mi stava crollando addosso. Quando ciò avvenne si materializzò brutalmente la scena che cercavo di rendere più sopportabile con l’analisi. Tutto crollò e svanì, senza tracce. Rimasi con un telefono muto. Pagai questo atto come lo pagò il colonnello. Nel copro e nella mente. Divenni vittima di un infinita ripetizione di quel momento, che per molti anni occupò gran parte della mia vita onirica. Incubi nei quali la scena analitica si sovrapponeva a quella della mia infanzia. Ma l’angoscia è anche l’affetto presente laddove c’è desiderio, il che mi ha permesso di immettere quell’ esperienza nella mia pratica clinica. Io ho creduto al colonnello perché ho creduto al mio percorso, ed è questo che mi ha dato la possibilità di riconoscere nella prigione Afghana il riallestimento della sua scena infantile. Ho tratto vita da ciò che era morto, immettendola nella mia pratica clinica. L’incontro violento tra questi due momenti, il mio passato e il qui ed ora nel quale ero costretto in analisi, è stata scuola di pratica e di desiderio. Io, che ho visto il dissolversi di tutto e la paura ai mie primi cenni di depressione, ho imparato a mantenere solidamente la posizione nei confronti dei melanconici. Esercito nella messa in discussione quotidiana col quesito di fine giornata: ho toccato il limite dell'angoscia che ognuno può sopportare? Ho forse incarnato alla lettera chi costui voleva che io fossi, o sono riuscito a occupare a sola posizione possibile, quella del vuoto? Ho dato fiato al mio narcisismo quando l'analizzante raccontava i suoi sogni erotici? E con quell'altro, quello che milita in quel partito che io avverso nella quotidianità, cosa ho messo in campo? Il mio lavoro o le mie sporchissime questioni personali? Ho imparato sulla mia pelle a tarare il rischio del quale Miller parla, quello cioè di ‘ scambiare un posto per un altro poiché, investito della luce del supposto sapere' chi apre la porta all’altro può essere portato a pensare che ' l'abito che gli è affibbiato dal paziente sia veramente il suo, quando in realtà è soltanto in affitto'[1].
Dopo questo intervento, ho
Dopo questo intervento, ho ricevuto molte testimonianze di persone cadute nell’ inferno della malanalisi. Chi vessato, chi intimidito, chi con effetti psicotizzanti, chi minacciato legalmente. Non scrivete a me. O almeno, non solo. Denunciate ciò che vi è capitato. Non abbiate timore. Usate la legge, i codici dell’ ordine degli psicologi che tutelano l ‘utente. Non arrendetevi.