Antonello Correale ha lanciato un accorato, completo, sentito grido di allarme sull’indifferenza strisciante, o talvolta urlata, che riguarda i nuovi ‘reietti’ di questo mondo: masse di persone senza nulla, né abito, cibo, identità, denaro, che sbarcano sulle nostre coste alla ricerca di un “altrove”, quale che sia, dove sopravvivere. Si domanda il perché, al di là nelle esili e volgari motivazioni politiche e di vulgata (ci rubano il lavoro, delinquono, ecc…), di tanto odio da parte della gente comune, e soprattutto della ancora più preoccupante indifferenza.
Tralasciamo le ragioni politiche, in parte plausibili in parte populistiche che potrebbero una ad una essere sconfermate (di lavoratori c’è bisogno; il Paese si spopola e muore; i delinquenti vanno effettivamente mandati via o non fatti entrare, ecc…), e soffermiamoci su quelle interne, profonde. Premetto anche che la mia informazione sul tema è piuttosto carente, ma credo si possa tentare comunque un ragionamento comune.
Come psicoanalisti il nostro sguardo, comunque insufficiente a comprendere l’oggi in cui siamo immersi perché, come in analisi, la comprensione avviene solo in après-coup, tuttavia possediamo qualche strumento di comprensione a cui i media non danno voce.
Partirei da due spunti: la proiezione e il desiderio.
Correale giustamente scrive che il motore più forte all’odio si può riassumere in poche parole: quello che non vorrei vedere in me.
Lo sporco, il brutto, la miseria, la fame, il bisogno (soprattutto, il bisogno) che ho terrore di sentire in me, lo proietto in te, essere senza nome né storia, e me ne libero. Tu sei bisognoso, sporco, povero, malato, rifiutato, non io.
Il cittadino è salvo; quello che Bollas chiamava il “normotico”, il troppo normale, quello che ‘sta sempre bene’, ‘l’anormalmente normale’, l’estroverso, può dormire sonni tranquilli: il male non lo riguarda, la vergogna del bisogno è messa altrove. Nemmeno in singoli individui, in masse, anonime masse. Se si trattasse di singoli individui, saremmo nell’ambito più fine e complesso, ad esempio, delle relazioni intime. Qui non c’è alcuna intimità. Qui c’è una massa con tutti i suoi pericoli, dove l’uomo regredisce e si fa branco, perdendo i confini del sé e immedesimandosi con gli altri: ulula con i lupi, come scrivevano Gaburri ad Ambrosiano. Il gregge ha preso il posto del soggetto; il richiamo alla Arhendt è inevitabile. Solo nella massa il Male è banale.
Ma Correale parla di “anestesia”, cioè spegnimento artificioso di vita, chiama in causa l’indifferenza. Ora, l’indifferenza è un germe peggiore dell’odio: l’odio è una pulsione che, impastata ad Eros, compone e anima la nostra vita inconscia e direziona la nostra aggressività. Contro noi stessi, qualche volta, in depressioni, masochismo e suicidi; contro l’Altro, come sadismo, cinismo, violenza. Uso la maiuscola sia nel senso di Altro indifferenziato, sia nel senso lacaniano di Altro che ci precede, discorso sociale nel quale siamo gettati, noi tutti, quando veniamo al mondo. L’odio nasce prima dell’amore, ci insegna Freud, solo l’ambiente amorevole di cura primaria sarà o meno capace di impastarlo con Eros, mantenendo la vita, spiegabilmente più direzionata nel versante libidico che non distruttivo. Ma in ogni caso, l’odio è una passione, può sempre convertirsi nel suo opposto, è mobile, è viva: l’odio, pur tremendo nei suoi effetti, è trasformabile potenzialmente perché contiene Eros, libido.
L’indifferenza no. La banalità del Male – emblematizzata nel il processo Eichmann, rivisto ancora oggi quando capita nel perfetto documentario che ne fu fatto – rimane un caposaldo direi antro-psicosociologico insuperato perché dimostra, con una semplice intervista, la palude mortale dell’indifferenza. Nell’indifferenza – quella che Benasayag e Schmitt chiamarono con successo passione triste rifacendosi a Spinoza e trattando i nuovi adolescenti – non c’è odio. Né Eros né Thanatos. Nessuna passione: è quello che io chiamo, con altri, il disinvestimento. L’assenza di desiderio. Una cosa vale l’altra; che tu viva, muoia, ti ricaccino in mare, non mi procura nemmeno il godimento dell’odio proiettato visto prima, non mi procura niente.
E’ questo uno dei nuovi disagi della civiltà? Non tanto la rinuncia pulsionale che Freud vedeva tristemente necessaria in cambio di appartenere alla comunità umana senza ucciderci l’un l’altro e senza diventare incestuosi (e che resta un fondamentale imprescindibile), ma la rinuncia non in quanto spostamenti di meta sublimate a favore della Cultura; la rinuncia tout court. Investire è pericoloso, investire costa. L’oggetto del mio investimento può tradirmi, abbandonarmi; nessuna difesa è potente, io credo, come il disinvestimento, che il linguaggio comune chiama indifferenza.
Anestesia, cioè assenza di vitalità, più che contro la vitalità.
Il desiderio, perché il soggetto se ne faccia carico, attraversa l’Etica: per desiderare devo sapermi fermare, rispettare l’Altro come soggetto con suoi diritti e specificità.
Qui osserviamo un suo pervertimento: l’Etica è assoggettata al Potere, e desiderio e Potere non vanno d’accordo. L’uno richiede l’assunzione della propria responsabilità; l’altro delega a un supposto Capo le redini della pulsione.
In altri termini, il super-Io morale, indebolito da un debordare dell’Es e delle sue richieste infantili distruttive e non regolato dall’ordine sociale, abdica al suo compito di farci provare colpa e rimorso per il danno procurato all’altro.
Si incrociano dunque in un cocktail funesto la forza della proiezione e del rigetto che collocano nel disperato la nostra disperazione, che vede nell’altro il bisogno per liberarci dal nostro terrore di essere bisognosi, forse il più grande terrore che esista, ritornare inermi neonati bisognosi di tutto (figura che il migrante rappresenta), e il declino del desiderio di cui molto si parla, a volte banalizzando.
Intendiamo invece con questo termine un preciso assetto profondo della mente che rigetta sia l’amore sia l’odio, si svincola dalla regolazione del super-io e perciò dell’Etica, per sfociare , sul piano collettivo, in un’indifferenza a massa più maligna che sul piano individuale, dove c’è pur sempre la minima speranza che il soggetto entri in crisi, se Eros si infiltra nelle maglie di questo muro perche la vita lo esige, con i suoi lutti, gli stress, gli imprevisti…La massa è invece compatta e impenetrabile.
Perché sia avvenuto tutto ciò, esula da questo mio ragionamento nato a caldo sulle parole dell’amico Correale e l’invito di Bollorino a un dialogo.
Corsi e ricorsi della Storia? L’uomo ha bisogno, fisiologicamente, sia nella vita singola sia nel collettivo di legare e slegare pulsioni, nell’ottica di Green, col pericolo che la pulsione di morte, per qualche motivo che qui può essere dato dalle urgenze della realtà e dalla povertà del nostro scenario socio-politico, si svincoli e vada per conto suo, libera di distruggere? A periodi di grandi, furiosi investimenti libidici (il ’68, il dopoguerra…), ne devono seguire altri in cui il “benessere” attiva un ritiro degli investimenti e un ritorno al perimetro del focolare consolatorio dove l’Altro è dunque, strutturalmente nemico?
Siamo lontani dal dare risposte, e anche la comprensione non dovrebbe costituire l’alibi ad un atteggiamento rinunciatario o delegante. Credo che lo strumento psicoanalitico, insieme ad altre discipline, sia in grado di fornire una lettura, aprire un orizzonte di senso a quello che, diversamente, è l’impensabile.
La psicoanalisi contemporanea, a partire dal corpus teorico imprescindibile che l’ha fondata, ha in seguito visto diversi orientamenti: che lo indichi (come noi preferiamo) in termini di pulsioni slegate e perdita di desiderio, o attacco al legame in una perenne posizione schizo-paranoide, o assenza di amore e conoscenza (-L e – K) in favore di H, odio; il discorso non cambia.
C’è rimedio solo nel recupero dell’amore e del desiderio.
Tralasciamo le ragioni politiche, in parte plausibili in parte populistiche che potrebbero una ad una essere sconfermate (di lavoratori c’è bisogno; il Paese si spopola e muore; i delinquenti vanno effettivamente mandati via o non fatti entrare, ecc…), e soffermiamoci su quelle interne, profonde. Premetto anche che la mia informazione sul tema è piuttosto carente, ma credo si possa tentare comunque un ragionamento comune.
Come psicoanalisti il nostro sguardo, comunque insufficiente a comprendere l’oggi in cui siamo immersi perché, come in analisi, la comprensione avviene solo in après-coup, tuttavia possediamo qualche strumento di comprensione a cui i media non danno voce.
Partirei da due spunti: la proiezione e il desiderio.
Correale giustamente scrive che il motore più forte all’odio si può riassumere in poche parole: quello che non vorrei vedere in me.
Lo sporco, il brutto, la miseria, la fame, il bisogno (soprattutto, il bisogno) che ho terrore di sentire in me, lo proietto in te, essere senza nome né storia, e me ne libero. Tu sei bisognoso, sporco, povero, malato, rifiutato, non io.
Il cittadino è salvo; quello che Bollas chiamava il “normotico”, il troppo normale, quello che ‘sta sempre bene’, ‘l’anormalmente normale’, l’estroverso, può dormire sonni tranquilli: il male non lo riguarda, la vergogna del bisogno è messa altrove. Nemmeno in singoli individui, in masse, anonime masse. Se si trattasse di singoli individui, saremmo nell’ambito più fine e complesso, ad esempio, delle relazioni intime. Qui non c’è alcuna intimità. Qui c’è una massa con tutti i suoi pericoli, dove l’uomo regredisce e si fa branco, perdendo i confini del sé e immedesimandosi con gli altri: ulula con i lupi, come scrivevano Gaburri ad Ambrosiano. Il gregge ha preso il posto del soggetto; il richiamo alla Arhendt è inevitabile. Solo nella massa il Male è banale.
Ma Correale parla di “anestesia”, cioè spegnimento artificioso di vita, chiama in causa l’indifferenza. Ora, l’indifferenza è un germe peggiore dell’odio: l’odio è una pulsione che, impastata ad Eros, compone e anima la nostra vita inconscia e direziona la nostra aggressività. Contro noi stessi, qualche volta, in depressioni, masochismo e suicidi; contro l’Altro, come sadismo, cinismo, violenza. Uso la maiuscola sia nel senso di Altro indifferenziato, sia nel senso lacaniano di Altro che ci precede, discorso sociale nel quale siamo gettati, noi tutti, quando veniamo al mondo. L’odio nasce prima dell’amore, ci insegna Freud, solo l’ambiente amorevole di cura primaria sarà o meno capace di impastarlo con Eros, mantenendo la vita, spiegabilmente più direzionata nel versante libidico che non distruttivo. Ma in ogni caso, l’odio è una passione, può sempre convertirsi nel suo opposto, è mobile, è viva: l’odio, pur tremendo nei suoi effetti, è trasformabile potenzialmente perché contiene Eros, libido.
L’indifferenza no. La banalità del Male – emblematizzata nel il processo Eichmann, rivisto ancora oggi quando capita nel perfetto documentario che ne fu fatto – rimane un caposaldo direi antro-psicosociologico insuperato perché dimostra, con una semplice intervista, la palude mortale dell’indifferenza. Nell’indifferenza – quella che Benasayag e Schmitt chiamarono con successo passione triste rifacendosi a Spinoza e trattando i nuovi adolescenti – non c’è odio. Né Eros né Thanatos. Nessuna passione: è quello che io chiamo, con altri, il disinvestimento. L’assenza di desiderio. Una cosa vale l’altra; che tu viva, muoia, ti ricaccino in mare, non mi procura nemmeno il godimento dell’odio proiettato visto prima, non mi procura niente.
E’ questo uno dei nuovi disagi della civiltà? Non tanto la rinuncia pulsionale che Freud vedeva tristemente necessaria in cambio di appartenere alla comunità umana senza ucciderci l’un l’altro e senza diventare incestuosi (e che resta un fondamentale imprescindibile), ma la rinuncia non in quanto spostamenti di meta sublimate a favore della Cultura; la rinuncia tout court. Investire è pericoloso, investire costa. L’oggetto del mio investimento può tradirmi, abbandonarmi; nessuna difesa è potente, io credo, come il disinvestimento, che il linguaggio comune chiama indifferenza.
Anestesia, cioè assenza di vitalità, più che contro la vitalità.
Il desiderio, perché il soggetto se ne faccia carico, attraversa l’Etica: per desiderare devo sapermi fermare, rispettare l’Altro come soggetto con suoi diritti e specificità.
Qui osserviamo un suo pervertimento: l’Etica è assoggettata al Potere, e desiderio e Potere non vanno d’accordo. L’uno richiede l’assunzione della propria responsabilità; l’altro delega a un supposto Capo le redini della pulsione.
In altri termini, il super-Io morale, indebolito da un debordare dell’Es e delle sue richieste infantili distruttive e non regolato dall’ordine sociale, abdica al suo compito di farci provare colpa e rimorso per il danno procurato all’altro.
Si incrociano dunque in un cocktail funesto la forza della proiezione e del rigetto che collocano nel disperato la nostra disperazione, che vede nell’altro il bisogno per liberarci dal nostro terrore di essere bisognosi, forse il più grande terrore che esista, ritornare inermi neonati bisognosi di tutto (figura che il migrante rappresenta), e il declino del desiderio di cui molto si parla, a volte banalizzando.
Intendiamo invece con questo termine un preciso assetto profondo della mente che rigetta sia l’amore sia l’odio, si svincola dalla regolazione del super-io e perciò dell’Etica, per sfociare , sul piano collettivo, in un’indifferenza a massa più maligna che sul piano individuale, dove c’è pur sempre la minima speranza che il soggetto entri in crisi, se Eros si infiltra nelle maglie di questo muro perche la vita lo esige, con i suoi lutti, gli stress, gli imprevisti…La massa è invece compatta e impenetrabile.
Perché sia avvenuto tutto ciò, esula da questo mio ragionamento nato a caldo sulle parole dell’amico Correale e l’invito di Bollorino a un dialogo.
Corsi e ricorsi della Storia? L’uomo ha bisogno, fisiologicamente, sia nella vita singola sia nel collettivo di legare e slegare pulsioni, nell’ottica di Green, col pericolo che la pulsione di morte, per qualche motivo che qui può essere dato dalle urgenze della realtà e dalla povertà del nostro scenario socio-politico, si svincoli e vada per conto suo, libera di distruggere? A periodi di grandi, furiosi investimenti libidici (il ’68, il dopoguerra…), ne devono seguire altri in cui il “benessere” attiva un ritiro degli investimenti e un ritorno al perimetro del focolare consolatorio dove l’Altro è dunque, strutturalmente nemico?
Siamo lontani dal dare risposte, e anche la comprensione non dovrebbe costituire l’alibi ad un atteggiamento rinunciatario o delegante. Credo che lo strumento psicoanalitico, insieme ad altre discipline, sia in grado di fornire una lettura, aprire un orizzonte di senso a quello che, diversamente, è l’impensabile.
La psicoanalisi contemporanea, a partire dal corpus teorico imprescindibile che l’ha fondata, ha in seguito visto diversi orientamenti: che lo indichi (come noi preferiamo) in termini di pulsioni slegate e perdita di desiderio, o attacco al legame in una perenne posizione schizo-paranoide, o assenza di amore e conoscenza (-L e – K) in favore di H, odio; il discorso non cambia.
C’è rimedio solo nel recupero dell’amore e del desiderio.
I poeti ci sono arrivati prima:
Solo l’amare, solo il conoscere conta (Pier Paolo Pasolini, Poeta delle ceneri)
La collega prendendo spunto
La collega prendendo spunto da Correale e da Bollorino ha scritto un pezzo molto interessante,ed e’ pervaso da unai inquietudine nello specchiarsi in questo tempo così dedito si propri bisogni primari da soddisfare immediatamente.L’indifferenza per l’altro perche’ Altro non c’e’ piu’ , l’altro e’divenuto solo l’oggetto del nostro soddisfacimento.L’etica e la morale sono polverizzate in una nube che ci avvolge.Penso che solo chi crede ancora nell’Altro abbia il dovere e la sintassi di far nascere almeno nei nostri pazienti il desiderio, l’attesa, l’amore.
Mariella Beduschi
molto belli ed approfonditi
molto belli ed approfonditi gli articoli di Correale e Valdre’.
Mi domando tuttavia dove ci portera’questo flusso senza fine di persone che giungono da noi in cerca dell’illusione.Io l’Africa credo, senza presunzione, di conoscerla molto approfonditamente, sia come viaggiatore che l’ha percorsa in lungo e in largo per circa 40 anni che come antropologo e psichoatra che l’ha studiata negli usi e costumi e nelle patologie.
Io ho cercato per tanti anni di aiutare l’Africa con Amore aiutando (anche economicamente e non solo) la costruzione di scuole ed ospedali che sono praticamente utilizzati al 30%.
E’sempre stata come oggi, un’Affrica (con due effe, come si usava scrivere un tempo) povera ed affamata, ma negli anni scorsi perche’nessuno fuggiva o cercava sfogo in Europa alla propria miseria trovando poi una miseria ancor piu’nefasta che nel proprio continente? Come mai qualcuno l’ha scoperto solo da poco? e perche’? Cosa si cela sovente dietro gli eccessi da buon samaritano di taluni, bravi utilizzatori del logos ma che in pratica non muovono un dito o non si tolgono di tasca un euro. Io conosco numerose famiglie che nella mia citta’ vivono nella poverta’estrema e non ricevono aiuto alcuno dallo Stato e dalle istituzioni locali, se non quello che io ed alcuni altri cerchiamo, anche se modestamente ma con affetto di dare loro.E dov’e’la dignita’che molti sostenitori esasperati dell’aiuto illimitato propugnavano di fornire ai migranti? Forse lasciandoli sopravvivere in squallidi centri d’accoglienza o agli angoli delle strade dove mendicano quotidianamente cibo o forse qualcos’altro di ben piu’importante che nessuno (di qualunque ideologica politica) sembra aver fornito loro?
Vorrei ricordare un pensiero di San Tommaso d’Aquino: “…la giustizia senza misericordia e’una crudelta’, la misericordia senza giustizia e’ l’inizio di ogni dissoluzione… E questo, senza scomodare Nietzsche, e’ l’inizio della fine che un Occidente, corrotto, ipocrita e decadente, forse si merita
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