Giovedì. Ambulatorio per le visite di soggetti affetti da obesità che presentano alterazioni alimentari. Sembra un giorno tranquillo, lontano dai codici gialloverdi del pronto soccorso e dell’urgenza. Lontano dalla drammaticità degli esordi psicotici, dei tentativi di suicidio, dalle crisi clastiche. Ed anche lontano dall’impotenza che entra dentro quando si curano le ragazze anoressiche più ostinate. Alcune di queste ragazze sono davvero oppositive, in modo reiterato, sembrano aver scolpito in fronte “deliberata morte ferocior” come l’invitta Cleopatra.
Tra gli obesi invece nessun fasto regale. Nessuna urgenza. Apparentemente anche nessuna ostilità verso il curante. Per questo qualcuno sostiene che le visite agli obesi sono Little Psychiatry. Come se la psichiatria fosse uguale alla chirurgia e si potesse identificare una patologia con un grado prevedibile di difficoltà di trattamento. E’ l’eterno complesso della nostra disciplina che ritorna: la psichiatria che vuole essere come le altre branche della medicina, la psichiatria positivista, che sogna linguaggi muscolari (Great Psychiatry? Make Psychiatry Great Again?). E invece la natura della nostra materia non si definisce mai una volta per tutte, è vasta, mutevole; rimaniamo nella continua ricerca di frammenti di puzzles, di scenari possibili, che slittano da un caso ad un altro. Persino le diagnosi descrittive su cui vi è consenso diffuso – pilastri di cemento per la scienza – sono semplici etichette, certamente etichette diagnostiche utili per comunicare un concetto, ma non molto di più.
Nel real word è solo dall’ascolto del paziente che si distilla il “prodotto” che giustifica l’etichetta: fatti e vissuti richiedono tempo per essere ordinati in modo sufficientemente coerente e significativo. I racconti si contraddicono, vanno riconnessi con il magma relazionale dell’individuo, è necessario cercare nelle increspature e nelle nuances dei sintomi, nuances variegate, tenui, psichedeliche, a volte indecifrabili. Durante il viaggio spesso si perde la rotta prima di approdare. Ma va bene così. Già per Jaspers “la diagnosi è l’ultimo punto da considerare nella comprensione psichiatrica di un caso … Parte meno essenziale del lavoro psicopatologico … [la diagnosi] idealmente sta alla fine della ricerca”. E Binswanger, donando alla psichiatria lo statuto di “scienza dell’uomo”, invita a tener sempre presente “l’autentico, inaggirabile fondamento costituito dall’uomo in quanto esserci […] essere storicamente determinato nella cui essenza è scritta la possibilità di sperimentare, nella dimensione dell’apertura, della progettualità e della coesistenza, la propria libertà e la propria infinità” (Molaro).
Libertà, infinito, progettualità. Complessità. Parole bellissime che però collocano l’esistenza umana ai confini dell’aporia, galleggiano tra le possibilità di intreccio di senso e la spinta nichilista a disperdersi e che ci chiamano ad ogni visita, ad ogni incontro a scommettere sull’aver capito qualcosa di utile per chi ci sta davanti. In tale lettura lo psichiatra è un funambulo. E se è così, allora tutta la psichiatria è little psychiatry. Solo se essa si riconosce piccola può camminare in equilibrio verso l’esperienza del dolore che il nostro paziente incarna.
Inizio a visitare. Davanti a me si siede un uomo di mezza età, ancora giovane nell’aspetto. In modo gradevole mi racconta la sua storia, una storia che ho già sentito molte volte. Sovrappeso da sempre, tormentato fin da bambino da una fame atavica e colpevolizzato per questo, ha visto il suo peso crescere nel tempo, tra effimere vittorie in seguito a qualche dieta e recupero con gli interessi dei chili persi. Non soffre di crisi bulimiche, ma mangia spesso e abbondante. Alla domanda se prova piacere a mangiare, anche qui la risposta è classica: non saprebbe dirlo. Si e no. O forse più no che si. L’importante è la quantità. L’importante è ingurgitare. Anzi, a pensarci bene quasi quasi meglio il junk food dei piatti ben cucinati. Questo è difficile da capire per un normopeso, ma per lui è abbastanza chiaro: sempre meglio l’eccesso.
Con il procedere del dialogo ci sciogliamo, entriamo in confidenza. La visita assume una tonalità più affettiva. E non parliamo più di cibo. Perché il cibo non è il problema più grande, come non sono per lui un problema preoccupante gli esami alterati per cui è stato inviato in ospedale dal suo medico. Racconta della sua solitudine infantile, il padre sparito dalla famiglia quando egli aveva otto anni, la madre triste e assente – probabilmente una donna naufragata e a sua volta sola – una sorella maggiore di dieci anni sempre fuori di casa. Si salvi chi può. Ricorda lunghi pomeriggi tediosi, ore e ore davanti alla tv e a fianco al frigo. Due elettro-domestici per compagni, uno che si scalda con lo scorrere delle trasmissioni, uno che si raffredda per conservare, metafora moderna dei due principi vitali che racchiudono il mistero dell’entropia. E il tempo passa anche nel suo universo, diventa ragazzino e finalmente può uscire, ma come si fa ad inserire con quel corpaccione? Viene deriso e anche escluso. A pensarci bene ciccione (con tutti i tipi immaginabili di dispregiativi abbinati) è uno dei primi insulti imparati dai bambini. Altro che civiltà dell’empatia, il problema della prevaricazione e dell’aggressività è una delle radici della sofferenza umana.
Con il tempo impara a incassare, è un buon incassatore, impara anche a entrare nel personaggio dell’obeso allegro. Gli anni volano via, supera i problemi dell’adolescenza, trova lavoro, le persone smettono di deriderlo. Ovviamente continuano a farlo in sua assenza, ma almeno fa meno male. Nei cicli della vita l’obesità è questo: esposta senza sosta alla vergogna nei primi anni, invisibile in maniera assordante da adulto. Nessuno fa più cenno, nessuno ti chiede, nessuno ti dice che stai male. Quando l’argomento esce fuori vi sono alcuni momenti di imbarazzo, prima che rapidamente qualcuno trovi il modo di sviare il discorso Don’t ask, don’t tell. Che però vuol dire anche nessuno che provi a parlarti, a chiedere come la vivi, se per te è un problema. E per lui l’obesità è rimasta un problema. Sgorga qualche lacrima. Parla del suo imbarazzo con il sesso femminile. Con le donne si sente sempre goffo, sbagliato, respinto. Non ha una compagna, l’ha avuta, ma è andata male. Anche quando andava bene, si sentiva sempre implicitamente criticato da lei. La compagna negava, ma non l’ha mai convinto del tutto. A essere obesi alla lunga qualche spunto paranoico ti viene. E poi chissà se è solo paranoia. Lo stigma che colpisce l’obesità è così ubiquitario, è uno dei marchi caratterizzanti la nostra epoca. Viene stampato sulla pelle fin dalla nascita. Per questo andrebbe contrastato molto di più, sarebbe il tempo di lanciare una campagna contro la discriminazione per obesità. Come si fa ad attribuire valori etici ai valori estetici? Come si fa a pensare che una condizione comune a moltissime persone le condanni tutte insieme in un valutazione negativa di merito?
Il colloquio è finito. Ci lasciamo con un programma di cura.
Rientro e rientra con me una signora. Questa volte non c’è avvicinamento graduale, non c’è argine da superare. La donna comincia subito a narrare, intersecando tra loro dolore, cibo e peso. Per lei il nesso è chiaro. In pochi minuti riassume una di quelle vicende incredibilmente terribili che si ascoltano solo in una stanza ambulatoriale o si leggono nei romanzi russi.
Lei non è stata obesa in infanzia o in adolescenza e nemmeno dopo le due gravidanze. Ha avuto anni sereni, i figli piccoli crescevano, lei ed il marito li accudivano. Quando i bambini sono diventati più grandicelli, lei ha ripreso a lavorare e, come si fa comunemente, ha affidato i figli ad una lontana cugina con ottime referenze. Nessun timore, anzi. Ma in sua assenza, proprio nella sua casa, ci sono stati mesi di maltrattamenti, di molestie e probabilmente anche di abusi. Presto sono sorti i primi sospetti, le prime angosce. Le prime indagini. Ma ci vuole tempo per capire fino in fondo. Quando ha capito, il dolore le ha squarciato l’anima. Travolta dalla rabbia e dai sensi di colpa, ma anche abbandonata da una parte della famiglia – prima incredula e poi omertosa – si è schiantata. Anche il cibo l’ha travolta a valanga ed è ingrassata a dismisura. Ma non ha mollato la presa perché dopo qualche settimana ha pensato che se si lasciava andare passava per la madre “depressa e matta”, che facilmente si è inventata tutto. Ancora oggi non riesce ad immaginare dove ha trovato le forze. Ha affrontato un processo, lungo, duro. Una guerra senza tregua per lei e così per contrastare la fame non le sono rimaste più truppe. E’ ingrassata, ingrassata, e ancora ingrassata. Alla fine però ha vinto – fiat iustitia – e la colpevole è finita in carcere. I figli hanno in qualche modo assorbito l’urto e sono cresciuti. E piano piano, come una marea che si ritira, la fame è regredita, il peso è sceso, il suo corpo si è riavvicinato alle antiche forme. Ma purtroppo non è questo il finale, dato che ora è qui, davanti a me, obesa e disperata.
Due anni fa, passati vent’anni, improvvisamente si riaprono i cancelli infernali. Le Erinni non si erano placate, si erano soltanto sopite e ora tornano a rincorrerla, anche se lei non ha colpe, a meno di non considerare colpevole l’amore materno. Una delle figlie sopravvissute muore in un incidente. Non ha parole, finisce le lacrime. Rimane il cibo, fino a soffocare. Il corpo si deforma per la seconda volta. L’orrore si massifica nelle cosce, nel seno, nel ventre, ovunque. Bruscamente il racconto si spezza, la donna non ha nulla da aggiungere alla sua storia. Tace. Ma penso che se ora è qui forse è perché qualcosa per lei vorrebbe chiedere. Parliamo a lungo delle cure. Non è convinta, spero di rivederla.
Quando esce dalla stanza provo ad andare a referto sulla cartella. Ma che cosa scrivo? Hanno poi così senso le etichette diagnostiche? Posso condensare tutto questo in Disturbo Depressivo atipico in comorbilità con Disturbo da Binge Eating. Suonerà bene ma senza il resto ha senso? Non sarebbe più pregnante scrivere l’Addolorata? Duemila anni di immaginario collettivo sono più potenti di una diagnosi. Ma una cartella simile si può scrivere solo nei sogni notturni, in quei sogni dove rincontriamo i pazienti. Mi accontento perciò di una nota laconica che riassuma i fatti.
Non tanto soddisfatto (o forse più scosso di quanto vorrei essere), osservo la terza persona di oggi. E’ una giovane ragazza, 24 anni, è venuta perché vorrebbe fare un intervento di chirurgia bariatrica. Le hanno detto che la chirurgia di oggi fa miracoli, in due anni nella maggioranza dei casi si perdono 60 Kg, in pratica come se sparisse un’intera persona. Ha sentito da chi ci è passato che le persone rinascono e che hanno anche una grande occasione per cambiare stile di vita, addirittura iniziare una nuova vita. Sembra serena, ha un bel volto, occhi intensi, si muove con quella grazia che solo certe donne obese hanno. Mi chiedo perché vuole con tanto fervore cambiare vita; mi immagino – sbagliando – che sia legato ad un desiderio di bellezza. Un’altra prova, se ce ne fosse bisogno, che prima è sempre obbligo ascoltare, sospendendo ogni giudizio.
Basta chiedere la storia clinica per vedere un altro mondo. E’ diabetica, e questo le ha condizionato la vita: controllo dei pasti, divieti, terapie. Una vita che da sempre ruota intorno al problema dell’alimentazione. Anche il padre era diabetico ed obeso: disturbo di personalità o spirito libero che fosse – ognuno lo rappresenti come preferisce – si è sempre curato poco e male, ribellandosi ai medici o più probabilmente al suo destino pancreatico. Perciò è incorso relativamente presto nelle lesioni avanzate: occhi, reni, ulcere. Più soffre, più è insofferente e muore quando sua figlia ha 16 anni. La ragazza precisa con affetto che si volevano molto bene. E’ ancora in lutto quando sei mesi dopo a lei viene diagnosticato un linfoma di hodgkin. E’ figlia unica, ha solo la madre accanto. Qui mi perdo qualche frase, sono risucchiato dall’angoscia che annebbia la stanza, sento che la giovane ha così tanta paura che deve scappare in ogni modo dalla morte e che vorrebbe un intervento miracoloso, deus ex machina così potente da scavalcare ogni impasse. Ritorno presente, in tempo per intendere che è guarita dal tumore. Mi sorprende nuovamente, è molto più consapevole di quel che credevo della sua angoscia, non vuole fare “la fine di suo padre”, ma sente di non avere ora risorse per curarsi; spesso non prende le medicine, ogni giorno mangia tanto, specialmente i cibi che fanno peggio ai diabetici. Sa che è aggressiva con gli altri, soprattutto con la madre, ma benché ne sia dispiaciuta, non riesce a controllare la rabbia (mentalmente penso: anche il rapporto con la madre è un mondo da esplorare, ma non oggi, vi sono già fin troppi elementi). Forse vuole distruggere e distruggersi e in questo modo si coniuga col padre o più semplicemente è talmente angosciata che si calma solo riempiendosi, il modo più antico e primario per tranquillizzarsi in solitaria, quando mancano e sono mancati due braccia, una voce, un corpo caldo vicino a te. Ci vorrà tempo per capire meglio le radici della sua angoscia. Nell’ultimo quarto d’ora iniziamo dall’abc di una cura, le prenoto le visite mediche con urgenza e saprò pochi giorni dopo che si è presentata e che inizierà un percorso integrato e intensivo a fianco delle cure psichiatriche. Chissà come andrà con tutto questo vento contro la direzione di marcia.
Ho finito le prime visite di oggi, ma continuo a pensare ai tre incontri. Penso che gli obesi non siano deboli come si immaginano molti di noi. Sotto la coltre sottocutanea nascondono dolori indicibili e segreti, incistati, non di rado inaccessibili anche alla stessa coscienza. Nelle loro vite ad un certo punto si sono aperte voragini enormi, come quelle che di tanto in tanto inghiottono in un attimo le case nel nostro Belpaese, delle voragini che, essendo incolmabili, si possono attenuare solo con sacchi di cibo. La voragine li riassorbe in poche ore, il giorno dopo occorrono altri sacchi di cibo. Con il tempo la voragine cresce con il corpo, contenuto e contenitore non hanno più distinzione, così come l’antidoto al dolore genera altro dolore: il cibo placa, il cibo deforma. E’ la prigione dei sintomi psichiatrici che gridano contro la sofferenza e la alimentano. Una prigione saturnina e melmosa.
Chiosa una paziente scrivendomi: “I pensieri che si vorrebbe non avere si possono mangiare e trangugiare anche uno per volta, per poi non vederli e non pensarli più”.
E’ ora di andare a pranzo anche per me.
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