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IL PRANZO DI BABETTE. Etica del cibo, della convivialità e della cura

27 Set 18

A cura di Giovanni Abbate Daga

di Nadia Delsedime
 

“Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti.

Non essere sordo a queste grida”.

Simone Weil

 

“Si possono mangiare i pensieri? Si può parlare di una deglutizione delle idee,

di una loro digestione, assimilazione, evacuazione?Oppure di una congestione,

di una malnutrizione o di un’inedia mentale? Di un’infiammazione dell’intelletto,

di un’intossicazione o persino di una sua degenerazione cancerosa?”

Paolo Cattorini

 

“Nel mangiare io cerco di soddisfare due cose: la fame e l’amore.

La fame viene appagata, l’amore no! Resta il gran buco non riempito.”

Ellen West

 

Tema fra i più trattati in generale, ossessione nei palinsesti mediatici, fotografato e filmato, descritto e giudicato, manipolato, amato e odiato, simbolo di tradizioni e culture diverse, forma di comunicazione e di arte, quasi un vero e proprio linguaggio, universale e locale al tempo stesso: il cibo.

Cibo in eccesso o cibo in difetto, piaga di interi continenti e fonte di patologie, patologie derivanti dall’eccesso o dalla mancanza, indipendentemente dal contesto economico-sociale, patologie che riflettono un’ombra, un inconscio, un nucleo celato nelle profondità dell’individuo, un indicibile.

C’è una frase nel Don Giovanni di Mozart / Da Ponte che mi è sempre sembrata estremamente simbolica e conturbante: “non si pasce di cibo mortale, chi si pasce di cibo celeste”. La pronuncia il Commendatore, Convitato di Pietra al banchetto finale di Don Giovanni, dopo che questi, in un delirio di onnipotenza, osa sfidare la Morte e l’Inferno. Ma cosa celano queste due definizioni ? Cosa si intende per “cibo celeste”? Ricordiamo che la frase è pronunciata da un morto, da un fantasma… Spaziando con i significati e partendo da quello originario di “cibo del cielo”, cibo di chi non è più, possiamo però anche intendere in senso lato lo Spirito, l’intelletto, la preghiera, il pensiero (Socrate e gli stoici predicavano il distacco dal cibo e una vita dedicata al pensiero), il sogno, ma anche la dimensione artistica e creativa (nutrirsi di arte), o quella mistico-religiosa (come non pensare alle “sante-anoressiche”?)… Nutrire lo Spirito è un’espressione di uso comune e si rifà infatti ad un tipo immateriale di cibo. Cibo celeste appunto.

Addentrandoci in un simbolismo con caratteri più psicologici, il cibo celeste è anche il ”rien” lacaniano, il niente, laddove mangiare il niente configura un appetito di morte come principio antievolutivo, configura la negazione di un bisogno e di un istinto vitale, che riporta ad una dimensione ascetico-onnipotente e di solitudine, tipica della patologia per antonomasia del “mangiare il niente”: l’anoressia nervosa.

Oppure come la definisce in modo etico e filosofico il bioeticista Paolo Cattorini, una patologia del “mangiare solo pensieri”. Nel suo testo intitolato proprio “Mangiare solo pensieri”, l’autore ci parla di “etica dell’anoressia”, intesa come identità, come scelta esistenziale dotata di senso; “mangiamo i pensieri e pensiamo il cibo”: questo è il cortocircuito tipico degli stati di denutrizione grave e dell’anoressia nervosa… un pensiero che ruota costantemente intorno al cibo ma non se lo concede e un nutrirsi solo di pensieri. “Mangiamo i pensieri che abbiamo e pensiamo il cibo che mangiamo”, questa un’altra frase tratta dal testo, che descrive quasi un’embricarsi fra il “cibo celeste” e il “cibo mortale”, come se le qualità fisiche e la sostanza di pensieri e cibo si confondessero in una sinestesia di significati. Ma tale sinestesia non è ravvisabile solo a livello del cibo, ma anche per continuità logica a livello del corpo, laddove il corpo si fa portatore di un pensiero, di un messaggio, di un linguaggio..”nell’intero corpo sono disseminate virtualità psichiche, pensieri non-pensati, che invocherebbero un approfondimento, uno svolgimento….” Al terapeuta l’arduo compito di approfondire e svolgere.

Cosa si intende invece per “cibo mortale”? quello che tocchiamo con mano tutti i giorni, quello che è nutrimento, energia, vita, bisogno e istinto di sopravvivenza, ma anche piacere, coccola, desiderio, e cultura, immagine (anche arte in fondo, la dimensione estetica del cibo è diventata preponderante), rito, memoria (pensiamo alla madeleine di Proust…), convivialità, condivisione, sensorialità.

Quante immagini viste e vissute ci riportano a del tempo trascorso intorno ad un tavolo! Un tempo che può evocare ricordi felici o tristi, a traumi addirittura, a drammatiche confessioni (cosa che avviene in tanti film giocati su scene conviviali intorno ad un tavolo, quando dall’ironia si passa al dramma nel giro di un minuto…un esempio per tutti, il film “Perfetti sconosciuti”), o banalmente ad un nostalgico “stare insieme” ed essere famiglia. Rifiutare il cibo, come nell’anoressia nervosa, il più delle volte significa anche isolarsi e rifiutare questa dimensione di convivialità.

In questa accezione il cibo si fa anche veicolo di emozioni; pensiamo al mangiare per noia, all’inappetenza che caratterizza certe forme di depressione, alle abbuffate in preda alla rabbia, o ancora alla sensazione di “stomaco chiuso” per l’ansia.

Questo rapporto fra cibo ed emozioni, ci apre una porta sull’ampio capitolo della psicopatologia alimentare, laddove i sintomi sono definiti dal troppo o troppo poco, dall’eccesso o dal difetto, dal troppo sano (pensiamo alle nuove forme di alimentazione disturbata, quali l’ortoressia o certe forme di veganesimo estremo, di macrobiotica, di crudismo, o anche alle allergie/intolleranze alimentari sempre più diffuse) o dal troppo poco sano (Junk food). Ma magari questo argomento verrà approfondito in un successivo contributo.

Torniamo ai significati simbolici del cibo, che ci fanno comprendere come sempre di più il cibo sia una metafora. Sostituto di un bisogno d’amore, dipendenza che distrugge (il cibo è analogo alle droghe d’abuso), terreno su cui esercitare il controllo e ricercare un esasperato perfezionismo fino all’onnipotenza, fonte di piacere (talvolta sostituto del piacere sessuale), modalità di ricerca dell’attenzione e dell’affetto altrui (rifiuto del cibo come richiesta di cura diversa dal cibo, richiesta di amore), metodo di protesta (lo sciopero della fame per ottenere diritti o affermare un ideale e una volontà, protesta passiva che genera nell’Altro frustrazione e impotenza; in questo senso pensiamo al Digiunatore di Kafka e al Bartleby di Melville), ricerca di libertà, bisogno di purificazione. Ma il cibo, l’alimentarsi, è anche terapia (imposta dall’esterno o auto-imposta per controllare emozioni dirompenti), è sfida all’onnipotenza narcisistica accettando la propria natura umana e bisognosa, è responsabilità verso gli altri e verso se stessi nella forma del “prendersi cura”.

Feuerbach scriveva “l’uomo è ciò che mangia”, e allora in senso lato il cibo – o le patologie legate al cibo – assurge anche a forma di identità, in quanto espressione, linguaggio, simbolo di qualcosa di più profondo. Si parla di “identità anoressica” quando la diagnosi, il corpo scheletrico, sempre più visibile nel suo graduale scomparire, fanno da impalcatura ad una personalità troppo fragile per connotarsi indipendentemente. Anche l’obesità, nel suo imporre un corpo sovrabbondante, ci parla di una forma di identità. Un’identità di nuovo fragile, non riconosciuta, che necessita di vestire degli abiti patologici, per poter essere “vista” e riconosciuta. O anche solo per mandare un segnale di allarme e un grido d’aiuto. Per attirare lo sguardo dell’Altro. “Non restate indifferenti! Vedetemi!”

E tutto ciò spesso avviene a livello inconscio, se intendiamo l’inconscio come qualcosa che grida in silenzio per essere letto altrimenti, riprendendo una celebre frase di Simone Weil.

Allora se seguiamo questo filo logico, il cibo (e come suo specchio, il corpo) è inconscio, ogni qualvolta si fa linguaggio, espressione di una domanda, di una protesta, di un disagio troppo profondo per essere riconosciuto consapevolmente e detto a parole.

E chi è che si deve far carico in primis di ascoltare e tradurre questo linguaggio criptato ?

Il terapeuta. Medico del corpo e dell’anima, che dovrebbe attenersi ad un’etica della cura fatta di rispetto, alleanza terapeutica, obiettivi condivisi; dovrebbe riconoscere il meccanismo della resistenza, tipico di tutti i disturbi psichici ma in particolare di quelli alimentari, fondato sull’ambivalenza ad abbandonare i sintomi per abbracciare uno stile di vita forse più sano ma sconosciuto. Il terapeuta dovrebbe offrirsi come “cibo commestibile”, cibo sano, nutriente, vitale; come cibo amico, di cui fidarsi.

Cibo come terapia; nell’anoressia nervosa la prima terapia è proprio il cibo, in una lenta e graduale renutrizione del corpo ma anche dell’anima, che deve poco a poco riabituarsi a ricevere, ad aprirsi, a godere, a desiderare o almeno a riconoscere i bisogni vitali, uscendo da quello stato granitico di onnipotenza narcisistica.

Ma la terapia per essere tale non necessita solo di un terapeuta e di un mezzo terapeutico (che sia cibo, farmaco, sacca nutrizionale o colloquio psicologico), ma necessita soprattutto della partecipazione attiva e sempre più consapevole del paziente, del soggetto malato, che come primo passo deve riconoscere di avere un problema, un disagio, qualcosa da voler cambiare. Far propria la domanda di cura, trasformarla da passiva in attiva, prendersi la responsabilità della propria cura, iniziare a problematizzare il sintomo, metterlo in discussione, “egodistonizzarsi” da esso, far spazio ad altro e all’Altro, accettare la perdita di controllo e l’angoscia che ne deriva e imparare a tollerarla.

Uscire dalla gabbia dorata del sintomo significa anche costruirsi una nuova identità, nascere o rinascere, affrontare diversamente il mondo e la famiglia, accettare di non essere perfetti e magari di non piacere a tutti. Accettare di essere fragili e fallibili, di aver bisogno di qualcosa e qualcuno. Accettare di vivere.

Tutti questi aspetti, dai significati simbolici del cibo all’etica della cura, sono secondo me ben rappresentati in un film pluripremiato del 1987, Il pranzo di Babette, di Gabriel Axel, tratto da un racconto di Karen Blixen. Ambientato alla fine dell’800 in un villaggio freddo e desolato dello Jutland, il film descrive una serie di personaggi sospesi e in balia del tempo che passa. Tutti sono reduci da storie di sogni infranti e desideri negati, come ben descrive il rigido clima religioso, di stampo luterano. La protagonista, Babette, governante delle due anziane e religiose sorelle Martina e Filippa, è anch’essa sospesa e ferita dalla vita, fuggita da una Parigi in preda alla guerra civile, una famiglia uccisa alle spalle. Splendido personaggio femminile circonfuso di grazia e forza mascherata da umiltà. Il clima (atmosferico e sociale) che contraddistingue il luogo è di tristezza e paura, i colori sono smorti. La rassegnazione sembra vincere. Una sorta di “comunità anoressica”, che respinge le relazioni e nega il desiderio, che si accontenta di vivere in modo parco, al limite dell’ascesi religiosa.

Ma poi, complice la fortuna, irrompe la cura e con essa la vita. La cura è il cibo cucinato da Babette in un sontuoso pranzo (“un vero pranzo francese”) offerto in occasione di una vincita di denaro alla lotteria a tutti i notabili del villaggio. Babette in veste di sacerdotessa e terapeuta, si riappropria del proprio ruolo (a Parigi era la celebre chef di uno dei migliori ristoranti della città) e attraverso il cibo rianima i cuori congelati dei commensali.

Il cibo come terapia allora, che stuzzica e risveglia tutti i sensi in un silenzio irreale, che strappa gemiti di piacere, che risveglia i sogni sepolti e i desideri, che riporta la vita in un paesaggio (esterno e interno) congelato. I commensali gustano in silenzio ogni strabiliante portata (come non ricordare il brodo di tartaruga e le cailles en sarcophage, firma della celebre chef ?) e attraverso esse riconoscono la vera identità di Babette, ma soprattutto attraverso esse vivono una trasformazione interiore. I visi e le lingue si sciolgono, dalla rigidità iniziale pian piano fiorisce una calorosa convivialità (complici anche i pregiati vini), i dissapori e i rancori reciproci si stemperano, ci si viene incontro, ci si perdona, si vince la paura, si riscopre la gioia. E alla fine una memorabile scena di danza / girotondo nella sera e nella neve con tutti i commensali che si tengono per mano, suggella la guarigione delle anime, la riscoperta dei sensi, l’apertura alla vita.

Così attraverso i passaggi di una cena viene simbolicamente rappresentata quella che dovrebbe essere una cura efficace. E Babette risulta una terapeuta imbevuta di etica e valori, che non ha paura dei sensi, sa scegliere e accogliere la grazia, raggiunge un delicato equilibrio fra amore di sé e amore per gli altri (laddove cucinare dovrebbe essere sempre un atto d’amore), quando risponde alle due anziane sorelle che le rimproverano di aver speso tutti i soldi della vincita per amor loro: “non era solo per amor vostro”. Il terapeuta che cresce e matura nel corso della terapia, aiutando i pazienti e imparando qualcosa da ciascuno di loro.

Questo film è l’unico, per il messaggio etico che porta, ad essere entrato a far parte del Magistero di un Papa, da quando Francesco l’ha citato nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia del 2016 come esempio di incontro a tavola fra “misericordia e verità”. Che dovrebbero poi essere due fra i principali ingredienti di una buona (in senso etico) ed efficace terapia, se intendiamo la “misericordia” come compassione e quindi in senso lato vi includiamo anche il significato di empatia, e la “verità” come presenza piena, sincera (intellettualmente onesta) e coerente del terapeuta all’interno del setting terapeutico.

Ma la “verità” è anche quella del soggetto sofferente e dei suoi sintomi, del senso che nascondono. E infine la più antica delle verità: il nostro essere fatti di anima e corpo, parti che vanno entrambe nutrite; e allora il cibo in senso lato ha un unico fine: percepire la vita come risveglio di tutti i sensi.

 

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