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“Tranquillo, non è nulla!”: il fallimento dell’empatia paterna in una ballata di Goethe
24 Ott 18
A cura di Sabino Nanni
Nessuno si lamenta e chiede aiuto per un motivo inesistente. Il problema non è mai quello di capire se tale motivo esiste, ma quello di accertare di che motivo si tratta, spesso al di là di quello che la stessa persona sofferente crede di capire. Ecco perché una risposta alle lamentele del tipo: “Sta’ tranquillo, non è nulla!” non sempre riesce ad essere rassicurante o, almeno, durevolmente rassicurante. Goethe ce ne offre un esempio drammatico nella ballata “Erlkönig” (il re degli Elfi):
Wer reitet so spät durch Nacht und Wind? Es ist der Vater mit seinem Kind; Er hat den Knaben wohl in dem Arm, Er fasst ihn sicher, er hält ihn warm
(Chi cavalca così tardi nella notte e nel vento? / È il padre con il suo figlioletto; / egli lo stringe forte in braccio / lo regge sicuro, lo tiene al caldo)
La foresta, il buio della notte, il vento: tutto questo rappresenta una di quelle situazioni che spaventano i bambini. È preso dalla paura anche il piccino della ballata, nonostante la presenza rassicurante e protettiva del suo papà. Questi se ne accorge:
Mein Sohn, was birgst du so bang dein Gesicht? – Siehst, Vater, du den Erlkönig nicht? Den Erlenkönig mit Kron und Schweif? – Mein Sohn, es ist ein Nebelstreif –
(“Figlio mio, perché ti nascondi il volto così impaurito?” / “Non vedi, padre, il re degli Elfi? / Il re degli Elfi con corona e strascico?” / “Figlio mio, è solo una striscia di nebbia”)
Come succede spesso ai bambini, il piccolo della poesia, dà alla sua paura una spiegazione fantasiosa e bizzarra. In questi casi, il riportare il bambino alla realtà oggettiva di solito lo rassicura. È da sottolineare che, in queste circostanze, non è tanto il contenuto delle parole che conta; è soprattutto la calma dell’adulto (comunicata attraverso il tono della voce, l’espressione del viso e i gesti), di fronte alla stessa situazione percepita dal piccolo, che ottiene l’effetto di rasserenarlo. Tuttavia, il bimbo della ballata sta percependo (confusamente) una realtà diversa da quella, oggettiva, per cui il genitore lo rassicura. La sua angoscia persiste, e si traduce nell’allucinazione uditiva del re degli Elfi che gli parla:
“Du liebes Kind, komm, geh mit mir! Gar schöne Spiele spiel ich mit dir; Manch bunte Blumen sind an dem Strand, Meine Mutter hat manch gülden Gewand„
(Caro bambino, su, vieni con me! / Vedrai i bei giochi che farò con te; / tanti fiori di tutti i colori ci sono sulla riva; / mia madre ha tante vesti dorate)
Con l’allucinazione, il piccolo si rappresenta qualcosa che potrebbe attirarlo, una sorta d’invito allettante e insidioso, di cui avverte la minaccia. Egli cerca, come può, di chiedere aiuto al padre:
Mein Vater, mein Vater, und hörest du nicht, Was Erlenkönig mir leise verspricht? – Sei ruhig, bleibe ruhig, mein Kind! In dürren Blättern säuselt der Wind –
(“Padre mio, padre mio, non senti anche tu / la promessa che il re degli Elfi mi sussurra?” / “Sta’ tranquillo, sta’ tranquillo, figlio mio! / è il vento, tra le foglie secche, con il suo fruscìo”)
Notiamo che il genitore neppure chiede al piccolo che cosa questo immaginario re degli Elfi gli stia promettendo, e subito si affretta a smentire la fantasia del bambino, insistendo nel riportarlo alla realtà oggettiva. Il pover’uomo, probabilmente, sta già avvertendo tutta la sua impotenza di fronte al reale problema che affligge il piccolo; cerca di negarne l’esistenza, e di convincere il figlio a fare altrettanto. Si presume che, a questo punto, la voce del genitore non sia più rassicurante. Infatti, l’angoscia del piccolo persiste, e con essa l’allucinazione uditiva:
“Willst, feiner Knabe, du mit mir gehen? Meine Töchter sollen dich warten schön; Meine Töchter führen den nächtlichen Reihn, Und wiegen und tanzen und singen dich ein„
(Splendido fanciullo, vuoi venire con me? / Le mie figlie devono aver cura di te; / Le mie figlie di notte guidano il ballo, / ti cullano, danzano, ti cantano la ninna nanna)
Ancora una volta il bambino, a suo modo, chiede aiuto al padre; ancora una volta questi gli dà lo stesso tipo di risposta:
Mein Vater, mein Vater, und siehst du nicht dort Erlkönigs Töchter am düstern Ort? – Mein Sohn, mein Sohn, ich seh es genau: Es scheinen die alten Weiden so grau –
(“Padre, padre, non vedi laggiù / le figlie del re in quel posto tetro?” / “Figlio mio, figlio mio, io vedo bene / i vecchi salici danno un bagliore grigio”)
Il padre, a questo punto, con la sua risposta falsamente rassicurante, sta comunicando tutta la sua insicurezza. La situazione precipita, e ciò viene espresso nell’allucinazione, ora decisamente minacciosa:
“Ich liebe dich, mich reizt deine schöne Gestalt; Und bist du nicht willig, so brauch ich Gewalt” Mein Vater, mein Vater, jetzt fasst er mich an! Erlkönig hat mir ein Leids getan!”
(“Ti amo, il tuo bell’aspetto mi provoca; / e, se tu non vuoi, io userò la forza”/ “padre mio, padre mio, ora mi sta afferrando! / Il re degli Elfi mi sta facendo male!”)
La minaccia ora assume il volto di un brutale pedofilo che, non cerca più di sedurre il bambino, ma sta per violentarlo. Compare ora, nel piccolo, la sensazione fisica dolorosa di qualcuno o qualcosa che, afferrandolo, lo sta strappando dalle braccia del padre e dalla vita. Ora, tra genitore e figlio, ci sono solo più sofferenza e disperazione:
Dem Vater grausets, er reitet geschwind, Er hält in Armen das ächzende Kind, Erreicht den Hof mit Mühe und Not; In seinen Armen das Kind war tot.
(Preso da orrore, il padre cavalca veloce / stringe tra le braccia il piccolo gemente / raggiunge il palazzo con fatica ed angustia / tra le sue braccia il bambino era morto)
La tragica fine del bambino dimostra, in modo inequivocabile, che il suo delirio era più vicino alla verità dell’oggettività paterna: il piccolo avvertiva oscuramente una minaccia che potremmo spiegare come prodotta da un’affezione somatica acuta e fulminante. Perché succede che certe persone (e non solo i bambini) manifestino la loro sofferenza fisica con un delirio, o con altri disturbi mentali? La risposta risiede nel fatto che ogni motivo di disagio vene, innanzi tutto, avvertita in modo confuso dalla parte più primitiva della nostra mente. È lo stesso livello di funzionamento mentale che possiede il neonato. Questi, di fronte a qualcosa che lo disturba, avverte sgradevoli sensazioni oscure, indicibili, impensabili, e le manifesta con urli e pianto. Quel che il neonato avverte e, a modo suo, comunica, è sempre testimonianza di un reale fattore disturbante, ma il piccolo non è in grado di capire se l’origine risiede nel suo corpo, o nella sua vita emotiva, o nell’ambiente che lo circonda. Solo la madre-puerpera, con la straordinaria capacità di comprensione empatica di cui la Natura l’ha dotata, riesce ad individuare la fonte del disagio e ad offrire al suo bambino la risposta più adeguata. Come dicevo, lo stesso livello primitivo di funzionamento mentale (definito da Bion “protomentale”) si conserva anche nell’infanzia e nell’età adulta. Da esso partono i primi segnali di sofferenza che, in genere, l’adulto riesce a decodificare, anche sulla base di sintomi fisici concomitanti che avverte coscientemente. Tuttavia esistono anche situazioni morbose asintomatiche. Qui il disagio è avvertito unicamente a livello “protomentale”; l’individuo, perciò, è solo in grado di sapere che il motivo di disagio esiste, ma non di capire se si tratta di un problema fisico, oppure emotivo, oppure sociale. L’esigenza imperiosa di controllare con la mente una situazione che avverte come minacciosa, lo spinge a darle una qualche forma pensabile costruendo un delirio. Ecco perché la semplice confutazione con argomenti logici e realistici del delirio (per definizione refrattario alla confutazione) riesce infruttuosa. Tale risposta equivale alla negazione di ciò di cui il paziente ha la certezza. Equivale a dire: “Tranquillo, non è nulla!”, quando il malato “sa” di avere qualcosa. In queste circostanze, questa risposta falsamente rassicurante non riflette la realtà, ma solo i limiti (oggettivi, culturali, intellettivi, emotivi) di chi pronuncia queste parole. Possono essere i limiti di chi sa di non essere oggettivamente in grado d’offrire alcun aiuto, come il padre della ballata di Goethe. Possono essere i limiti culturali ed emotivi di chi non sa vedere l’origine di un possibile disagio al di fuori di situazioni oggettive, o del corpo, o della mente. Di questo isolamento ossessivo del corpo (tipico di medici incapaci di comprendere empaticamente, e quindi di diagnosticare, un disagio mentale), e di questo evitamento fobico del corpo stesso (tipico dei curanti incapaci di cogliere, altrettanto empaticamente, l’origine somatica di un disagio), ho già trattato estensivamente in un mio saggio di qualche anno fa, ed in altri che ho avuto l’onore di scrivere con il mio più importante maestro, il Prof. Romolo Rossi.
Bibliografia
· Goethe Johann Wolfgang (1815) Ballate (Garzanti 1979)
· Nanni Sabino (1993) Dimensioni del rapporto medico-paziente: il corpo e la cura (Rivista di psichiatria, vol. 28, N° 2, pag. 89-93)
· Rossi Romolo – Nanni S. – Fele P. – Traverso S. (1994) Il paradosso del dottor Cottard. A proposito del collegamento con la Medicina Generale (In: “Psichiatria di consultazione e collegamento nell’Ospedale Generale” a cura di E. Aguglia e I. Allegranti – Editre – Trieste 1994)
· Nanni Sabino – Rossi Romolo (2000) Mente e cervello nella Psichiatria Psicodinamica: l’impostazione di Glen O. Gabbard (Studi di Psichiatria, 2: 75 – 78)
· Nanni Sabino – Rossi Romolo (2000) Il rapporto terapeutico malato e la sua cura. Il ruolo della Psichiatria di consulenza-collegamento (Studi di Psichiatria, vol. 2, n° 1, pag. 10-18)
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