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L’ ATTUALITÀ DI PIERRE JANET IN PSICOTRAUMATOLOGIA

5 Dic 18

A cura di AISTED - Associazione Italiana Studio Trauma e Dissociazione

di Raffaele Avico, socio AISTED, Torino, psicologo psicoterapeuta

Nel corso del famoso Congresso di Medicina tenutosi a Londra nel 1913 Pierre Janet aveva profetizzato che il futuro della psicologia clinica sarebbe stato da ricercarsi nell'ambito della psicotraumatologia, ovvero nello studio delle ripercussioni che un trauma (singolo o cumulativo, cioè protratto e ripetuto nel tempo) produce sulla psicologia dell'individuo nel corso del suo sviluppo. Profezia precocissima, che al tempo fu oscurata e bollata come poco ortodossa da parte della Società Psicoanalitica del tempo, egemonizzata dalle teorie freudiane allora particolarmente in voga.

Le tendenze più attuali relative alla psicologia clinica hanno confermato molte delle intuizioni che Janet aveva promosso nel corso di quel famoso convegno, a cui aveva fatto seguito il suo allontanamento dalla comunità scientifica e l'oscuramento delle sue teorie. Per un approfondimento consigliamo "La Psicoanalisi" di Janet stesso, la trascrizione del suo discorso in quell'occasione.

Le teorie di Janet sono attuali perchè rispecchiano un'idea di sofferenza mentale fondata sull'assunto di base che in un'ipotetica assenza di eventi traumatogeni, tutti noi si vivrebbe in modo pacifico e lineare, come placidi animali intenti a sopravvivere, e sopravvivere bene. La vita però mette alla prova già dagli inizi questa idilliaca pace, e ci troviamo quotidianamente ad affrontare problematiche più o meno complesse e più o meno protratte nel tempo. Crescere con una mamma violenta, o un padre affetto da sindrome bipolare o tossicodipendente, obbliga il bambino a compiere piroette adattative che in senso clinico rappresentano un miracolo evolutivo, un vero e proprio emblema dell'adattabilità dell'intelligenza umana al suo contesto. Continuando nel percorso della vita, tutti noi siamo costantemente potenzialmente soggetti a sviluppare stress post-traumatico, ovvero stress prodotto dal tentativo di far fronte a eventi di vita che ci stancano e di cui dobbiamo "gestire" le conseguenze.

Janet nel suo discorso riprende idee già sviluppate a fine ‘800 da fenomenologi e proto-psicologi dell’epoca, per esempio Moebius che addirittura nel 1888 aveva valutato l’ipotesi che i disturbi allora chiamati “isterici” non fossero altro che conversioni sul corpo di emozioni veementi collegate a precisi ricordi o a idee.

All’interno del suo famoso intervento l’autore sostiene inoltre che per diventare “morboso”, un ricordo o una memoria traumatica debba germogliare su un terreno già predisposto, ovvero uno stato di “lassismo psichico” o di depressione. Secondo Janet sarebbe questo “abbassamento della tensione psichica” a creare i presupposti affinché un ricordo traumatico si impianti nella memoria in modo indelebile e duraturo.

Esiste secondo l’autore un meccanismo definito “doppia emozione”, ipotizzato per spiegare la patogenesi dello stress post-traumatico. Dal suo punto di vista il paziente psicotrumatologico viene dapprima “colpito” da un avvenimento (anche solo mentale) che abbassa il suo livello di difesa psichica: in seguito incorre un secondo avvenimento -sempre traumatico- che dà origine all’idea “fissa”, cioè al ricordo traumatico intrusivo -di cui oggi spesso si parla. Janet compie un giusto paragone tra il meccanismo psicotrumatogenetico e ciò che avviene al corpo nel corso di un’infezione: non è la sola forza del virus a essere centrale nello sviluppo del disturbo, ma il terreno sul quale attecchisce, più o meno fertile (metafora per indicare lo stato generale dell’organismo nel momento della lotta verso la possibile invasione da parte di un virus).

Queste teorie furono da lui formulate nel 1913, anticipando di un secolo le questioni che attualmente vengono discusse e considerate alla base di molteplici meccanismi inerenti la patologia psichica. All’interno del libro “La psicoanalisi” è approfondita e sviscerata la matassa teorica portata da Janet a sostegno delle sue idee in ambito clinico, solo oggi veramente riscoperte nella loro plausibilità ed efficacia esplicativa.

L'esperienza clinica ci mostra quotidianamente l’esattezza delle intuizioni di Janet a riguardo degli “embrioni” di malessere psichico che sono le idee intrusive, ricorrenti, e le memorie traumatiche, che resistono dure e stazionarie al trascorrere del tempo nella mente del paziente.

E’ la gestione della loro comparsa, spesso, a produrre “stanchezza” (termine usato da Janet stesso) e sintomi genericamente definibili depressivi, sensazione di poco controllo sulla propria vita ed un’enorme ricaduta in termini di minor grado di libertà percepita. Esistono filoni di pensiero che vedono la patologia psichica come relativa a quanto il paziente percepisca di avere libertà (e controllo) all’interno della propria vita. A minore quantità di libertà percepita, corrisponde un maggior grado di malessere sperimentato.

Janet aveva intuito che i sintomi intrusivi e le ossessioni post-traumatiche portassero il paziente a un rapido esaurimento emotivo connesso al senso di una completa impotenza, creandogli uno stato di “stanchezza” psichica foriera di ulteriori, potenziali innesti di memorie traumatiche, come all’interno di un circolo vizioso. Sarebbe stata infatti la debolezza psichica, la “stanchezza” appunto, a generare l’humus psichico fertile a nuove traumatizzazioni, essendosi indebolito, per usare una metafora usata da Janet stesso, il “sistema immunitario” psicologico in un momento di particolare fragilità del paziente.

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