Contributo di Elena Veri
Ne L’Essere e il Nulla, Sartre dedica delle pagine insuperabili al potere dello sguardo dell’Altro[1], in grado di farci sussistere ma allo stesso tempo sparire come esseri consistenti.
Per un verso, infatti, essere guardati, essere innaffiati dallo sguardo dell’Altro “ci prova concretamente che ci sono (delle) coscienze per le quali esisto[2]”. Nel momento in cui, però, esistiamo grazie allo sguardo altrui, per via di questa stessa l’esposizione all’altro ci troviamo contemporaneamente feriti da ciò che il filosofo francese definisce come “vergogna pura”, vale a dire il sentimento di essere un oggetto, in estremo pericolo perché totalmente dipendente da quello che sono per l’altro[3].
Il nostro valore proviene dall’apprezzamento che l’Altro ci rimanda attraverso il suo sguardo, al punto che Jacques Lacan, sicuramente ispirato anche dall’intuizione sartriana, concettualizza il celebre stadio dello specchio come quell’operatore psichico che consente al soggetto di strutturare il proprio Io attraverso l’immagine che gli viene restituita dall’Altro, in particolare materno[4].
L’identità dell’essere umano è il rivestimento del cuore vuoto del proprio essere che deriva non dall’interno ma dall’esterno[5]. L’incognita insondabile della nostra venuta al mondo (la nostra origine come strutturalmente avvolta dal mistero, mai del tutto sensata o quasi del tutto insensata) può trovare un punto di reperimento, di ancoraggio nello sguardo desiderante dell’Altro. Esso ha il potere di strappare la vita del soggetto alla sua originaria insensatezza, oppure, all’altro estremo di decretarne il rifiuto.
Con l’aggiunta fondamentale, evidenziata da Sartre così come dalla psicoanalisi lacaniana, che, in condizioni sufficientemente buone, il soggetto riuscirà a smarcarsi dalla posizione di oggetto visto, reclamando “il diritto di vedere senza essere visto[6]”, reagendo allo stato di impotente passività per divenire soggetto che coglie, in un processo di rovesciamento vertiginoso, l’apparizione degli altri come oggetti della propria attività.
Dobbiamo intendere questa doppia processualità come continuamente all’opera non solo nel dinamismo delle relazioni umane, ma anche nello psichismo dell’individuo stesso che è chiamato incessantemente a soggettivare la propria oggettualità.
Nel campo sociale, esiste una dimensione macroscopica e diffusa del potere dello sguardo. Si tratta dell’evoluzione delle cosiddette classificazioni, ad esempio in campo medico o psicosociale, che per un verso ci aiutano a leggere il reale, per mezzo di quelle operazioni di differenziazione e nominazione senza le quali nessun sapere sulle cose potrebbe sorgere; ma, per un altro verso, frequentemente finiscono per diventare dei sistemi collettivi di restringimento del mondo.
In tal senso, l’etichetta, ad esempio quella diagnostica, nella sua assunzione all’interno del discorso sociale è legata a doppio filo al concetto di “normalità”. L’etichetta quindi ha il mandato di segnalare ciò che non è normale (con tutta la variabilità che appartiene alle diverse culture) e il riferimento ad essa veicola una certa distribuzione dello sguardo: il soggetto viene visto come oggetto-etichettato. Assistiamo ad un processo insieme di impoverimento e di irrigidimento della funzione dello sguardo sartriano: la declinazione potenzialmente infinita dello sguardo si riduce all’univocità dell’etichetta; al contempo essa è assunta da una moltitudine di soggetti generando un effetto massa difficilmente contrastabile.
L’etichetta ribalta quindi la prospettiva sartriana: l’Altro non è più colui che attraverso il suo sguardo restituisce un possibile valore alla nostra essenza sempre opaca e sfuggente, ma diviene colui che attraverso l’etichetta crede di aver reso visibile e circoscrivibile l’intimità vuota che ci abita. La molteplicità contraddittoria del soggetto, fatta dalla stratificazione degli sguardi che lo hanno segnato nel corso della propria esistenza, viene invalidata da una lettura univoca e tautologica.
In questo senso, i soggetti affetti da handicap psichico rappresentano una delle frange della popolazione maggiormente esposta a tale degenerazione dello sguardo. Se le etichette si spostano e si modificano anche sulla base delle correnti di contestazione ed emancipazione sociale (basti pensare al femminismo o al movimento omosessuale) nella giusta rivendicazione dei propri diritti[7], nel caso del soggetto disabile ci troviamo di fronte ad una situazione di impasse poiché la sua dipendenza concreta dagli altri e la sua difficoltà strutturale a soggettivare la propria condizione di passività lo rendono, purtroppo, facile preda del riduzionismo sotteso al meccanismo dell’etichetta.
Così, l’unidirezionalità monotona dello sguardo dall’Altro (sociale e curante), diretta verso il soggetto disabile, rischia di assumere le forme spaventose e incontrastate dell’esercizio di un potere disciplinare.
È Foucault, infatti, a ricordarci come esso si esplica innanzitutto nella riduzione del soggetto a corpo perennemente visto[8]. Il disabile, già in estrema difficoltà rispetto al diventare protagonista attivo della propria esistenza, viene indotto a scivolare nella nicchia immobile dell’etichetta. Questo porta, ad esempio, a considerare, attraverso una riduzione violenta, le espressioni assolutamente particolari di Enzo, Mauro, Paola e Sonia alla stregua di manifestazioni sintomatiche assolutamente anonime di Un disabile.
Quale antidoto? Come ostacolare la deriva della stigmatizzazione? Come interrompere questa macchina che produce anonimato?
La sensibilità di Jacques Derrida verso il mondo animale ci apre una possibile via. Derrida problematizza la tradizione del logocentrismo filosofico che, intendendo l’animale innanzitutto come “privato di logos”, sviluppa le proprie prospettive attorno ad esso a partire dalla posizione di oggetto visto. La sua trattazione filosofica esita invece dal brivido provocatogli dalla percezione di essere visto da un gatto.
Allo stesso modo, possiamo dire, è stato a lungo interrogato il disabile come oggetto di studio (nei suoi deficit, nei suoi scarti dalla norma), ma cosa accade quando un bambino disabile ci guarda?
Derrida scrive rispetto all’animale:
Come ogni sguardo senza fondo, come gli occhi dell’altro, questo sguardo cosiddetto «animale» mi fa vedere il limite abissale dell’umano: l’inumano o l’anumano, le fini dell’uomo, cioè il passaggio delle frontiere oltre il quale l’uomo osa annunciarsi a sé stesso, chiamandosi così con il nome che crede di darsi[9].
Immaginiamo di sostituire, a queste righe profondissime, il termine animale con quello di disabile e il termine uomo con “normale”.
Non è forse lasciandoci guardare dal disabile, facendoci attraversare come oggetti dal suo sguardo, e interrogandoci sugli effetti profondi che il suo sguardo ci smuove, che possiamo, noi sedicenti normali, aprire un varco per un incontro che sia non coartato dall’etichetta ma affacciato al mistero irriducibile del suo essere particolare?
Per un verso, infatti, essere guardati, essere innaffiati dallo sguardo dell’Altro “ci prova concretamente che ci sono (delle) coscienze per le quali esisto[2]”. Nel momento in cui, però, esistiamo grazie allo sguardo altrui, per via di questa stessa l’esposizione all’altro ci troviamo contemporaneamente feriti da ciò che il filosofo francese definisce come “vergogna pura”, vale a dire il sentimento di essere un oggetto, in estremo pericolo perché totalmente dipendente da quello che sono per l’altro[3].
Il nostro valore proviene dall’apprezzamento che l’Altro ci rimanda attraverso il suo sguardo, al punto che Jacques Lacan, sicuramente ispirato anche dall’intuizione sartriana, concettualizza il celebre stadio dello specchio come quell’operatore psichico che consente al soggetto di strutturare il proprio Io attraverso l’immagine che gli viene restituita dall’Altro, in particolare materno[4].
L’identità dell’essere umano è il rivestimento del cuore vuoto del proprio essere che deriva non dall’interno ma dall’esterno[5]. L’incognita insondabile della nostra venuta al mondo (la nostra origine come strutturalmente avvolta dal mistero, mai del tutto sensata o quasi del tutto insensata) può trovare un punto di reperimento, di ancoraggio nello sguardo desiderante dell’Altro. Esso ha il potere di strappare la vita del soggetto alla sua originaria insensatezza, oppure, all’altro estremo di decretarne il rifiuto.
Con l’aggiunta fondamentale, evidenziata da Sartre così come dalla psicoanalisi lacaniana, che, in condizioni sufficientemente buone, il soggetto riuscirà a smarcarsi dalla posizione di oggetto visto, reclamando “il diritto di vedere senza essere visto[6]”, reagendo allo stato di impotente passività per divenire soggetto che coglie, in un processo di rovesciamento vertiginoso, l’apparizione degli altri come oggetti della propria attività.
Dobbiamo intendere questa doppia processualità come continuamente all’opera non solo nel dinamismo delle relazioni umane, ma anche nello psichismo dell’individuo stesso che è chiamato incessantemente a soggettivare la propria oggettualità.
Nel campo sociale, esiste una dimensione macroscopica e diffusa del potere dello sguardo. Si tratta dell’evoluzione delle cosiddette classificazioni, ad esempio in campo medico o psicosociale, che per un verso ci aiutano a leggere il reale, per mezzo di quelle operazioni di differenziazione e nominazione senza le quali nessun sapere sulle cose potrebbe sorgere; ma, per un altro verso, frequentemente finiscono per diventare dei sistemi collettivi di restringimento del mondo.
In tal senso, l’etichetta, ad esempio quella diagnostica, nella sua assunzione all’interno del discorso sociale è legata a doppio filo al concetto di “normalità”. L’etichetta quindi ha il mandato di segnalare ciò che non è normale (con tutta la variabilità che appartiene alle diverse culture) e il riferimento ad essa veicola una certa distribuzione dello sguardo: il soggetto viene visto come oggetto-etichettato. Assistiamo ad un processo insieme di impoverimento e di irrigidimento della funzione dello sguardo sartriano: la declinazione potenzialmente infinita dello sguardo si riduce all’univocità dell’etichetta; al contempo essa è assunta da una moltitudine di soggetti generando un effetto massa difficilmente contrastabile.
L’etichetta ribalta quindi la prospettiva sartriana: l’Altro non è più colui che attraverso il suo sguardo restituisce un possibile valore alla nostra essenza sempre opaca e sfuggente, ma diviene colui che attraverso l’etichetta crede di aver reso visibile e circoscrivibile l’intimità vuota che ci abita. La molteplicità contraddittoria del soggetto, fatta dalla stratificazione degli sguardi che lo hanno segnato nel corso della propria esistenza, viene invalidata da una lettura univoca e tautologica.
In questo senso, i soggetti affetti da handicap psichico rappresentano una delle frange della popolazione maggiormente esposta a tale degenerazione dello sguardo. Se le etichette si spostano e si modificano anche sulla base delle correnti di contestazione ed emancipazione sociale (basti pensare al femminismo o al movimento omosessuale) nella giusta rivendicazione dei propri diritti[7], nel caso del soggetto disabile ci troviamo di fronte ad una situazione di impasse poiché la sua dipendenza concreta dagli altri e la sua difficoltà strutturale a soggettivare la propria condizione di passività lo rendono, purtroppo, facile preda del riduzionismo sotteso al meccanismo dell’etichetta.
Così, l’unidirezionalità monotona dello sguardo dall’Altro (sociale e curante), diretta verso il soggetto disabile, rischia di assumere le forme spaventose e incontrastate dell’esercizio di un potere disciplinare.
È Foucault, infatti, a ricordarci come esso si esplica innanzitutto nella riduzione del soggetto a corpo perennemente visto[8]. Il disabile, già in estrema difficoltà rispetto al diventare protagonista attivo della propria esistenza, viene indotto a scivolare nella nicchia immobile dell’etichetta. Questo porta, ad esempio, a considerare, attraverso una riduzione violenta, le espressioni assolutamente particolari di Enzo, Mauro, Paola e Sonia alla stregua di manifestazioni sintomatiche assolutamente anonime di Un disabile.
Quale antidoto? Come ostacolare la deriva della stigmatizzazione? Come interrompere questa macchina che produce anonimato?
La sensibilità di Jacques Derrida verso il mondo animale ci apre una possibile via. Derrida problematizza la tradizione del logocentrismo filosofico che, intendendo l’animale innanzitutto come “privato di logos”, sviluppa le proprie prospettive attorno ad esso a partire dalla posizione di oggetto visto. La sua trattazione filosofica esita invece dal brivido provocatogli dalla percezione di essere visto da un gatto.
Allo stesso modo, possiamo dire, è stato a lungo interrogato il disabile come oggetto di studio (nei suoi deficit, nei suoi scarti dalla norma), ma cosa accade quando un bambino disabile ci guarda?
Derrida scrive rispetto all’animale:
Come ogni sguardo senza fondo, come gli occhi dell’altro, questo sguardo cosiddetto «animale» mi fa vedere il limite abissale dell’umano: l’inumano o l’anumano, le fini dell’uomo, cioè il passaggio delle frontiere oltre il quale l’uomo osa annunciarsi a sé stesso, chiamandosi così con il nome che crede di darsi[9].
Immaginiamo di sostituire, a queste righe profondissime, il termine animale con quello di disabile e il termine uomo con “normale”.
Non è forse lasciandoci guardare dal disabile, facendoci attraversare come oggetti dal suo sguardo, e interrogandoci sugli effetti profondi che il suo sguardo ci smuove, che possiamo, noi sedicenti normali, aprire un varco per un incontro che sia non coartato dall’etichetta ma affacciato al mistero irriducibile del suo essere particolare?
[1] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1965, pp. 321 e seg.
[2] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 354.
[3] “La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell'errore, ma semplicemente del fatto che sono «caduto» nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono”. In J.P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 354.
[4] Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, Einaudi, 1974, pp 87-94.
[5] “Il che significa che io ho coscienza di me proprio in quanto mi sfuggo; non in quanto sono il fondamento del mio nulla, ma in quanto ho il mio fondamento fuori da me”. In J.P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 330.
[6] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 362.
[7] Potremmo dire che una società è tanto più democratica quanto più è in grado di rivedere criticamente le proprie etichette.
[8] “Il potere disciplinare infatti non è discontinuo, ma implica al contrario una procedura di controllo costante. Nel sistema disciplinare […] si è perpetuamente esposti allo sguardo di qualcuno o, in ogni caso, nella condizione di poter essere costantemente osservati”. In M. Foucault, Il potere psichiatrico, Feltrinelli, 2010, p. 55.
[9] J. Derrida, L’animale che dunque sono, Editoriale Jaca Book Spa, Milano, 2006, p. 49.
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