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I CAMBIAMENTI IN CORSO NELLE SCIENZE PSICOLOGICHE E NELLE PRINCIPALI TRADIZIONI PSICOTERAPEUTICHE

4 Feb 19

A cura di Francesco Bottaccioli

Nella Rubrica del 1° gennaio 2019 abbiamo affrontato i cambiamenti in corso nelle neuroscienze.

Qui facciamo il punto su quelli che appaiono essere i cambiamenti in corso nelle principali tradizioni psicologiche e psicoterapeutiche.

La psicoanalisi contemporanea critica verso la tradizione e aperta alla contaminazione

A rigore, non è possibile parlare di una tradizione psicoanalitica come corpus unitario. Non solo per i continui aggiustamenti e svolte teoriche che lo stesso fondatore ha realizzato nel corso della sua carriera (basti pensare, a mo’ di esempio, alle due cosiddette topiche, il modello topografico e il modello strutturale della psiche, oppure alla trasformazione del concetto di libido nella coppia antagonista Eros e Thanatos), ma anche per le note vicende storiche che hanno visto la proliferazione, dall’alveo freudiano, di diverse tradizioni anche in forte contrasto tra loro.

Per questa ragione, i teorici contemporanei che si pongono l’obiettivo di stabilire una base unitaria non possono evitare di riferirsi a una pluralità di tradizioni.

Secondo Glen O. Gabbard (2015, p.31) occorre riferirsi ad “almeno 4 ampie aree teoriche psicoanalitiche”: la psicologia dell’Io (Da Sigmund ad Anna Freud fino ad Hartman), la teoria delle relazioni oggettuali (dalla Klein a Fairbairn, Winnicot, Balint, fino a Kernberg e Mitchell), la psicologia del Sé (da Kohut ai teorici dello sviluppo, Mahler e Stern), la teoria dell’attaccamento (da Bowlby a Sandler a Fonagy). La conclusione cui giunge l’autorevole psichiatra psicoanalitico è la presa d’atto dell’esistenza del “pluralismo teorico”, che, tuttavia, può essere una risorsa per il terapeuta, sostiene Gabbard (2015, p.64).

Anche chi come Elizabeth L. Auchincloss, ha provato a costruire un “modello psicoanalitico della mente unitario” ha dovuto ragionare su “quattro modelli psicoanalitici fondamentali: il Modello Topografico, il Modello Strutturale, la Teoria delle Relazioni Oggettuali e la Psicologia del Sé” (Auchincloss 2016, XVI), per concludere che occorre lavorare al superamento del “pluralismo psicoanalitico”, anche se, francamente, il tentativo non sembra granché riuscito, nel momento in cui giunge alla determinazione che “è saggio utilizzare tutti e quattro i modelli” (Auclincloss 2016 pp. 262-263).

Tuttavia, pur in un quadro contrastante su ciò che è vivo e ciò che è morto della psicoanalisi, con opinioni radicalmente diverse su singoli concetti fondamentali, come la teoria delle pulsioni, il complesso di Edipo, l’Es (che qui non è il caso di dettagliare, ma per chi volesse approfondire rinvio al fondamentale numero speciale di Psicoterapia e scienze umane (2016, n. 3) edito in occasione del cinquantennale della Rivista, con contributi di oltre 60 psicoanalisti su scala internazionale), largo appare il consenso sullo “zoccolo duro” della psicoanalisi, che può essere così riassunto: la psicoanalisi ha un approccio basato sullo sviluppo della persona, sulla centralità delle prime fasi della vita (Stern 1985; Fonagy 2016), sulla persona nella sua complessità (Gabbard 2015, p. 26 e passim), sulla soggettività (Shapiro 2018); la persona che chiede aiuto, quindi, non viene ridotta ai suoi sintomi (Lingiardi, McWilliams 2018, p.5) . Il terapeuta a orientamento psicodinamico focalizza la relazione col paziente sull’esperienza emotiva e sui processi impliciti (inconsci) e non solo su quelli espliciti (Shapiro 2018; Yakeley 2018).

In questo quadro, la “psicoanalisi contemporanea è impegnata a modificare alcuni pilastri su cui si reggeva la psicoanalisi classica, abbandonando il modello pulsionale, ridimensionando il ruolo dell’insight e del conflitto, rivalutando quello dell’ambiente e del trauma reale, revisionando la teoria psicosessuale e le sue convinzioni omofobe, ripensando il significato delle dinamiche edipiche…” (Lingiardi 2016, p. 512) e ripensando lo stesso atteggiamento dello psicoanalista come “schermo bianco”  favore di un’enfasi sulla “relazione terapeutica e sull’esperienza emozionale correttiva” (Eagle 2016, p. 440).

Su questa base, che mette in disparte l’ortodossia – che sembra essere conservata solo nelle istituzioni psicoanalitiche, la International Psychoanalytical Association (IPA) e, per quello che riguarda il nostro Paese, la Società Psicoanalitica Italiana (SPI), stando a valutazioni critiche che provengono dall’interno della stessa SPI (Imbasciati 2015, pp. 16-17) – da tempo si registrano approcci di apertura e di contaminazione con altre tradizioni, tra cui quella rivale per il eccellenza, il cognitivismo.

Venti anni fa, una proposta di contaminazione è venuta da Paolo Migone psicoanalista e Giovanni Liotti cognitivista, che, con un articolo congiunto pubblicato su “International Journal of Psychoanalysis” (Migone, Liotti 1998), avanzarono una proposta di integrazione tra “psicoanalisi e psicologia cognitivo-evoluzionista”.

Oggi, registriamo una proposta di integrazione che va ben oltre la teoria. Fredric N. Busch, professore di psichiatria al Weill Cornell Medical College e al Columbia University Center for Psychoanalytic Training and Research di New York, propone un’integrazione di tipo clinico, che, ovviamente, per realizzarsi, necessita di cambiamenti in entrambe le direzioni. Dal lato della psicoanalisi, Busch critica in modo penetrante alcuni assunti storici della tradizione psicoanalitica, come la “neutralità” del terapeuta e la sua astensione da un intervento attivo, volto a suggerire cambiamenti anche nei comportamenti del paziente. Bush (2019) ha appena pubblicato un libro il cui titolo, dal punto di vista della psicoanalisi classica, appare un ossimoro “Psychodynamic approaches to behavioral change” (Approcci psicodinamici per il cambiamento comportamentale). L’obiettivo di fondo del trattamento psicoanalitico classico, infatti, non è quello di indurre un cambiamento, bensì quello dell’insight che è la conoscenza delle dinamiche inconsce che governano pensieri, emozioni e comportamenti dolorosi e/o patologici. Nella prospettiva psicoanalitica tradizionale quindi il cambiamento personale è un derivato, un sottoprodotto dell’insight. Qui invece, lo psicoanalista Busch sostiene che lo psicoterapeuta deve prendersi cura dei cambiamenti comportamentali del paziente, identificando i pensieri e i comportamenti disadattativi, proponendo comportamenti alternativi (Busch 2019, cap. 7).

Come è noto questo è il tradizionale campo di attività, direi il marchio di fabbrica, della terapia cognitivo-comportamentale. C’è però una novità: Busch sostiene che occorra favorire il cambiamento identificando gli ostacoli, che risiedono non solo in pensieri errati, come è nella tradizione cognitivista classica, ma anche e soprattutto in fattori profondi che riguardano: 1) la storia del paziente, il suo sviluppo, la presenza di eventuali traumi e di conflitti intrapsichici; 2) i meccanismi di difesa, i tratti e le difficoltà di personalità, eventuali deficit nella “mentalizzazione” e cioè nella capacità di riflettere sugli stati mentali altrui e propri (Busch 2019, p. 14, table 2.1).

Il terapeuta psicodinamico, secondo Busch, dovrebbe integrare “le strategie che altri trattamenti [cognitivo-comportamentali, nota mia] usano per il cambiamento comportamentale” con le “teorie e tecniche psicoanalitiche”, in quanto “gli sforzi per cambiare i comportamenti possono essere parte dello sviluppo e dell’impiego della formulazione psicodinamica [la diagnosi, nota mia] e della terapia e possono essere usate per aumentare la comprensione di sé e l’esplorazione del transfert” (Preface, p. VIII). Cioè per migliorare la stessa terapia psicodinamica integrandola con quella cognitivo-comportamentale.

La spinta critica e trasformatrice della “terza ondata” del cognitivismo

È noto che la storia della terapia cognitivo comportamentale viene suddivisa in tre fasi (Thoma et al 2015). La fase comportamentale, centrata sulle teorizzazioni di John Watson (1913) e di Burrhus Skinner (1952) sul condizionamento pavloviano (Watson) e operante (Skinner) e sulla organizzazione di una pratica terapeutica, cui hanno contribuito numerosi studiosi, tra cui Eysenck, Wolpe, Rachman, , fondata sul principio: “No ai farmaci, no ai trattamenti fisici, no alla discussione di complessi sessuali giacenti nella profondità dell’inconscio, bensì semplice modificazione del comportamento della persona” (Rachman 2015).

La fase cognitiva che, partendo dalle suggestioni e dalla pratica di Albert Ellis (1962) e soprattutto di Aaron Beck (1967) su diagnosi e terapia della depressione, centrata sulla correzione dei pensieri negativi su di sé, sugli altri e sul mondo, giunge, nel corso degli anni ’80, ad una combinazione della classica terapia comportamentale con l’approccio cognitivo di disconferma delle interpretazioni errate, che, ad esempio, nel caso del disturbo di panico (Clark 1986), consistono in interpretazioni catastrofiche di sensazioni corporee. Nasce la terapia cognitivo comportamentale (CBT nella sigla internazionale), come integrazione nel modello cognitivo delle principali tecniche comportamentiste: attivazione comportamentale, esercizi di esposizione, training di rilassamento e di acquisizione di competenze sociali (Thoma et al 2015).

Dagli anni ’80 in avanti, la CBT avrà un successo crescente, che surclasserà le altre tradizionali psicoterapie, in primis la rivale storica, la psicoanalisi, da cui Beck e altri leader cognitivisti, purtuttavia, provenivano.

Le ragioni del successo della CBT sono state analizzate da Steven Hayes dell’Università del Nevada e promotore della ACT, Acceptance Commitment Therapy (Terapia dell’accettazione e dell’impegno).  L’ACT, assieme a un gruppo di terapie basate sulla mindfulness – Dialectical Behavior Therapy (DBT), Compassion Focused Therapy (CFT) e Mindfulness-based Cognitive Therapy (MBCT) – fanno parte della “terza ondata” (third wave) o terza fase della Terapia cognitivo comportamentale (Hayes 2004).

Hayes (2016), che è stato anche presidente dell’ “Association for Behavioral and Cognitive Therapies”, sostiene che le ragioni del successo della CBT oggi stanno venendo meno.

“La situazione è chiaramente cambiata”, scrive Hayes, innanzitutto perché stanno scemando i finanziamenti pubblici che hanno sostenuto la ricerca sulla verifica di efficacia della terapia cognitivo comportamentale; verifica di efficacia che ha trainato il successo della CBT, presentata come l’unica terapia psicologica evidence-based. In secondo luogo, altre terapie hanno mostrato la loro efficacia controllata, conseguentemente sta venendo meno il consenso indiscusso attorno alla CBT. In terzo luogo, prende sempre più piede la sfida, portata avanti dalla terza ondata, alla “sindromizzazione della sofferenza umana”, al “modello di causalità cognitiva” e alla cieca adesione all’approccio sintomatologico codificato nel DSM (Hayes 2016).

Vengono attaccati i pilastri del cognitivismo: la centralità dei sintomi, il ruolo causale dei pensieri negativi ed errati, la ristrutturazione cognitiva come strada maestra della terapia. Viene denunciata la povertà della base filosofica della CBT e l’adesione supina a una biologia riduzionista, rappresentata anche dal recente programma di ricerca del National Institute for Mental Health, denominato “Research Domain Criteria” (di cui parleremo in una prossima Rubrica). “Non abbiamo bisogno del riduzionismo per prendere la biologia seriamente” – scrive Hayes (2016, p. 450), che definisce il riduzionismo “un buco nero intellettuale”.

In linea generale, tutte le terapie della terza ondata mettono in primo piano la dimensione emozionale e relazionale della psicoterapia, lavorando allo sviluppo di competenze da parte del paziente non prettamente cognitive, come l’accettazione della sofferenza, l’auto-osservazione, la compassione verso sé e gli altri, l’osservazione non giudicante: dimensioni psichiche riprese dalla tradizione meditativa di origine buddista (Siegel et al 2012).

Questi cambiamenti in corso nella famiglia cognitivista hanno un antecedente di rilievo in un libro di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti, pubblicato nel 1983 dalla Guilford Press di New York, col titolo Cognitive processes and emotional disorders. Il libro, dedicato a John Bowlby, con cui in particolare Liotti aveva costruito, in quegli anni, un intenso scambio, vinse il premio Guilford per il miglior testo di psicoterapia del 1983. Adesso questo volume è stato per la prima volta tradotto in italiano da Marianna Liotti e curato da Cecilia La Rosa e Antonio Onofri che di Liotti sono stati allievi e amici. La scelta di pubblicare in italiano il libro di Guidano e Liotti, a distanza di 35 anni, non è stata una stravaganza o il rituale omaggio a due studiosi scomparsi: è una significativa operazione culturale, che mostra a tutto tondo il percorso originale che i “due ragazzi” (come li chiama Rita Ardito nella Prefazione all’edizione italiana) provarono a tracciare tra la psicoanalisi classica e il comportamentismo, conferendo al cognitivismo, che pur parve loro la scelta migliore, tratti del tutto peculiari rispetto all’ortodossia che si stava formando in USA e in Inghilterra. Peculiarità che innanzitutto è di tipo teoretico. Di fronte alla povertà teorica del cognitivismo, Guidano e Liotti (ma in particolare il primo) mettono in campo concetti rivoluzionari, provenienti dalla filosofia della scienza della seconda metà del Novecento (Kuhn, Popper, Polanyi, ma soprattutto Lakatos), per cercare di descrivere le dinamiche della mente e la formazione della personalità. L’altro grande serbatoio teorico, cui attinge soprattutto Liotti, sono le ricerche sull’attaccamento di Bowlby. Da questa base esce una visione della mente e della personalità organizzata su un “nucleo profondo, relativamente indiscutibile”, che si forma nelle prime fasi della vita, su cui si costruirà l’“identità personale”, che influenzerà e sarà influenzata da “modelli che anticipano e simulano la realtà” e quindi “regole per l’assimilazione dell’esperienza e procedure di problem solving” (pp. 64-69). In questo contesto, le dinamiche inconsce (conoscenza tacita) e le emozioni entrano a pieno titolo nell’orizzonte dello psicoterapeuta, il cui obiettivo dichiarato, in questo libro, è “lo sviluppo dell’autoconoscenza” da parte del paziente.

Un approccio che, soprattutto ai primi anni ’80, stride fortemente con il cognitivismo e con la sintesi cognitivo-comportamentale proposta dagli inglesi.

Su questa linea, segnalo il numero attuale di Psicobiettivo (n.3/2018) dedicato alla memoria di Gianni Liotti.

NOTE

  1. questo articolo, per comodità, userò come sinonimi “psicoanalitico” e “psicodinamico”, anche se non hanno esattamente lo stesso significato. Anzi, per alcuni, per esempio Mauricio Cortina (2016), la “scienza psicodinamica” è in buona forma a differenza della “psicoanalisi” parcellizzata in Istituti chiusi e ostili “all’integrazione concettuale e scientifica”.
  2. Ora tradotto e pubblicato su Psicoterapia e Scienze Umane 2018, 52: 251-290, di cui Migone è direttore
  3. Guidano V, Liotti G. Processi cognitivi e disregolazione emotiva, Apertamenteweb, Roma 2018

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