La crudele disillusione della morte. Levi, Saba, Borges
10 Mar 19
A cura di Sabino Nanni
In situazioni disperate, quando la vita non offre alcun motivo reale per poterla sentire come vivibile, l’essere umano tende ad aggrapparsi ad inezie, le isola da tutto il resto, ne ingigantisce gli aspetti positivi, e per qualche tempo si convince che, in virtù di esse, valga la pena di “tirare avanti”. Se tali inezie non bastano, egli ricorre alle illusioni, tra cui quella estrema della morte come evento liberatore dalle pene della vita. Talora, paradossalmente, il pensiero che, volendo, si può scegliere di morire è quello che consente di continuare a vivere. A questo proposito (nella disperata condizione dei detenuti ad Auschwitz), scrive Primo Levi:
“È fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più altro nel cuore che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo sempre andare a toccare il reticolato elettrico (…) e allora finirebbe di piovere”
Quella della morte come evento liberatore è un’illusione, e un’arma a doppio taglio. La fine della vita viene fantasticata come recupero della condizione di quiete e beatitudine anteriore alla nascita; non si tratta, in realtà, di uno stato di “non esistenza”, ma di vita intrauterina, quindi pur sempre una forma di vita. Il carattere illusorio di quest’idea è smascherato da Luis Borges nei versi che cito qui sotto. Nell’atmosfera di pace e serenità che il Poeta trova nel cimitero de “La Recoleta”, egli commenta: “Equivocamos esa paz con la muerte Y creemos anhelar nuestro fin Y anhelamos el sueňo y la indiferencia. Vibrante en las espadas y en la pasiòn Y dormida en la hiedra, Solo la vida existe. El espacio y el tiempo son formas suyas, Son instrumentos màgicos del alma, Y cuando ésta se apague, Se apagaràn con ella el espacio, el tiempo y la muerte”
(Equivochiamo quella pace con la morte / e crediamo anelare la nostra fine / e aneliamo il sogno e l’indifferenza. / Vibrante nelle spade e nella passione / e addormentata nell’edera / solo la vita esiste. / Lo spazio e il tempo sono forme sue, / sono strumenti magici dell’anima, / e quando questa si spegnerà, / si spegneranno con essa lo spazio, il tempo e la morte)
Possiamo rappresentarci la nostra esistenza, in qualsiasi forma ce la immaginiamo, solo in un contesto spazio-temporale. Ma, con la fine della vita, cesseranno di esistere anche lo spazio ed il tempo e, con essi, anche quella forma di esistenza cui l’aspirante suicida immagina di accedere dopo la morte. Cesserà, quindi, di esistere anche la “morte” come evento liberatore. Queste considerazioni sono molto importanti nel trattamento di un certo tipo di candidato al suicidio: smantellandogli l’illusione della morte come apportatrice di pace e serenità, egli può arrivare a capire che, in realtà, non desidera la fine della vita, ma una vita priva di tormenti; egli, in ultima analisi, ama la vita.
Tuttavia, queste considerazioni valgono per qualsiasi rappresentazione della morte? Umberto Saba ne dubita:
“Malinconia, La vita mia Amò lieta una cosa Sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa, ch’altro non spero.
Quando non s’ama Più, non si chiama Lei la liberatrice; E nel dolore non fa più felice Il suo pensiero.
Io non sapevo Questo; ora bevo L’ultimo sorso amaro Dell’esperienza. Oh, quanto è mai più caro Il pensier della morte
Al giovanetto, che a un primo affetto cangia colore e trema. Non ama il vecchio la tomba: suprema Crudeltà della sorte”
L’illusione della morte come evento liberatore è, qui, ormai superata. Smantellare quest’illusione, in questo caso, sarebbe inutile, e non avrebbe alcun valore terapeutico. Condizione per vivere la morte come evento liberatore è che la persona, in ultima analisi, “ami” la vita, sia pure una vita particolare, priva di affanni e di tormenti. Ben diversa, e ancor più preoccupante, è la situazione interiore di chi è completamente disilluso, ed “odia” la vita. Qui, il problema terapeutico non è più quello di smantellare un’illusione, ma di cercare nella vita soggettiva e sociale del paziente, oltre che nelle sue convinzioni, qualche motivo reale per cui egli stesso senta che valga la pena di vivere almeno ancora un poco. Compito spesso non facile, soprattutto se il paziente è anziano; tuttavia compito doveroso, e l’unico che ha qualche possibilità di restituire a questa persona ancora qualche tempo sereno. Un tempo di vera vita, e non solo più un’attesa inerte della fine di tutto.
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