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LE DUE TIPOLOGIE DI PTSD: CON E SENZA SINTOMI DISSOCIATIVI. DA UN ARTICOLO DI RUTH LANIUS

31 Mar 19

A cura di AISTED - Associazione Italiana Studio Trauma e Dissociazione

di Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, AISTED, ESTD

Nel DSM-5 il PTSD è definito dalla coesistenza di 4 cluster sintomatologici:

  1. Riesperienza (pensieri intrusivi, flashbacks, incubi)
  2. Evitamento (deficit di memoria, senso di distacco, tentativo di evitare il pensiero di luoghi o di persone associat ial trauma, rinuncia alla socializzazione
  3. Alterazioni negative (umore, memoria, cognizione)
  4. Ipereccitabilità (tendenza a trasalire, ipervigilanza, irritabilità, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione)
L'ARTICOLO

In questo articolo del 2010 scritto da Ruth Lanius collaboratori, pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, viene profilata una sotto-categoria di PTSD a partire dall’osservazione di una serie di evidenze ottenute tramite neuro-imaging su individui affetti da stress post-traumatico. Per dare forza all’ipotesi iniziale, vengono inoltre citati molteplici studi e incrociati molti dati che sembrerebbero delineare, appunto, due tipologie di PTSD.

In particolare si osservarono differenti attivazioni di aree cerebrali coinvolte nella gestione della memoria traumatica, che sembravano rispondere a diversi “stili” di PTSD: con o senza sintomi dissociativi invalidanti. Ipotizzare l’esistenza di una sotto-categoria del PTSD (quella dissociativa) in termini clinici rappresenterebbe un elemento importante per effettuare diagnosi differenziali.

Inoltre, gli sviluppi teorici relativi al PTSD che si rifanno alla teoria polivagale di Stephen Porges, sembrano corroborare la tesi che esistano due tipologie di risposta allo stress indotto dal vivere un trauma:

  1. quella “classica”, con i sintomi da PTSD canonici (iper-arousal e pensieri intrusivi ricorrenti), osservata su soggetti meno “inibiti” dall’effetto modulatore della corteccia mediale prefrontale, che nella gestione della memoria traumatica funziona da filtro (“emotional undermodulation”)
  2. quella “dissociativa”, osservata nei pazienti con maggiore inibizione limbica: in questo caso si osservava un “collassare” delle competenze cognitive, insieme a un generale impressione di “ipoarousal”. Gli autori parlano in questo caso della dissociazione come di una strategia estrema di coping:“The authors suggest that these data support the theory that dissociation is a regulatory strategy invoked to cope with extreme arousal in PTSD through hyperinhibition of limbic regions, with this strategy most active during conscious processing of threat “ (“gli autori suggeriscono che questi dati vadano a supportare  la teoria che la dissociazione sia una strategia di regolazione invocata per far fronte a un arousal estremo nel PTSD, ottenuta attraverso l’iperinibizione delle regioni limbiche -e che questa strategia di fronteggiamento sia più attiva durante un vissuto cosciente di minaccia”).

In senso neuroanatomico, si osserva in queste due modalità distinte di gestione del PTSD, una differente attivazione delle aree cerebrali che hanno l’effetto di modulare l’attivazione limbica in caso di minaccia:

  • nel PTSD non dissociativo, vi sarebbe stata da parte della corteccia prefrontale una sotto-inibizione della fisiologica risposta limbica al senso di minaccia (e da qui il riproporsi del ricordo traumatico altamente intrusivo)
  • nel caso invece del sottotipo dissociativo, vi sarebbe stata una iper-inibizione della risposta limbica (e la risposta dissociativa come diretta conseguenza, con tutti i crolli cognitivi associati -memoria, attenzione, etc.).
COSA SI INTENDE CON DISSOCIAZIONE?

Quando parliamo di disturbo dissociativo parliamo in realtà di un disturbo polimorfo che presenta diverse definizioni e del quale sembra difficile dare un’immagine univoca. Allo stato attuale, esistono due definizioni principali, che distinguono la dissociazione propriamente detta, dalla dissociazione strutturale, come riassunto di seguito.

Distinguiamo:

  1. dissociazione come sintomo (dissociazione di stato): l’esperienza del soggetto è caratterizzata da  discontinuità. Si parla in questo caso anche di detachment. Si può percepire che la persona sia con la mente in un altrove fantasticato o in una sorta di assenza; ci si può accorgere di un simile stato mentale “assorbito” osservando gli occhi, sgranati, di un individuo che ne sia colpito. In questi casi si parla di grounding proprio a indicare l’operazione di riportare la persona al dato reale e presente (per esempio chiedendo al soggetto di nominare degli oggetti della stanza). La dissociazione è presente laddove esistano esperienze non ricordate, cose fatte in uno stato di coscienza alterato senza che ve ne sia ricordo (come le fughe dissociative), oppure quando si parla di de-realizzazione o depersonalizzazione. I teorici del continuum (come appunto Ruth Lanius) sostengono esista un gradiente di gravità dei sintomi stessi, partendo da un senso di straniamento nei confronti della realtà, fino al vissuto di depersonalizzazione (visione di sé dall’esterno) e derealizzazione (incredulità sulla realtà). In quest’ottica i sintomi dissociativi sono quindi gli stessi, sempre, ma posseggono livelli di gravità diversi.
  2. Dissociazione strutturale della personalità (dissociazione di tratto): nel contesto di uno sviluppo traumatico viene prodotta una spaccatura in due o più parti, verticale, della personalità. Si parla in questo caso anche di compartimentalizzazione. Una parte prosegue il suo percorso di adattamento al contesto (parte apparentemente normale, o ANP), l’altra, emozionale (emotional part, EP), rimane bloccata al momento del trauma, permanendo dentro i confini della personalità come una parte immobile e nascosta. Questa teorizzazione è quella presente sul libro Fantasmi nel Sè di Onno Van Der Hart, come qui approfondito.

Parliamo quindi di dissociazione come sintomo, oppure di dissociazione come alterazione della struttura della personalità.

In particolare nella concettualizzazione come sintomo della dissociazione, si ha la forte impressione che il soggetto presenti un’alterazione nella continuità dello stato di coscienza, che appare “intermittente”, mutevole nel caso dell’alternarsi di diverse “parti”, oppure corrotto da “assenze” dissociative.

SOGLIE DI ELABORAZIONE

Gli autori propongono un modello che vede diversi livelli di gravità del PTSD: Lanius, che ha anche scritto questo libro che ho recensito, è d’accordo sul pensare che esista una sorta di meccanismo a “dente di sega” per cui uno stimolo traumatico viene elaborato fino a quando è possibile: il cervello se ne fa carico, ma oltre una certa soglia, vi sarebbe un collasso difensivo mediato dall’intervento “regolativo” della corteccia mediale prefrontale:

The corticolimbic inhibition model postulates that once a threshold of anxiety is reached, the medial prefrontal cortex inhibits emotional processing in limbic structures (the amygdala), which in turn leads to a dampening of sympathetic output and reduced emotional experiencing” (il modello di ibizione cortico-limbica prevede che, quando una certa soglia di ansia venga raggiunta, la corteccia prefrontale mediale inibisca il processamento emotivo a carico delle strutture limbiche, a loro volta responsabili di un abbattimento dell’output simpatico e di un’esperienza ridotta in termini emozionali”)

In questo articolo, inoltre, vengono citati moltissimi altri lavori dove viene delineata la presenza di due tipologie distinte di PTSD, con un funzionamento simile a quello descritto, che andrebbero a corroborare l’ipotesi iniziale.

ASPETTI CLINICI

  • Per quanto riguarda il tipo non-dissociativo di PTSD, in questo articolo viene raccomandato un utilizzo prudente della terapia espositiva (verso una desensibilizzazione al ricordo del trauma).
  • Per quanto riguarda il tipo dissociativo di PTSD, la questione si fa più complessa perchè il quadro dissociativo inibisce, tra le altre cose, la possibilità di apprendere dall’esperienza secondo un modello di condizionamento classico (che è il cuore della terapia espositiva). Gli autori ritengono più utile in questo caso rifarsi al modello “tri-fasico” usato in ambito di psicotraumatologia, qui brevemente sintetizzato.

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