Pur essendo "off topics" rispetto ai temi trattati in questa rubrica, ho ritenuto opportuno chiarire la posizione del sottoscritto riguardo all'applicazione, nella pratica clinica, di quanto viene trattato qui sul piano teorico.
Come si pone uno psichiatra di formazione psicoanalitica (sensibile, come tale, ai suggerimenti dell'Arte) nei confronti della psicoanalisi stessa, della psicofarmacologia, della medicina generale?
Per illustrare la mia opinione (in modo che il lettore sappia con chi ha a che fare quando si confronta coi miei scritti) ho riportato, qui sotto, uno stralcio, tratto da un mio articolo di qualche anno fa (pubblicazione reperibile in http://www.psychiatryonline.it/node/5821 ).
Eccolo:
Per uno psichiatra clinico, come chi scrive, la psicoanalisi è un importante “laboratorio di ricerca” paragonabile alla ricerca sui farmaci. Egli sa che, in entrambi i tipi d’indagine, le condizioni in cui si trova ad operare il ricercatore sono diverse da quelle della pratica clinica corrente: i pazienti, in un ambito di ricerca, sono selezionati in base agli scopi e alle possibilità della ricerca stessa. In ambito psicofarmacologico, trattandosi di testare l’efficacia di un farmaco su di una specifica patologia, i pazienti debbono presentarla allo stato “puro”, senza alcuna forma di comorbidità. In ambito psicoanalitico i pazienti sono selezionati in base alla presumibile efficacia di questo tipo di cura, ossia alla possibilità che i problemi della mente del paziente possano essere risolti dalla mente stessa, senza un’eccessiva interferenza di fattori di ordine somatico o sociale. In altre parole, si tratta di agire su quelle parti della mente che, sia pure con l'aiuto dell'analista, sono in grado di retroagire sul loro substrato neurobiologico, correggendone le alterazioni. Lo psichiatra clinico, viceversa, sa bene di trovarsi quasi sempre di fronte a un “groviglio” di disturbi psichiatrici di diverso tipo, spesso intrecciati con problemi medici generali o assistenziali. È per lui, pertanto, necessario trasporre “cum grano salis” i risultati dei vari tipi di ricerca nella sua pratica terapeutica. Ciò vale anche per la ricerca effettuata da lui stesso: per chi ha portato a compimento un training psicoanalitico, è facile allestire un “laboratorio di ricerca” con pazienti selezionati nel suo stesso ambulatorio. Questo tipo di lavoro è probabilmente il modo più efficace per preservare la psicoanalisi dal pericoloso isolamento in cui la sta ponendo l’ideologia dei “ciechi” della “neurologia dei sintomi mentali”, come la definisce Romolo Rossi [ossia coloro la cui attenzione è concentrata in modo esclusivo sul substrato neurobiologico delle malattie mentali, ignorando, in quanto divenuti "ciechi" di fronte ad essa, la dimensione soggettiva].
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