Distesa e gialla la luce serale,
dolce fresco d’aprile.
Hai tardato molti anni,
pure io ti accolgo felice.
Oggi ho ricevuto un dono imprevisto e sorprendente. A diverso tempo dalla sua pubblicazione, un mio sofferto libro ha destato ancora la curiosità di un’acuta lettrice, che ha avuto la generosità di dedicargli alcune riflessioni. Il volume, da me curato con Gabriela Gabbriellini oltre un lustro fa, parla dello stupefacente fenomeno della trasmissione psichica tra le generazioni, intercettata nel campo analitico dalla coppia al lavoro. Echi di traumatismi antichi, tracce indelebili, ma prive di memoria, incistate e tramandate nel silenzio del corpo. Un tema sempre attuale nella clinica e nella letteratura psicoanalitica.
Donatella Lisciotto, psicologa e psicoanalista siciliana (membro ordinario S.P.I. e I.P.A.), ha voluto rievocare questa piccola opera con delle considerazioni inedite, che qui riportiamo integralmente.
Recensione di Donatella LISCIOTTO
al libro curato da Rita CORSA e Gabriela GABBRIELLINI
Corpo, Generazioni e Destino
(Borla, Roma, 2012)
che allorchè si tenta molto,
molto intensamente di ricordare,
si può ricordare così lontano,
ciò che c’era prima che si fosse nati” (Guerra e Pace, 1865-1869).
Parafrasando le parole di Tolstoj in Guerra e Pace, il libro, curato da Rita Corsa e Gabriella Gabriellini, tratta la dimensione transgenerazionale coniugando vertici diversi.
La struttura del volume è, infatti, variegata dalla combinazione di contributi di rilievo, cifra convincente che conferisce al libro, spessore e inquietudine, e che culmina nell’azzeccata citazione di Borges, a chiosa dell’introduzione. Il destino dell’uomo è segnato dall’orrore e dal terrore di dover riconoscere di essere solo il sogno di un altro, che sogna un sogno non suo (Borges, 1941). Di generazione in generazione.
La carrellata comincia dal corposo contributo teorico di Giorgio Bubbolini che illustra come già Freud lavorava sull’ “idea di una trasmissione transgenerazionale e trans-individuale”; inizialmente occupandosi dell’aspetto ereditario (1912-13), successivamente (1921a, 1921b, 1932) a quello connesso alla telepatia, alla chiaroveggenza e all’occultismo, per arrivare al narcisismo, culminando col concetto dell’ “io ideale”.
Alberto Meotti, nel descrivere il transgenerazionale, si sofferma sul concetto di destino mettendolo altresì in relazione con l’accettazione della passività. L’efficacia della disamina dell’Autore è pari alla grande suggestione che riesce a realizzare e che, a tratti, comprende una potenza evocativa che coinvolge il lettore nella possibilità di raggiungere una profondità di contenuti, non appesantita da riferimenti teorici, piuttosto resa semplice e toccante dalla capacità dell’Autore di trattare un tema così complesso sostenuto dall’abitudine al contatto con profondità, proprie e altrui, che conforta il lettore e rende facile la comprensione.
Secondo Meotti la coppia analista-paziente si configura come “articolazioni complesse di componenti individuali, singolari e irripetibili, e di componenti derivate non da una o da due generazioni, ma da una pluralità di generazioni”. In questo modo nella relazione transfert-controtransfert si riversano, “esperienze, energie, oggetti sia personali che gruppali, positivi e negativi” che impegnano la relazione, abitandola continuamente; componenti che “trascendono la vita dell’analizzando e dei suoi genitori e che includono un numero indeterminato di altre vite, con i loro molteplici traumatismi”.
La relazione terapeutica, secondo questo vertice, deve necessariamente tenere conto, della presenza di “ombre” provenienti da un passato anche molto “passato”, quando ancora il paziente non esisteva neanche.
La molteplicità dei traumatismi che si rincorrono nel tempo passando da una generazione all’altra, comprende perciò, non soltanto il destino del singolo ma anche dei gruppi.
Meotti per comunicare efficacemente il topos dell’argomentazione, usa le parole del poeta:
“Quel che hai ereditato dai tuoi padri,
guadagnatelo, per possederlo.
Quel che non giova è un carico pesante” (Goethe, 1808).
Il transgenerazionale è pertanto da intendersi “carico” di un traumatismo ereditato, anche, da “gruppi interni sconosciuti” che si aggiungono alle “freudiane ombre dei genitori”.
La via d’uscita è, dice Meotti, “disporsi al dolore della scoperta e della memoria”. L’analizzando si viene così a trovare in uno stato di resilienza, una condizione nuova, nella quale può, opporsi alla passività del destino. In questo cammino è aiutato dal “desiderio di conoscenza di sé stesso (che) si estende e si allarga dapprima verso ciò che è prossimo, poi sempre meno prossimo, verso l’infinito dell’Altro. Esce dai confini soffocanti del narcisismo e si dirige verso il mondo della vita, la natura, le scienze, la storia, i continenti, le lingue”.
Un altro fattore è “la percezione della bellezza”. “Si tratta dei derivati estremi della percezione primaria della bellezza delle forme del seno, del volto, del corpo materni, di esperienza estetica della sua potenza vitale”. E infine la “capacità di amare e di lavorare” che sembra originarsi dall’esperienze delle prime percezioni intrauterine della voce e del ritmo cardiaco materni”.
Si legge scorrevolmente e in maniera avvincente, l’articolo di Claudia Zanardi.
L’Autrice esamina il transgenerazionale in riferimento al corpo femminile inteso come “contenitore di identità, e origine di nascite”. “Il cordone ombelicale – dice Zanardi – tagliato alla nascita, rimane nel segno, un testimone del legame tra generazioni, un segno nel corpo della storia dell’umanità, che ha origine nel ventre materno”.
La disamina trae spunto dalla lettura magistralmente realizzata in chiave psicoanalitica, del film Il cigno nero, laddove è possibile, secondo l’analisi della Zanardi, individuare la differenziazione dalla madre come elemento vitale poiché identitario. “Il cigno nero rappresenta la differenza e la rarità, (…) quella differenza dalla madre che se non è riconosciuta, priva la figlia di quella sensazione di essere unica, individuata nella mente della madre, che le permette di raggiungere una propria identità”. Suggestiva la distinzione tra “l’essere bambine/cigni bianchi, figlie fedeli della madre” e “l’essere donne/cigni neri, unici, diversi dalla madre e riconosciuti da lei e dal padre”.
Zanardi ricorda come le storie di molte donne persistono nel mancato riconoscimento di un sé differenziato da quello della madre e come, in alcuni casi, tale differenziazione avvenga, seguendo performance inconsapevoli, attraverso trasgressioni ai valori materni o ricorrendo a una sessualità promiscua.
Estremamente fruibile il contributo di Carla Busato Barbaglio che, si sofferma su un interessante materiale clinico tratto, anche ma non soltanto, da protocolli di baby observation. La sua acuta e approfondita analisi del transfert e del controtransfert vede l’analista, oltre che l’analizzato, impegnato a sua volta a confrontarsi con istanze transgenerazionali che vanno riconosciute e contestualizzate per poter avere una destinazione d’uso utile, che possa essere addirittura una ricchezza per l’individuo piuttosto che un limite.
“Il trans generazionale (…) è ciò che arriva nell’oggi della relazione e ci chiama a risposte o vitali o ripetitive”, e ancora “(…) ciò che passa nel lavoro d’analisi richiede una mente aperta alla conoscenza di come si muove la vita nella sua completezza con persone a cui il cosiddetto transgenerazionale, che è la storia di noi tutti, nella ricchezza e nei limiti, ha creato problemi o limitazioni di vita”.
Corsa e Gabriellini, danno del transgenerazionale una lettura che provoca turbamento e lievemente smarrisce poiché apre all’imponderabile. Esse descrivono come il segreto traumatico, inelaborato e tramandato, possa insinuarsi nel corporeo, come a infettarlo, fino a svilupparne la malattia fisica.
“Il territorio somatico – dicono le Autrici – può essere il luogo dove il fantasma transgenerazionale si incista, rinnovando implacabilmente il trauma originario”. E ancora, esplorando la “costellazione relazionale” che ruota attorno ai trapianti, ne illustrano i risvolti inquietanti nell’intrapsichico, generati dall’intreccio di provenienze oscure e ingravescenti. È allora che “l’analista può incontrare frammenti di realtà psichica che sembrano non appartenere ad alcuno e che paiono provenire da pianeti lontanissimi”.
I casi clinici riportati si soffermano sul peso delle condizioni reali, non già fantasmatiche, che gravano su un corpo alle prese con un’energia, che irrompe e presenzia e che può provocare la necessità di una ricontestualizzazione del Sé, narcisisticamente molestato o addirittura danneggiato.
“Quali sussulti, quali ribaltamenti, quali tsunami deve fronteggiare l’identità somatopsichica, quando il simbolico viene squassato da una psiche che sottostà alla metamorfosi della carne?”. Questo aspetto comporta, necessariamente, una rivisitazione dei vissuti transfert/controtransferali della coppia analitica che si trova, adesso, alle prese con “un tumulto emotivo che sconvolge l’asse bipersonale” (Corsa, 2011). “L’intruso”, infatti, “non crea soltanto caos, ma introduce codici oscuri e intraducibili che alterano la lingua madre. Le voci Altre impongono una nuova alfabetizzazione”. “In tali frangenti, quale alchemica trasformazione deve operare la mente dell’analista?” – si chiedono le Autrici. La risposta arriva con la leggerezza e la potenza che solo il sogno include: “All’interno del campo bipersonale (…) si può iniziare a sognare quello che era morto ed irrecuperabile: la coppia al lavoro può sperimentare, allora, la stupefacente esperienza di rendere feconde le contaminazioni straniere, trasformandole in oggetti relazionali, rivitalizzati, integrati e resi familiari”.
Ezio Maria Izzo, tratta il tema del transgenerzionale nell’Istituzione Psicoanalitica e riesamina l’annosa questione Freud-Ferenczi, nonché l’inspiegabile assenza di quest’ultimo, a posteriori, nello scenario psicoanalitico; ripercorrendo il rapporto intenso, dei due psicoanalisti e, nella considerazione del valore di Ferenczi, anche riconosciuto dal Maestro, Izzo si chiede: “Come può spiegarsi questo silenzio, questa negazione di una presenza così importante? (…) come può spiegarsi una negazione durata così a lungo e il tanto discredito gettato sulla persona di Ferenczi?”.
La sua tesi è centrata sull’esistenza di “invidie inconsce” non analizzate.
L’invidia per l’allievo preferito dal Maestro si tramandò di generazione in generazione proprio per la presenza muta, poiché emotivamente inavvicinata e pertanto inelaborata, del desiderio di esclusione del “prediletto”, ponendo in essere la sua conseguente delegittimazione. Un caso analogo si è ripresentato in un’altra nota coppia analitica, stavolta al femminile; quella formata da Melania Klein e Paula Heimann. “Il caso di Paula Heimann – aggiunge Izzo – mostra come l’invidia e la conseguente lotta per il potere abbiano trasformato la formazione in affiliazione familistica”.
Dietro il rapporto personale tra le due donne, entrambe afflitte da un lutto significativo, che dispiegava il formarsi di un transfert materno impegnativo, faceva da sfondo uno scenario storico di grande impatto. Com’è noto, all’interno della comunità psicoanalitica britannica si realizzò una spaccatura provocata dalla presenza massiva di psicoanalisti provenienti dalla Germania, che, in fuga dal pericolo del nazismo, si rifugiarono nella vicina Londra. Questa mistura comportò, nel tempo, una contaminazione di modelli psicoanalitici e la formazione di gruppi, sempre più simili a fazioni.
“L’invidia tra i gruppi contrapposti – scrive Izzo – spinse non pochi analisti a rompere le appartenenze ai gruppi, a essere cioè Indipendenti, l’unico modo per interrompere la catena della trasmissione di ‘trapianti estranei’ tra le generazioni di analisti”.
Il contributo di Izzo è straordinariamente attuale, nella considerazione che ancora oggi possono essere presenti, nell’istituzioni psicoanalitiche, quelle “intropressioni”, (giudizio esterno imposto con troppa forza che incide profondamente sulla visione della realtà del soggetto), quei “trapianti estranei” che rendono alcune comunità psicoanalitiche prive e lontane dalla loro contemporaneità, piuttosto regimentate dalla visione psicoanalitica dei Padri che, simili a miti, “indeboliscono l’uomo” (P. Perrotti) limitano l’originalità, la creatività e l’espansione del pensiero, la “percezione della bellezza, il desiderio di conoscenza di sé, la capacità di amare e di lavorare” di cui parla Alberto Meotti.
Appare “l’ombra dei gruppi interni sconosciuti”.
“Dobbiamo ancora oggi chiederci se possiamo considerare interrotta la catena di trasmissione transgenerazionale di quel trauma originario nella storia della psicoanalisi che fu la confusione delle lingue tra Freud e Ferenczi e le successive dinamiche di potere motivate dall’invidia.
Ancora oggi può accadere che (…) ci si trovi nella necessità di doversi conquistare uno spazio da indipendenti, per non rimanere imbrigliati in confuse eredità transgenerzazionali chiuse su difese comparative che conducono la teoria alla scolastica e la pratica alla ritualità. In futuro l’impegno dei giovani dovrà essere per una continua elaborazione di quelle traumatiche vicende originarie, comprendendone le ragioni profonde e arricchendo in tal modo il senso di responsabilità dell’analista”.
Bibliografia
Borges J.L. (1941). “Le rovine circolari”. In: Il giardino dei sentieri che si biforcano. In: Finzioni. Mondadori, Milano 1974.
Corsa R. (2011). Se la cura si ammala. La caducità dell’analista. Kolbe, Seriate (BG).
Freud S. (1912-13). Totem e Tabù. O.S.F., 7.
Freud S. (1921a). Psicoanalisi e Telepatia. O.S.F., 9.
Freud S. (1921b). Sogno e Telepatia. O.S.F., 9.
Freud S. (1932). Introduzione alla Psicoanalisi. O.S.F., 11.
Perrotti P. (1975). Quadrangolo, anno 2, n° 2.
Tolstoj L.N. (1865- 1869). Guerra e Pace. De Agostini, Novara, 1983.
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