Prosegue qui il ragionamento iniziato con : Fabbricanti di cronici. 1. La cronicità come fenomeno multideterminato (vai all'inizio seguendo il link) dopo che un evento interessante ha avuto luogo tra la pubblicazione della prima e quella della seconda parte di questa riflessione: l’EXPO della salute mentale, sul Centro diurno, tenutosi a Roma dal 9 al 12 maggio. E questo ha a che fare con il nostro ragionamento perché, come ho avuto modo di sottolineare in quell’occasione, il Centro diurno è uno strumento certo di prevenzione della cronicità, perché consente di limitare l’istituzionalizzazione a una parte della giornata lasciando che per il resto si svolga nei luoghi e modi naturali, e così non “spezza le antenne” al soggetto, preservandolo come scriveva Frantz Fanon già nel 1959. Ma è anche un luogo a rischio di diventare, come le strutture h24 e lo stesso domicilio, alla lunga luogo di possibile nuova cronicità.
1. Reggere la frustrazione
Richiamati nella prima parte di questo contributo alcuni dei fattori coinvolti nell’evoluzione in cronicità delle malattie mentali, vorrei affrontare ora i possibili aspetti iatrogeni della cronicità psichiatrica a partire da due brani tratti dalle storia della psichiatria. Il primo risale all’inizio del XVIII secolo, e riguarda le emozioni di un medico di fronte alla difficoltà incontrate nel tentativo di guarire una giovane paziente affetta da un disturbo alimentare. L’altro risale alla fine del XIX, e riguarda le emozioni di uno psichiatra di fronte alla constatazione che la sua psichiatria, quella del manicomio, non stava funzionando.
Nel 1716 un medico che insegnò presso gli Studi di Parma e Padova, Pompeo Sacco, scrive nel trattare il caso di una ragazza affetta da pica: «Se il difetto del fantasma [cioè dell’idea] è tenace, o la fibra [cerebrale] è modificata in modo fermo, non può risentire degli aiuti dell'arte sanitaria; bisogna quindi provare se il difetto sia negli umori o negli spiriti, con la proposta di medicine; se queste non giovano, penso che l'ammalato debba essere abbandonato a se stesso».
Mi pare che questo passaggio sia interessante per due ragioni. In primo luogo, perché affronta il problema di cosa fare se il malato non guarisce. E’ un problema che accompagna tutta la storia della psichiatria e viene affrontato, molto più recentemente, da Arnaldo Ballerini, il quale scrive nel 1991: «Il malato che non guarisce» – il paziente che Fabrizio Asioli nel 2004 proponeva di definire “ingrato” perché non premia i nostri sforzi migliorando cioè – «pone a dura prova l’operatività dei Servizi Psichiatrici, ma è anche il terreno fondamentale della loro validità e l’area essenziale della loro formazione, non fosse altro attraverso una riduzione della micro-maniacalità, riduzione che dovrebbe caratterizzare il lavoro psichiatrico». Altrettanto pericoloso, però, può essere secondo lo psichiatra fiorentino lasciarsi paralizzare dal pessimismo e dalla depressione: «il gruppo operativo si misura sulla quantità e sul tipo di progetti, fantasie e realizzazioni tecniche che riesce ancora a produrre nei confronti del paziente cronico. Mi sembra cioè che l’essenziale di ogni procedura in questo campo sia la possibilità di non espellere la frustrazione infertagli dalla cronicizzazione psicosica, ma continuare a mantenere vivo lo psicotico cronico nella mente degli operatori».
L’abbandono del paziente che si avvia verso la cronicizzazione, dunque, è un’istanza che di fronte alla difficoltà e al sentimento di insuccesso tutti possiamo avvertire, come il nostro antico collega parmigiano; forse però, meno ingenui e onesti di lui, siamo più in difficoltà ad ammetterlo a noi stessi. Così, la cronicità rischia di diventare una profezia/prognosi che si autoavvera e, come scrive Borgna nel 1995: «Una condizione psicotica, definita cronica, si fa immediatamente nel vissuto di ciascuno di noi un’esperienza senza speranza: segnata da una condanna irrimediabile e incancellabile».
E’ un meccanismo emotivo che può interessare il singolo operatore, com’era Pompeo Sacco; il gruppo curante, del quale parla Ballerini; e anche gli amministratori e i politici. Alcune delle pagine più drammatiche della storia della psichiatria, quelle che portarono allo sterminio dei malati di mente sotto il nazismo ad esempio[i], sono legate proprio a questo sentimento di resa, di perdita di speranza di fronte alla pervicacia che talvolta sembra mostrare la malattia.
Ma lo stesso sentimento, ribaltato, ha portare ad altre scelte dagli esiti ugualmente nefasti: trovare a tutti i costi la soluzione che funzioni e funzioni presto, per bandire il fantasma della cronicità che alberga, talora inconsapevolmente, nel nostro cuore e ci condiziona. E credo che il successo altrimenti incomprensibile di tante terapie “violente” che hanno preso piede, cavalcando il culto della modernità e dell’efficienza, in alcune fasi della storia della psichiatria – penso alla psicochirurgia o alle terapie di shok ad esempio – trovi forse la sua ragione nel tentativo di fuggire il fantasma della cronicità, del prolungarsi dagli esiti incerti del trattamento, dell’impotenza terapeutica.
Eliminare o rischiare il tutto per tutto per guarire violentemente, infondo, sono due facce della stessa medaglia e forse non per caso sono due atteggiamenti che si sono fatti egemoni nel dibattito negli stessi decenni della nostra storia.
Perché confrontarsi con il rischio, o la realtà, della cronicità delle situazioni delle quali ci si occupa è un compito faticoso e impegnativo. Per i sistemi di cura, e per i singoli operatori; e come scrive Ballerini nel 1991 è un problema che, anche se in modo meno radicale e drammatico, pesa sempre sulle nostre scelte: «Si ha l’impressione che in molte progettazioni attuali dell’assistenza psichiatrica la parola “cronicità” sia una parola sporca, sulla quale soffermarsi il meno possibile (..). La vicenda della cronicità in psichiatria è inestricabilmente una vicenda psicosociale, nella quale disturbo psicopatologico intrapersonale e rigetto interpersonale, etero ed autoespulsione si mescolano, acuendo le emozioni che sottendono questi movimenti: nel paziente, nella gente, negli psichiatri e negli amministratori».
Ma c’è un secondo aspetto per il quale la breve osservazione di Pompeo Sacco mi pare interessante e moderna: ed è che a spingere all’abbandono del soggetto da parte di chi lo cura non è solo la constatazione che il difetto del fantasma sia “tenace”, cioè l’insuccesso. Perché dietro ad essa fa subito capolino l’idea che il difetto possa non riguardare gli umori o gli spiriti, cioè la parte dinamica e modificabile del corpo, ma la granitica “fibra” (l’organo cerebrale, i geni) che non può essere affrontata con le erbe (quanto ad affrontare il problema con le parole e con la relazione, manco a parlarne, ma è la medicina del Seicento[ii]). Come a dire che di fronte alla constatazione che non siamo capaci a guarire, l’ipotesi che è impossibile guarire perché il problema è un dato biologico immodificabile giustifica da un lato l’insuccesso, e dall’altro la rinuncia a continuare.
E già per il nostro antico collega, quindi, era essenziale per evitare l’abbandono della paziente la domanda che Beppe Tibaldi, ancora sulla RSF, ritiene essenziale che ci poniamo di fronte a una situazione che rischia di evolvere verso la cronicità: «Mi occupo di malati con il cervello bacato, o di persone in una fase difficile del proprio percorso esistenziale?».
E passiamo quindi al secondo brano che vorrei proporre. I manicomi, nati all’inizio del XIX secolo come “macchine per guarire” (come macchine dunque anche per contrastare l’evoluzione in cronicità), si sono fondati sull’idea che strappare il soggetto alle sue relazioni familiari e sociali – al “quotidiano”, alla vita normale, quella di tutti, un tema sul quale ho avuto modo di soffermarmi tempo fa[iii] e che è stato approfondito a Rivoli da Sandro Ricci insistendo sul concetto basagliano della cura come confrontarsi con persone reali nel mondo reale – per portarlo in una situazione artificiosamente “terapeutica”. Ma fin dai primi decenni, con l’aumentare graduale e inesorabile dei ricoverati in tutte le situazioni nelle quali i manicomi sono stati aperti, era sotto gli occhi di tutti che lungi dal prevenire la cronicità contribuivano a determinarla. E così évariste Marandon de Montyel[iv], direttore dei manicomi del dipartimento della Senna, scriveva nel 1876: «con i loro muri di prigione o di chiostri, le loro disposizioni regolari e simmetriche, sono, per un numero molto grande d'alienati, delle fabriche d'incurabili e noi, con l'isolamento che imponiamo ai nostri malati, la vita da reclusi alla quale li condanniamo, la disciplina severa che imponamo loro, siamo in un gran numero di casi, incoscientemente e con le migliori intenzioni del mondo, dei fabbricanti di cronici ».
L’esperienza di questi anni di lavoro nei servizi mi spinge a chiedermi se, a quarant’anni dalla chiusura del manicomio in Italia e dopo quarant’anni di pratica psichiatrica nel territorio, non dobbiamo porci anche noi la stessa domanda. Se cioè non siamo anche noi, a quarant’anni di distanza dall’ultimo nuovo ingresso in un manicomio italiano, dei fabbricanti di cronici.
Perché il manicomio non è un luogo, ma una mentalità che può riprodursi, anch’essa cronicamente – e dobbiamo quindi interrogarci, come ha fatto Rocco Canosa a Rivoli dando idealmente seguito al mio intervento, anche su una tendenza alla cronicità della psichiatria e dei Servizi, che possono diventare cronici e generare cronicità – di fronte allo stesso oggetto, la follia, in situazioni diverse: ciò che rimane immobile, non ha dinamismo, è manicomio; sono manicomio le relazioni date una volta per tutte; i luoghi chiusi, asfittici, totali; i Servizi che rinunciano ad abitare nel territorio, visitando a casa i pazienti e operando per costruire per/con loro nel/col territorio opportunità di lavoro e di vita; i Servizi dove il ruolo è dato per scontato a priori a segnare distanze incolmabili, e non è oggetto continuo di contraddizione e di negoziazione. Sono manicomio i Servizi e i luoghi dove si scambia la noia per la cura; e quelli dove lo sguardo è rivolto più a burocrazia, procedure, protocolli, diagnosi[v] che al respiro della persona e diventa perciò uno sguardo cronico e cronicizzante, come scrive Paola Schiavi sulla RSF. E’ manicomio il lavoro che svolgiamo con disillusione e con stanchezza senza la generosità di mettere il cuore nelle cose, negli incontri, e senza il coraggio di gettare, a volte, il cuore oltre gli ostacoli[vi]. Condivide con il manicomio le dimensioni della disperazione e dell’esilio anche la rinuncia alla presa in carico che porta all’abbandono, dentro le strutture, o fuori per le strade, ma anche nelle case dove può prendere piede quel fenomeno che Racamier chiama dei pazienti familiasilari.
In tutte queste situazioni, mi pare che la cronicità trovi il suo nuovo brodo ideale di coltura, che un tempo trovava dentro il manicomio.
Così, non stupisce che Beppe Tibaldi, ancora nel contributo ricordato, possa ritrovare visitando alcune delle nostre strutture, che costituiscono spesso il terminale del fallimento dei nostri trattamenti, la stessa atmosfera che Alda Merini descrive in una poesia dedicata al manicomio[vii]: «Mi sono chiesto perché la trovo così attuale e la risposta l’ho trovata tante volte, in questi ultimi anni, quando sono entro in strutture residenziali che si autodefiniscono riabilitative: le panche sono state sostituite dai divani e la terra dallo schermo della televisione, ma la passività si respira nell’aria e ripropone l’odore di legno di cui parla la poesia».
Perché se, certo, ancora per Saraceno del 1995: «Il paziente che non ce la fa ad essere riabilitato (o che non si adatta al programma di riabilitazione offerto da quel servizio) entra in un anello più basso del servizio. Il servizio (cattivo servizio) è, infatti, un insieme di luoghi fisici separati destinati a verificare la profezia secondo cui chi non ce la fa non ce la farà», è chiaro che la residenzialità, approdo definitivo e non più snodo di un percorso, rischia di diventare di questi anelli, l’ultimo. Il luogo che accoglie la cronicità prodotta altrove, e rischia di consolidarla definitivamente. E questo avviene per responsabilità molteplici:
– del soggetto: che magari era anche inizialmente riluttante, ma poi si abitua a quella “protezione” che, se può essere indispensabile in una certa fase, può però trasformarsi, come nella vita di tutti, in una condizione dalla quale ci si sente accolti ma nella quale, con lo scorrere del tempo, si adagia;
– delle famiglie: che sono arrivate spesso allo sbocco residenziale esasperate da anni di attesa e insufficiente coinvolgimento e aiuto al domicilio. Così, non stupisce se il peso della malattia e del suo protrarsi grava sulla famiglia, che può trovare nei ricoveri protratti (cronici) conferma dei propri peggiori timori, finché, come scrive Borgna nel 2017: «Legge psicologica antica, e attuale, è quella che, a mano a mano che una degenza si prolunga nel tempo, nei familiari cresca la tendenza, alimentata dalla paura e dal pregiudizio, dalle preoccupazioni e dall’angoscia, a considerare i malati perduti ad ogni speranza, e a lasciarli in ospedale»[viii].
– degli operatori dei Servizi: per i quali pure vale questo meccanismo descritto da Borgna, e trovata dopo tanto una soluzione per i casi più gravosi possono sentirsi spinti a considerarla definitiva anche dalla necessità investire su altre situazioni che si presentano sotto il segno dell’urgenza e sono perciò ineludibili, o che danno la sensazione di avere prospettive più favorevoli (è giusta l’enfasi di questi ultimi anni sulla presa in carico intensiva all’esordio, ma non dobbiamo dimenticare che, come ci ricorda Tibaldi nel commentare il bel libro di Ken Steele sulla sua esperienza di malattia[ix], esiste anche un diritto dei pazienti “cronici” alle seconde occasioni, e alle terze, alle quarte… perché la proverbiale coperta non lascia al freddo nessuno);
– degli operatori dell’SPDC: che trovano una soluzione ai problemi del revolving-door e dei ricoveri prolungati, pressati, anche loro, dall’urgenza del turn-over sul posto letto;
– degli operatori delle strutture: che corrono il rischio di cadere nel mito “comunitario” e nella trappola di considerarsi il “luogo ideale” per il soggetto, colludendo così con i suoi aspetti più regressivi, le insicurezze, la perdita della consapevolezza che l’artefatto istituzionale, anche quando è dorato, non può rappresentare una soluzione per la vita.
Questo ragionamento ha preso le mosse dalla definizione della cronicità data dall’OMS nel 2005, e a quel documento vorremmo ritornare per trarne alcuni suggerimenti. Per l’OMS, infatti, i pazienti in condizione cronica necessitano di una presa in carico che enfatizza, nella prospettiva longitudinale, la prevenzione. Occorre vigilare quindi sulla prevenzione a due livelli: prevenire in primo luogo l’insorgenza della condizione cronica – intervenire cioè sul “destino di cronicità” che sembra caratterizzare alcuni pazienti “difficili”, come scrivono Santambrogio e coll. sulla RSF; e prevenire le possibili complicanze della condizione cronica attraverso un trattamento e una presa in carico ottimali delle condizioni croniche una volta insorte, insistendo sulla responsabilizzazione del paziente e la collaborazione con lui attraverso una comunicazione che includa un dialogo interattivo tra pazienti e operatori sanitari, dove l’ascolto è altrettanto importante di ciò che si dice. E quindi: approccio orientato al paziente; disponibilità di abilità comunicative utili a collaborare con il paziente, i colleghi e i soggetti terzi; miglioramento continuo di sicurezza e qualità delle cure; capacità di monitoraggio del decorso anche attraverso strumenti tecnologici; capacità di includere la cura e la valorizzazione del ruolo del paziente in una più vasta prospettiva di salute pubblica, aperta a cogliere la complessità e attenta alla continuità terapeutica.
Quanto a Tibaldi, ancora sulla RSF, propone quattro cose che è importante evitare nella comunicazione col paziente, ma soprattutto – credo – nella rappresentazione interna che ci facciamo di lui: comunicazioni pessimistiche sulla possibilità di un futuro superamento dell’esperienza psicotica, di una futura guarigione (come l’analogia schizofrenia/diabete); dominio delle teorie biologiche, che implicano perdita di curiosità per la storia e il contesto e sfiducia nelle potenzialità della cura; proposte da subito invalidanti (la pensione ecc.); proposta di trattamenti «a tempo indeterminato» o «per tutta la vita» (e Paola Carozza, sempre sulla RSF, riprende la letteratura sulla recovery per mettere esplicitamente in guardia dall’eccessivo timore di creare aspettative illusorie che informa spesso le nostre comunicazioni, facendoci procedere da subito, noi e il soggetto, con il freno tirato. Perché se, certo, le aspettative illusorie possono fare danni, anche per i danni delle aspettative negative servirebbe la stessa attenzione).
Conclusione
Sia chiaro, con queste osservazioni non intendo certo buttare la croce su noi operatori dei servizi. Che molto spesso ci troviamo ad operare davvero, come scriveva in altro contesto Luigi Cancrini, come “temerari sulle macchine volanti”, che ci troviamo ad affrontare problemi moltiplicati da una (giusta, ma rivelatasi molto impegnativa) maggiore interfaccia con il sistema giudiziario avendo a disposizione risorse più limitate, che ci sentiamo abbandonati da una società nella quale i valori solidali sembrano essersi fatti più pallidi in questi quarant’anni, che ci sentiamo stretti in una organizzazione dei servizi impacciata da errori che in questi anni sono stati commessi nella programmazione, o nella rinuncia a programmare (per un ricordo personale dei primi anni dei servizi si veda il recente ricordo pubblicato da Buscaglia e Pezzoni su Pol. it; e sullo stato attuale dei servizi rimando alla bella intervista di Gerardo Favaretto a Fabrizio Starace, su Pol. it). E che, credo nella maggior parte dei casi, cerchiamo di fare il nostro meglio per tenere chiusi i manicomi e aiutare le persone a stare nella città con tutte le difficoltà che questo comporta. Né intendo dire che è tutto nero quello che facciamo; infondo, le nostre pratiche spesso hanno successo e in molti casi gli sforzi congiunti delle persone, le famiglie e gli operatori riescono ad evitare che la cronicità diventi destino anche in presenza di situazioni cliniche molto complesse.
Pure, se ci sono stati errori di sistema che hanno preso piede nelle nostre pratiche e nelle nostre culture in questi anni, credo che sia giusto ragionarci per evitare di continuare a farli, e per vedere come porvi rimedio.
E così, al termine di questo certo rapsodico e solo suggestivo ragionamento sulla cronicità, mi pare lecito ritornare a porci la domanda che poneva Luc Ciompi; se, cioè, la cronicità sia un artefatto terapeutico. A volte, riflettendo sul nostro impegno, ci viene in mente che molte cose potrebbero/dovrebbero essere diverse perché esso potesse dare tutti i propri frutti. Il CSM dovrebbe essere strutturato in modo diverso, diverse dovrebbero essere le modalità di accoglienza in ospedale, di organizzazione della residenzialità e dell’abitare, diverse e maggiori le opportunità di inserimento/ritorno al lavoro. Così, una risposta laica e priva di connotazioni ideologiche può essere che, forse, è possibile che, in determinate condizioni (di forza della malattia e debolezza della reazione del paziente, o di contesto), alcune malattie mentali possano andare ineluttabilmente incontro a un destino di cronicità.
Ma, prima di ammettere questa ipotesi, mi pare necessario chiederci, quando uno dei nostri pazienti è in questa situazione, se siamo certi di avere avuto la possibilità sostenerlo sufficientemente nel suo sforzo di resisterle e di averlo fatto, di averlo informato, di esserci alleati con lui; se siamo certi di fare tutto il possibile per garantirgli il massimo supporto da parte della famiglia e della società; se siamo certi di operare in modo tale da garantirgli tempestivamente e costantemente tutto il supporto terapeutico che gli è necessario, e proteggerlo dai rischi di cronicizzazione iatrogena che possono inavvertitamente accompagnare il nostro intervento.
E solo se la risposta a queste tre domande sarà positiva – e, almeno per il mio caso, mi sento molto lontano da questo – potremo, forse, cedere di fronte all’evoluzione in cronicità, convinti che davvero non si possa fare di più.
Nel video allegato: Roberto Vecchioni: "Canzone per Alda Merini"
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