non sei più chi sei stata
ed è giusto che così sia.
Ha raschiato a dovere la carta a vetro
e su noi ogni linea si assottiglia.
Pure qualcosa fu scritto
sui fogli della nostra vita.
Metterli controluce è ingigantire quel segno,
formare un geroglifico più grande del diadema
che ti abbagliava.
Non apparirai più dal portello
dell’aliscafo o da fondali d’alghe,
sommozzatrice di fangose rapide
per dare un senso al nulla. Scenderai
sulle scale automatiche dei templi di Mercurio
tra cadaveri in maschera,
tu la sola vivente,
e non mi chiederai
se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione
e chi di noi fosse il centro
a cui si tira con l’arco dal baraccone.
Non me lo chiedo neanch’io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.
Eugenio Montale
Caro Dottore,
Che sia buona vita.
Nè bella nè brutta, solo buona.
E c'è bellezza in ogni cosa, quando smetti di raccontartela.
E la bellezza sta nella pace prodotta dal tener insieme ciò che hai conquistato duramente e ciò che hai perduto per sempre. Questo equilibrio di tenuta esplode in una postura non sublimatoria ma direi in un affinamento percettivo di ciò che è restato di te.
Una percezione limpida e cristallina, una visione intera.
La maturità con le sue più nobili imperfezioni scava linee di tenuta stabile, rocce.
Intero è anche il dolore. Lui crea la tua scissione ma anche la tua "sutura", la tua "statura" come persona.
Ogni giorno la vita ci obbliga alla perdita.
Raccontarsela è arte tenera di sopravvivenza, mondo possibile, riparo dal troppo abbagliante di buio.
Da acerbi uomini grandi emozioni, grandi idee, grandi amori infranti su assenze di statura di incontri.
Da adulti ridimensionamento del proprio ideale oppure creazione di mera illusione.
Oppure possibilità di guardare in faccia ciò che non sarà più rimanendo fermi senza protezione.
Alcuni di noi sono destinati a non poter raccontarsela e ad attraversare con i propri pazienti zone franche dell'inconscio.
La parola poetica nasce non per volontà ma come residuo di un lavoro di sofferenza di ricerca di quella parola che possa fare uscire l'incontro sublime tra forma e contenuto. Un incastro tra ciò che senti e ciò che sei.
La capacità di cura nasce come residuo di un lavoro metodico su se stessi in un'analisi continua della propria vita attraverso l'altro.
La capacità di cura è anche dono della propria storia di sofferenza, un destino.
Il raccontarsela ha sempre un'alternativa, una fuga. Una buona fuga.
Ma quando il raccontarsela diventa il raccontarla ad altri allora la questione diventa più seria perché l'illusione è solo riparo dalla paura, la propria. Lì la cura fallisce, lì la cura non trova la tua verità.
Una buona cura ci lascia quel tanto di illusione che ci permette di andare avanti ma non chiude mai la porta a ciò che naviga in fondo a noi stessi.
La mia porta non è mai stata chiusa, Dottore.
Quando illusione coincide con realtà sappiamo esserci un dolore insostenibile ma chi sa curare quella paura della visione intera di se stessi la sperimenta e la usa come un ingrediente segreto.
L'agente terapeutico forse è proprio questo, capacità di sostenere il nostro sguardo davanti alle scabrosità delle storie che ci raccontiamo e che ci raccontano.
Ogni menzogna dell'Altro è anche una nostra menzogna, ogni verità dell'altro mette alla prova le nostre bugie.
Guardarsi è potersi vedere, riconoscere i fondamentali. Non coincidere con se stessi.
Chi possiede il dono della cura non potrà mai raccontarsela!
Chi possiede le parole gli sguardi i pensieri le azioni della cura non ha alternativa. Non può fare a meno di confrontarsi con la Vita quella vera quella difficile quella che non se la racconta e non te la racconta.
Quando soffriamo vogliamo solo cure palliative.
Colui che cura sa che non se la racconta dalla consapevolezza della propria fatica quotidiana di vivere come tutti i drammi umani: lutti, separazioni, sconfitte, delusioni, fallimenti.
Colui che cura non se la racconta quando possiede la capacità di sostenere quel tipo di dolore, di sofferenza. Non è solo un esserci passato ma soprattutto aver scoperto la forza di reggerlo e certe volte di andare oltre. Alcuni ci sono riusciti.
Una vecchia e saggia psicoanalista disse al suo paziente angosciato che sosteneva che non avrebbe mai superato la paura di stare da solo : vedrà che anche lei come tutti dovrà farcela, ad un certo punto.
La vita ad un certo punto impone la sua presa di coscienza. Se vuoi vivere non puoi morire.
Non ce la raccontiamo da analisti quando al raccontarsela dell'altro c'è vera partecipazione al suo dolore che è sempre il nostro, per riflesso per condivisione.
E allora guardo teneramente tutti i racconti del mondo, il modo in cui evitiamo il dolore me compresa le prese d'atto le sfighe e quello in fondo che siamo: Armature !
Armati fino ai denti per evitare ciò che non sapremo mai : chi siamo.
Siamo stati le storie che ci siamo raccontati.
Come saranno andate veramente le cose della vita?
Colpe, responsabilità, mancanze.
Mi hai amato Dottore? Ti ho amato, io!
Importa a tutti sapere se da qualche parte il dolore si spegnerà o non avrà mai fine.
Il dolore è materia interessante, mobile e creativa solo se lo si lascia scorrere in quel tenero letto che è il tempo.
Solo se lo si è masticato lo si può comprendere senza difesa.
Mano che tiene l'altra in quel nero che è il nostro inconscio .
Mare confuso da cui esce una bolla d'ossigeno che permette la scoperta sempre nuova sempre la stessa.
Il nuovo e lo stesso contemporaneamente.
Non subito. Esistono dei tempi.
Il tempo della fine cura è il tempo del vero amore, quello che non se la racconta quello che può sedersi e guardarsi in faccia, che può raccontarsi un'altra volta, quello che ha retto l'urto della rottura ma soprattutto quello "orizzontale" che ha avuto la stessa partenza, la stessa statura perché in questo confronto orizzontale c'è del vero.
Solo un amore vero può unire le parti di te, ma gli amori veri come le vere cure spaventano sempre perché sono incontri che spingono intensamente alla messa in discussione totale di noi stessi: una vera sfida al nostro racconto.
Ma la somma delle piccole cose è ciò che ci attende là in fondo, tutti quanti.
L'amore antico vive di se stesso,
non della coltivazione altrui o della presenza.
Nulla esige nè chiede. Nulla aspetta,
ma di vano destino nega la sentenza.
L'amore antico ha radici profonde,
fatte di sofferenza e bellezza.
Da loro si tuffa nell'infinito
e tramite queste soppianta la natura.
Se dappertutto il tempo distrugge
ciò che fu grande e splendente,
l'antico amore, tuttavia, mai muore
e ogni giorno nasce sempre più amante.
Più ardente, ma povero di speranza.
Più triste? No. Lui ha vinto il dolore,
e risplende nel suo canto oscuro,
tanto più vecchio quanto più amore.
Carlos Drummond de Andrade
Ti rispondo con una poesia
Ti rispondo con una poesia del poeta “Poiché eterno è l’amore che unisce e separa, e eterna la fine
(era già cominciata, prima di essere), e siamo eterni,
fragili, nebbiosi, balbuzienti, frustrati: eterni.
E anche l’oblio è ricordo, e lagune di sonno
sigillano col loro negrume ciò che amammo e fummo un giorno,
o che mai fummo, ma che anche così brucia in noi
come la fiamma che dorme nei ciocchi buttati nella legnaia. “Drummond de Andrade, “..da te citato.Siamo come la fiamma che dorme nei ciocchi, ma in attesa della luce della fiamma quando ci rendiamo conto di essere in grado di sopportare la sofferenza, il dolore e rendendosi conto che la vita non ti fa sconti.E allora attraverso la cura usciamo dalla idealizzazione per arrivare alla realtà’ e guardandola negli occhi non restare pietrificati.Siamo usciti dal labirinto del bisogno e senza mai sapere sino in fondo chi siamo ci permettiamo il desiderio .
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