e non aveva più denti
soltanto pane nella pancia e patria
e una mano gialla fatta di neve e
la fortuna che sbatte contro la guancia
subito il mio cappotto di fuori fu bianco e
i miei sarti mi domandarono perché
non so morire
di cosa sono debitrice agli alberi
è una cosa che si lascia appesa lassù.
Herta Müller
Composta lunedì 7 marzo 2016
Un giorno, poetessa, mi dicesti che l'uomo della cura non capiva la tua domanda d'amore.
Traduceva con parole brute, con forme senza senso.
Riduceva la tua domanda a ripetizione sterile, a bisogno infantile.
Poveri Dottori non sanno loro, non sanno.
Non sanno dare il nome a ciò che è antico.
Chiedevi poetessa qualcosa che tu sai ma che non osi dire perché la cura non osa fino li'.
Lì ci vogliono astronauti, viaggiatori di infinito.
Lì ci vogliono temerari, sprezzanti di velocità e di dimensioni extratemporali.
Ci vogliono sentimentali.
Eppure hai chiesto e non ti fu dato, da un uomo.
Forse per quello poesia finisce con una A.
Ricevetti da una donna.
Ma poetessa il vero miracolo finisce con la O.
Il maschile.
Quel mondo fatto della stessa mancanza che non si può nominare.
Tacere l'amore per far emergere amore. Immergersi nel maschile è circumnavigare attorno ai poli.
Silenzio di ghiaccio, rumore bianco odore accecante.
Il lievito padre che da te slego per gonfiarmi di parola che non ha nome.
Che nome ha l'amore quando ci sdraiamo?
Che nome poetessa volevi sentirti dire da chi ti doveva risposte?
Sai bene che non era il sesso, il ricongiungimento dei corpi.
Sai bene che non era amore convenzionale.
Sai bene che non c'è nome che contiene.
Ma attraversare un uomo è come sfidare gli Dei.
È mettersi ali di cera.
No! poetessa, non è desiderio .
Vuoi raggiungerla la meta.
No! Non è l'altra metà del cielo.
È oltre.
La forma più alta dell'incontro transferale è la mia parola che incrocia la scarica del tuo silenzio.
Assenza di parola,
percezione della lingua che via via diventa madre.
Ma poetessa io e te sappiamo benissimo che nella ripetizione non cercavamo ne padri ne madri, noi volevamo nascere.
Chiuse in un grembo non nostro.
I pensieri non hanno varcato la placenta.
Sotterrate come corpi di reato.
Volevamo solo esser pensate.
Siamo nate senza corpi, io e te.
Non si ha pace, se non giunge nome laggiù .
Laggiù parola da inventare, non è amore ma pensiero .
Il corpo appartiene ai nominati.
Chiamami con il mio nome, Dottore.
Chiamalo con il nome che merita questo nascere.
Non aver paura Dottore, è qualcosa di talmente grande che non ha spazio.
Può essere cielo.
Abbraccia, avvolge, non schiaccia.
Immenso, infinito .
Ha nuvole bianche.
Prende forme .
Soffia in direzioni uguali ed opposte.
Perché la donna della cura e la donna della poesia esigevano attraversare un uomo?
La meta di una donna non nata è il completamente sconosciuto, il vero abisso.
L'opposto del nostro sesso.
Il completamente estraneo.
Il vero ignoto.
Attraversare al buio, la nostra ripetizione.
Ripetere con un uomo l'esperienza del non esser pensati significa incrociare un alfabeto diverso.
Ogni lettera deve esser rinominata.
Ogni parola compresa.
Non è facile comprenderla Dottoressa.
Non è facile comprendersi , Dottore.
In questa non comprensione nasce però il pensiero condiviso, il miracolo del concepimento.
Concepiamo attraverso concetti divisi .
Ed io nasco tra le parole di uomo e di donna.
Io, figlia di mezzo tra te e me.
Andiamo altrove.
Nei non luoghi, nelle terre di mezzo nello strato più profondo della grigia materia.
Erotico non è termine per questo luogo.
Amore non è ancora.
È corpo celeste.
È contrazione.
Ogni pensiero uno spasmo che rimbomba.
Il corpo dice che ci sei, pensami.
Ci sei ogni volta che spingi dentro la mano che spii dal buco che tenti di vedermi.
E sbagli,
sbagli sempre
perché non sei me.
E più non sei me e più sono io.
Definita da non me, tu.
Poetessa cercavi l'altrove.
L'angoscia si spegne, come un liquido bianco che entra in vena e che bagna la gola.
Un respiro e ti senti in altro dove.
Da quando ti ho incontrato altrove è un bagno tiepido che rilassa ossa e che mi fa dormire.
Il buio è te, uomo.
Ogni cura dovrebbe consegnarci allo sfioro di Morfeo, permetterci finalmente di abbandonarci.
Ogni cura è rendere lettera il buio.
La Donna Domenica D’Aguistti
Di Gherasim Luca
Nelle mie tempie suona il pianoforte una donna bianca, senza sangue
e dalle lunghe braccia che entrano attraverso il pianoforte ed escono dal pavimento, attraverso il soffitto
attraverso tutti i giardini del mondo.
La donna non ha neppure un po’ di sangue
ma sul viso ha un grande biancore,
e per questo mi sono gettato nella gabbia dei leoni e l’ho morsa profondamente.
Per farle scorrere il sangue, sicché infine io veda il sangue!
Ho messo la mano sulla mia pelle
E dentro v’era rinchiusa una donna.
La furba, aveva chiuso le tende e sprangato la porta.
Allora ho rivoltato tutta la periferia
per acciuffare i tuoi capelli
ho aperto poi le porte ai miei pompieri per spegnere il fuoco
ho fatto scorrere tutto il sudore dal mio corpo
ho liberato sperma
ed il fuoco si è spostato al cervello
e per questo adesso faccio le smorfie allo specchio.
Nelle pupille sono entrate le donne bianche per bagnarsi
qui è buio e l’acqua è acqua che brucia
qui la fonte ha fruste che mordono ed i lupi sono quelli che sanno beccare,
per questo sono entrate le donne, per bagnarsi!
Le donne coi capelli sul petto
le donne coi pugni stretti nelle mani,
le donne hanno denti nella bocca,
le donne hanno denti nelle unghie,
le donne che m’inseguono hanno tutte gambe da levriero,
le donne che vorticano in me hanno solo orologi nel sangue,
le donne che mi rompono la testa con martelli
sono donne che bevono le mie cervella e che mi raccolgono i brandelli di
cranio come pezzetti di pane.
In me camminano lupi e stregoni,
scimmie e nani;
gli stregoni sprizzano il mio sangue da tutti i pori
le scimmie saltano attraverso tutte le mie stanze
E il cuore, impazzito, salta per tutto il corpo
Lupi! Non urlate più ché mi scuotete il cranio, lupi!
Ma le mie mani invano rivoltano i capelli e la bile
perché negli occhi danzano ancora il serpente bianco e la femmina.
Ho in bocca l’osso della donna morta e l’addento, e lo succhio
perché c’è ancora un po’ di carne.
È dolce l’osso della donna e fa male.
Ma i cani di periferia – assassini – mi strapperanno la preda
perciò mi tirano i vestiti, mi lacerano il corpo.
Ma io non sono niente
perché è solo nella mia bocca l’osso della donna che è morta
e che vive solo nella mia bocca.
Cani! Cani!
Potete battermi fino a domani e per un anno ancora
nei secoli dei secoli,
i vostri spigoli possono penetrare in fondo al mio cervello
e il vostro piscio può entrare in fondo al mio sangue
L’osso della donna morta è il mio pane quotidiano.
Cani
Il cervello sta nella mia testa come una corda intorno al collo
e cerco il chiodo con cui mi sono impiccato
e il chiodo è nel cuore
e il chiodo è nascosto tra il sangue, tra le lenzuola,
i piedi dondolano sul pavimento
e la morte, nei panni di una grossa donna di periferia,
mi taglia la corda
e mi dice «Che Dio mi perdoni»
Femeia Domenica D’aguistti
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