Se non l’avessi già saputo, me l’ha chiarito Sergio Benvenuto nel suo lucido articolo su Merleau-Ponty e l’allucinazione:[1] “Si sa, la fenomenologia non intende spiegare, ma comprendere”. L’aveva fermamente stabilito più di un secolo fa Karl Jaspers nella sua monumentale Psicopatologia generale. Si tratta della differenza tra erklären (“spiegare”) e verstehen (“comprendere”), che “spiega” la differenza tra scienze della natura e scienze dell’uomo. La natura si spiega attraverso modelli meccanici, privi di empatia, confinati in uno spaziotempo privo di tempo per l’uomo; l’uomo si comprende attraverso interpretazioni storico-esistenziali, molto empatiche, la cui verità si configura in modo narrativo, magari romanzesco, talvolta poetico.[2]
Oltre che seducente per chiarezza e semplicità, la differenza sembra ragionevole, quasi cartesiana. Eppure, qualcosa non mi torna. Non lo dico perché mi sono formato sul versante delle scienze dure, dall’anatomia alla biometria, dove ho imparato a ragionare in termini di modelli; non lo dico per ragioni personali ma di struttura, addirittura di topologia del pensiero. Lascio la parola al maestro.
"Ad evitare ambiguità e oscurità, impiegherò l’espressione “comprendere” (verstehen) per la visione intuitiva dello spirito, dal di dentro (corsivo mio). Non chiamerò mai comprendere ma “spiegare” (erklären) il conoscere i nessi causali obiettivi, che sono sempre visti dal di fuori (corsivo mio)".[3]
I punti deboli di Jaspers e in generale della fenomenologia husserliana sono secondo me almeno due, anche se non sono specifici delle rispettive dottrine; uno è la dicotomia “interno/esterno”, l’altro la scienza identificata con l’applicazione del principio eziologico di causa ed effetto, per cui scienza è l’antico scire per causas. Scelgo questi due punti per chiarire la mia presa di distanza dalla fenomenologia e da un certo freudismo che ad essa si ispira.
In topologia non esistono punti esterni, ma solo interni. Un punto si dice interno a un insieme se esiste un intorno tale che tutti i suoi punti appartengono all’insieme. Un punto si dice esterno a un insieme se è interno all’insieme complementare. In topologia non si distingue tra interno ed esterno; esistono trasformazioni che portano punti interni in esterni e viceversa senza soluzioni di continuità; sono le trasformazioni che “rivoltano” la sfera o il toro, scambiando la superficie interna con l’esterna. La vera e strutturale contrapposizione topologica è tra punti interni e punti di frontiera.
Un punto è detto alla frontiera di un insieme se in ogni suo intorno cadono punti sia dell’insieme sia del complemento. Come si vede gioca l’opposizione tra due quantificatori logici diversi: l’esistenziale per il punto interno (esiste un intorno) e l’universale per il punto di frontiera (ogni intorno).[4]
Un punto di frontiera non necessariamente appartiene all’insieme. L’insieme privo di punti di frontiera si dice aperto; se contiene tutti i punti di frontiera si dice chiuso. Tanto va precisato per consolidare nozioni intuitive di uso corrente in psicologia, spesso acritico e ingiustificato, come proiezione (verso fuori) e introiezione (verso dentro). Per la topologia siamo sempre dentro qualcosa. La negazione non nega, cioè non butta fuori, dico conservando e correggendo Freud. La continuità tra dentro e fuori è la premessa topologica necessaria per pensare l’articolazione tra soggetto individuale, immaginariamente supposto “dentro”, e soggetto collettivo, altrettanto immaginariamente supposto “fuori”.
E vengo al secondo punto: l’adesione incondizionata al principio di ragion sufficiente, che orienta le pratiche psicoterapeutiche sia freudiane sia fenomenologiche. Data dai tempi di Hume la sostanziale obiezione al principio eziologico di causa ed effetto, che ne destituisce ogni valore oggettivo, relegandolo all’abitudine mentale del post hoc ergo propter hoc; ma l’eziologia è tuttora di uso corrente, ovviamente giustificato, in medicina, dove coordina nosografia, diagnosi e cura; tuttavia è lontana dal discorso galileiano, largamente indipendente dall’aristotelico scire per causas, che riconosce solo verità storiche.
Sentiremo subito come Galilei parla delle verità “materiali” dei propri esperimenti mentali. Prima devo però precisare che la distinzione tra verità materiali e storiche è specifica di Freud, a sua volta ricalcata sull’altra dicotomia freudiana, rispettivamente, tra realtà effettuale (Wirklichkeit) e psichica (Realität). Freud la introduce nel suo romanzo storico, la trilogia L’uomo Mosè e la religione monoteista.[5]Diana Napoli spiega bene cosa Freud intende.
"Per Freud la “verità materiale”, il dato inequivocabile, è l’esistenzadi un Mosè egizio, (un dato che Freud non può dimostrare; non ci sono prove nemmeno dell’esistenzadi Mosè in sé) e di cui quindi fa una sorta di premessa, di partito preso, senza cui tutta lastoria del popolo d’Israele sarebbe incomprensibile)fatto che gli permette, grazie alle intuizioniconsentite dal metodo psicoanalitico, di elaborare una ben più importante “verità storica”che altro non è se non una verità materiale “camuffata”, processo attraverso il quale un popolo si racconta lapropria storia fittiziamente, nella misura in cui un evento traumaticooriginario non può che ritornare in forma mascherata, mai nella sua originalità. […] Freud aveva definito il suo lavoro un “romanzo storico”, intendendo con quest’espressione non un genere letterario, quanto la necessità di appoggiarsi, laddove i dati materiali fossero mancati, alla verosimiglianza delle ipotesi psicoanalitiche".[6]
Nella Terza giornata dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze Galilei annuncia di volere
"investigare e dimostrare alcune passioni di un moto accelerato (qualunque sia la causa della sua accelerazione, corsivo mio) talmente, che i momenti della sua velocità vadano accrescendosi, dopo la sua partita dalla quiete, con quella semplicissima proporzione con la quale cresce la continuazion del tempo, che è quanto dire che in tempi uguali fi facciano eguali additamenti di velocità".[7]
Come si può nella scienza prescindere dalle cause? Come non tener conto dell’evoluzione diacronica dei loro effetti, depositata in narrazioni anamnestiche? Come si accerta la verità di un delitto se non si stabilisce la responsabilità dell’assassino? Certo, le leggi scientifiche non sono quelle valide in tribunale. La scienza non si fa nelle aule dei tribunali. Si fa in laboratori di pensiero, dove si costruiscono modelli meccanici di particelle elementari che interagiscono sincronicamente fra loro, producendo effetti “simili” ai fenomeni osservati. Gli uomini di scienza non cercano la verità ma la verisimiglianza, sempre pronti a modificare il loro modello interpretativo – detto anche ipotesi di lavoro – all’emergere di circostanze che non si “spiegano”. Kuhn parla di scienza normale come attività di soluzione di rompicapi.
Lungi dall’idealizzare il reale, come sostenne Husserl nella Crisi delle scienze europee (1936) proprio in riferimento all’opera di Galilei, la spiegazione scientifica è poca e fragile cosa: è la verosimiglianza offerta da un modello provvisorio, che tuttavia può durare a lungo, pur rimanendo sul lungo periodo sempre caduca, cioè solo probabile. Il modello newtoniano durò dal 1687 al 1916, quando fu sostituito dal modello einsteiniano; durò 229 anni e tuttora si applica al lancio dei satelliti nello spazio. Il modello relativistico è messo a sua volta in forse dalla meccanica quantistica, ma finora regge, almeno a livello macroscopico. Il modello evoluzionistico darwiniano è tuttora in continuo rimodellamento. Chi crede ancora alla scienza incontrovertibile? Chi non l’ha mai praticata.
La caducità della spiegazione scientifica, di certo meno solida di tante interpretazioni ideologiche, non ne riduce il valore ma stimola l’approfondimento. In tema di caducità rimando alle commoventi pagine di Freud.[8] Per conto mio mi avvalgo di una distinzione meno fenomenologica e mi limito a distinguere con Freud tra verità storica o diacronica e verità materiale o sincronica, una temporale e caduca, variabile da modello a modello, e l’altra eterna… nel presente del modello (che può trattare evoluzioni diacroniche diverse).
Sì, ma – mi si obietta – i modelli meccanicisti non trattano i fenomeni della vita psichica. Ok, non cado nella ben nota trappola delle due culture. Mi limito a osservare che “vita psichica” o “vita dell’anima” (Seelenleben) è senz’altro il significante preferito di Freud; il suo significante maître, direbbe Lacan,S1; ricorre in media una volta ogni venti pagine delle sue Gesammelte Werke. La fenomenologia freudiana è spiccatamente vitalista, più presocratica che post-socratica. Arrivo paradossalmente a dire che il baricentro della (meta)psicologia freudiana è l’hapax Lebensneurose, “nevrosi di vita” o “nevrosi esistenziale”, formulato da Freud in riferimento al proprio caso di analisi “interminabile”, quella sciagurata dell’Uomo dei lupi.[9]
A questo punto lascio da parte il discorso “scientifico” per addentrarmi un po’ di più in quella fenomenologia che pretende trattare meglio le questioni psicologiche e psichiatriche riguardanti il soggetto.
La mia tesi è semplice: la pretesa fenomenologica di saper comprendere i problemi del “mondo della vita” (Lebenswelt) del soggetto è ampiamente illusoria. Le “comprensioni” fenomenologiche dei fenomeni psichici, per esempio delle allucinazioni, sono in realtà imputazioni di intenzionalità nei confronti del soggetto. La fenomenologia fa un vero e proprio processo alle intenzioni. L’allucinazione – spiega Benvenuto nel testo citato – imputa al soggetto la falsità della percezione senza oggetto apparente. Le imputazioni sono di casa in tribunale, ma vanno meno bene nel mondo della vita che pretende comprendere. Ben che vada danno una versione superegoica del desiderio del soggetto. È questo il “comprendere” della psicopatologia fenomenologica?[10]
Non sono uno storico della filosofia. Vedo fare storia della filosofia in accademia commentando autori, in un certo senso in modo estrinseco al pensiero e in ottemperanza a un malcelato rispetto dell’autorità riconosciuta. Mi è più congeniale l’approccio genealogico nietzscheano, che mira più all’evoluzione del pensiero che alle diatribe tra filosofi. Tuttavia oso dire che sia da sfatare il luogo comune che attribuisce ascendenze cartesiane alla fenomenologia di Husserl, da lui stesso evocate nei Discorsi parigini del 1929. Del resto è proprio Husserl a dichiarare di procedere in senso inverso a Cartesio, che depura da pregiudizi e confusioni,[11] dopo averlo esaltato come padre fondatore della fenomenologia.
Lo dico a modo mio, che sicuramente non sarà apprezzato né convalidato dall’accademia. L’epochè husserliana non ha molto a che fare con il dubbio cartesiano. È cartesiana in senso negativo, nella misura in cui non porta allo scetticismo, ma il suo cartesianesimo si ferma lì. La sospensione del giudizio nega a tutti gli effetti il valore del sapere, non ne afferma la problematicità come Cartesio.[12]
È difficile tenere un discorso sistematico sull'epoché, dato che neppure il suo reinventore – i primi inventori furono gli Scettici – ci è mai riuscito.
L'epoché si può dire in tanti modi:
Reduktion: riduzione (eidetica o trascendentale);
Außer Geltung setzen = togliere validità o mettere fuori corso;
Außer Spiel setzen = mettere fuori gioco;
Außer Aktion setzen = disattivare;
Ausschalten = disabilitare
Einklammern = mettere tra parentesi.
Non so quale di questi modi sia quello più pertinente. Però credo di saper riconoscere quello che meglio degli altri porge la verità di una nozione tanto poco chiara e distinta quanto quella di epoché, che per altro gli Scettici non proposero per il suo valore intellettuale, ma morale, in quanto precondizione dell’atarassia, la loro impassibilità e imperturbabilità.
Scelgo un po’ arbitrariamente außer Geltung setzen. Quest'espressione indica l'operazione che toglie valore, svalorizza, invalida, svaluta, mette fuori corso un certo valore epistemico. Nei §§ 31 e 32 di IdeenI Husserl precisa il carattere redibitorio dell'epoché, affermando che la tesi disabilitata “è ancora lì, come ciò che messo tra parentesi è tra le parentesi o come ciò che è disabilitato è presente al di là delle connessioni che lo abilitano”.
Husserl ha la giusta percezione che il logocentrismo sia fatto di connessioni simboliche (eidetiche), che porgono la verità delle cose e delle idee.[13] Pur di salvare la connettività del logos, – una volta terminate le Ricerche logiche – Husserl tenta di individuare una logica diversa dall’aristotelica, che più e meglio rispetti le connessioni tra idee e cose. E inventa l’epoché, finalizzata all’intenzionalità. “L’intenzionalità è il principale tema fenomenologico”.[14] L’intenzionale è la forma della materia sensuale. Sta parlando Aristotele?
L’estrema ratio dell’epoché, della sua scienza connotata in senso strettamente ontologico, mette fuori gioco il sapere per salvare l’essere. In questo senso Husserl è profondamente anticartesiano. Cartesio infatti sospende il valore trascendentale dell’essere e cerca di riguadagnarlo in parte attraverso l’esercizio del sapere, cioè attraverso il lavoro epistemico del soggetto singolare (mai trascendentale). Se pensi, sei, non altrimenti. Per il soggetto della scienza moderna l’essere non è un primum, oggettivo o trascendentale che si voglia, da riconoscere. Vige invece in Husserl l’asservimento all’antica primazia ontologica, istituita es aei da Parmenide nel Cilento e tuttora imperante nelle accademie europee. Con l’aggiunta fondamentale, ignota agli antichi, da ascrivere a merito del fenomenologo: l’essere è dotato di un’intenzionalità originaria (Meinung prima che Absicht), la quale significa il significato. Conoscere è riconoscere il significato primo dell’essere. Tanto pretende la comprensione fenomenologica. Diventerà l’essere dell’esserci – il Dasein – la forma metafisica e astratta originaria che Heidegger riconoscerà nella fenomenologia del suo maestro. L’essere è ciò che si dà (es gibt) all’esistenza in modo intenzionale. Non si può negare l’originalità e il rigore della costruzione husserliana, di cui lo psicanalista freudiano fa volentieri a meno, preferendo dedicarsi al sapere che non si sa (un-bewusst), piuttosto che all’essere che si dà.
Il comprendere fenomenologico nasce dal riconoscere la finalità originaria dell’essere. Altro che sospensione del giudizio! Il giudizio sull’essere rimane e predomina, ancorato com’è alla teleologia intenzionale.[15] Ecco una buona ragione per non essere fenomenologi in psicopatologia, giusto per non calare la soggettività in qualche forma predefinita, in una preterintenzionalità, magari gradita al potere, ultimamente religiosa.
Nel mio caso le ragioni per non essere fenomenologo in psicopatologia, si riducono in fondo a una sola: la fenomenologia, in particolare quella in versione husserliana, rimette in cattedra l’aristotelismo, cioè una forma forte di discorso del padrone (a servizio di Alessandro il Grande). Rimette in sella la scienza delle cause; riabilita Aristotele in versione platonica dura, cioè idealistica.[16] Come aveva appreso dalle lezioni di Brentano a Vienna, frequentate insieme a Freud, Husserl pose al vertice della sua metafisica, cioè nell’Io trascendentale, l’intenzionalità ontologica originaria, che riattualizza la causa finale di aristotelica memoria,[17] da raggiungere attraverso la sospensione del sapere individuale. Lo predica il vangelo husserliano: “Verso le cose stesse” (zu den Sachen selbst); si vada alle cose attraverso il loro apparire, una volta sospeso il soggetto singolare della scienza. Il gioco di prestigio husserliano reintroduce il noumeno nel fenomeno, l’essenza nell’apparenza, al prezzo di azzerare la soggettività, dissolvendola nella trascendenza con la scusante di fare della filosofia una scienza rigorosa.[18]
Con una conseguenza psicopatologica. Quando gli psichiatri della Daseinanalyseaffermano che con l’approccio fenomenologico in psicopatologia praticano l’empatia… non vorrei che fosse un’empatia a vuoto, senza soggetto o con un soggetto crocefisso a una precomprensione escatologica di marca protestante.
Non ho altro da aggiungere e torno al mio vecchio Galilei, alle sue “sensate esperienze e dimostrazioni necessarie”, di cui nel 1615 scriveva a Cristina di Lorena. La loro modestia epistemica mi tranquillizza e mi fa ben sperare, oserei dire: pensare.
Mi ha colpito particolarmente
Mi ha colpito particolarmente leggere l’ultimo articolo di Antonello Sciacchitano così scotomizzante nei confronti dell’”avventura umana” fenomenologica. Mi ha colpito anche perché corroborata da spiegazioni e valutazioni di massima difficilmente condivisibili ma assolutamente comprensibili per uno spirito che ne segue il pensiero da lungo tempo. Egli parla di una fenomenologia arcaica quando denota la sua spinta di ricerca prettamente umanistica e antiscientifica. Da “perenne allievo” e “eterno debuttante” posso dire che la fenomenologia mi ha innanzitutto insegnato un metodo, l’epoché, la riduzione eidetica, la visione eidetica, il dubbio e l’ironia (socratica e cartesiana). Mi ha dato in definitiva la libertà di spaziare con la mente anche verso autori non propriamente all’interno della cornice fenomenologica come i post- strutturalisti francesi e lo stesso Nietzsche.
Quello di Sciacchitano è evidentemente un giocare in difesa al riparo dalle irruzioni fenomenologiche rinnovate che vanno a pescare in un’enorme galassia che epochizzando la funzione egoica si riferisce al corpo, all’intersoggettivitá, all’Altro (interno ed esterno, allo spazio e al tempo in una dimensione di precipuo clima di introversione. Ma per un analista formatosi nelle scienze dure e con un impellente bisogno di “matematizzare” se stesso, i suoi mentori e l’esistente ciò non è spiegabile ergo non comprensibile. Ci si rifugia pertanto nel sofisma (che è tanto caro ai lacaniani) per rifuggire “le cose stesse”.
Anch’io ho avuto una formazione prettamente positivistica e organicista ma la mia pulsione interiore mi ha portato e mi porta al sincretismo (fin quasi ai limiti della confusione). La psichiatria kraepeliniana come l’ho conosciuta io aveva l’aspetto di un deserto etico/estetico in quanto scotomizzante le grandi domande sugli esseri umani: chi si è, da dove si viene, dove si va e soprattutto cos’è la follia e come la si immanentizza nello status quo. Laddove un soggetto si interroghi e cerchi l’alteritá- ritengo umilmente di poter dire- c’è sempre scienza. Ritengo che sottolineare ontologicamente l’appartenenza a una famiglia e negare un’altra sia un atto erroneo e quasi “metafisico” perché implica una scelta certa e dà una risposta totalizzante al dubbio.
A me piace ribadire di sentirmi un mosaico di saperi, conoscenze ed esperienze laddove l’appartenenza a una scuola o la soggiacenza all’uno o all’altro maestro immisererebbe il portato gnoseologico ed epistemologico della mia avventura umana.
Non vorrei che Sciacchitano ripetesse l’errore del “totem” Freud lavorando sulle scotomizzazioni o sulle esclusioni e non sulle aggiunte e sulle giustapposizioni. Ho giá scritto e ripeto che Freud fu un cattivo Padre (lo dice la storia) e le malattie e i suicidi di molti suoi allievi ne sono la dimostrazione. Lacan ha dato più spazio alla complessità e alle strutture degli psichismi. La fenomenologia ha- soprattutto con Husserl ma anche con la Stein- lavorato con particolare rigore sia filosoficamente che clinicamente. Ma con i post- strutturalisti e gli empiristi trascendentali (Foucault, Deleuze, Guattari) c’è stato una caotica e antiedipica sovversione verso i mondi psicopatologici.
Volevo dire ad Antonello Sciacchitano che senza questo melting pot- grazie anche a lui- non sarei quello che sono oggi.