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Alcune note sulla coltivazione televisiva – Dalla complanarità fra raccontatore in situazione e propria udienza alle asimmetrie fra “storytelling” televisivo e utenza TV

26 Giu 19

A cura di dinange

Ripubblico un vecchio articolo: il sommarsi nel frattempo di questa 'vecchia' capacità della TV di coltivazione con quella derivante dall'uso dei nuovi social media penso meriti un riattraversamento del tema. Cosa che mi propongo di fare quanto prima. Nel frattempo ri\propongo questo testo, che nasce dal confronto fra fruizione di un racconto in situazione e fruizione televisiva. (L.A.)
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1. La complanarità del buon raccontatore
 
Partiamo (apparentemente) da lontano, e più precisamente dal “buon raccontatore in situazione” (Milillo).
Il buon raccontatore nel momento in cui si dispone a narrare compie un duplice movimento interno che potremmo definire, da una parte, come tentativo di interpretazione del tipo di racconto che l’udienza che ha ora di fronte è disposta ad ascoltare, dall’altra come attitudine alla ricerca dentro sé stesso, fra i mille canovacci che si sono sedimentati dentro di lui in base alla propria esperienza passata, di “quel” racconto che, sempre in base al proprio acume interpretativo, egli giudica adatto a “quella” particolare udienza che ora e qui egli ha di fronte (Angelini, 1998).
Sull’importanza di questo duplice movimento può testimoniare chiunque abbia dimestichezza con i meccanismi dell’ermeneutica: ciò a cui non si presta sufficiente attenzione è il dato della complanarità (Cirese) fra buon raccontatore e propria udienza; dato, come vedremo fra un po’, importantissimo all’interno del discorso sulla coltivazione televisiva.
Per “complanarità” si intende il fatto che il narratore e la propria udienza, nel momento in cui si dispongono rispettivamente alla produzione e all’ascolto di un brano della narrazione orale, siano sullo stesso piano, cioè compresenti e reciprocamente raggiungibili dallo sguardo dell’altro. In questo modo, in base alle reazioni che il procedere del racconto suscita nell’udienza attuale, il buon raccontatore può compiere un’opera di continuo riadattamento del testo, fatto di iterazioni, sottolineature, contaminazioni fra diversi canovacci, e fra questi e forme di narrare scritto di cui egli in precedenza sia venuto a conoscenza, eccetera.
Il fine apparentemente è solo quello di riuscire ad affabulare la propria udienza, cioè di tenerla legata a sé, di vederla pendere dalle proprie labbra. Ma in effetti ciò che passa all’interno dell’udienza è qualcosa di molto complesso che: – nel caso della fiaba, come ci ricordano Bettelheim, la Fon Franz, Käes e gli altri psicoanalisti, è l’innesco di funzioni abreatorie[1] – nel caso di altre forme del narrare orale[2] l’innesco di altre funzioni, sempre di tipo “terapeutico”, legate in ogni caso (anche in quella che per noi è “fiaba”) ai processi di acquisizione, di implementazione e di contaminazione che sono alla base della formazione dell’identità individuale e sociale di ogni membro dell’udienza, ed in ultima istanza anche del buon raccontatore (Angelini, 1989).
La complanarità fra il buon raccontatore e la propria udienza implica la compresenza: – di una dimensione spaziale che permetta la reciprocità degli sguardi e l’uso di forme di comunicazione soprasegmentale; – di una dimensione temporale incentrata sulla sincronia; – di una dimensione emozionale qui intesa come concordia sulla natura gratuita delle ragioni che sono alla base sia della disposizione al racconto che in quella all’ascolto.
Qualora il raccontatore profferisca il proprio racconto al di fuori di questi tre ambiti di complanarità tutta la scena cambia: – e il venir meno della compresenza spaziale tende  inscrivere il racconto all’interno di un tessuto che sposta l’interpretazione dall’analisi delle reazioni a caldo che l’udienza attuale fa durante il racconto al terreno dell’analisi delle presunte attese di un’udienza potenziale; il difetto di temporalità impedisce ogni tentativo dinamico di adattamento del canovaccio all’udienza; mentre l’assenza di una accertata e gratuita complanarità sul piano emozionale apre il campo ad ogni sforamento su questo piano.
 
2. Il rapporto fra emittenza e utenza nel racconto televisivo
Gerbner – lo studioso americano che ha introdotto il concetto di “coltivazione televisiva” – tende ad inquadrare il flusso comunicativo TV che passa dall’emittente all’utenza come un sistema integrato e centralizzato di “storytelling” .
E’ ovvio che, come accade per il raccontare in situazione, anche i palinsesti televisivi sono immaginati e prodotti al fine di affabulare la propria udienza. Ma nel passaggio dal racconto in situazione allo “storytelling” televisivo assistiamo ad una serie di slittamenti sul piano comunicativo che concorrono ad una mutazione radicale del setting. Mutazione che è alla base – come vedremo nel prossimo paragrafo – della coltivazione televisiva. Perciò cerchiamo di vedere innanzitutto quali sono questi slittamenti.
Il dato più eclatante nelle nuova scena televisiva è la scomparsa della gratuità che era alla base del rapporto fra buon raccontatore e la propria udienza: gratuità che poneva entrambi all’interno di quel flusso di scambi che Godbout chiama “sistema del dono”, e cioè all’interno di un rapporto di reciprocità basato sul “dare – ricevere – contraccambiare” in cui ciò che importava era il valore d’uso del racconto, e non, come avviene della scena televisiva, il suo valore di scambio.
Le preoccupazioni venali che derivano da questo primo slittamento impongono poi ai programmatori della Tv di immaginare il palinsesto come un macchina affabulatoria capace o di battere la concorrenza, oppure di produrre in direzione di un’udienza di nicchia da fidelizzare.
L’assenza di complanarità, però, impone tutta una serie di sforzi interpretativi e previsionali che, come abbiamo appena visto, il buon raccontatore era capace di fare leggendo negli occhi e negli sguardi della propria udienza e scegliendo all’interno del proprio corredo di canovacci quelli intuitivamente[3] da lui ritenuti adatti a quella particolare udienza in quel particolare momento, contaminandoli, assemblandoli e adattandoli ad essa.
Anche i produttori televisivi possono attingere ad una pluralità di canovacci: ma la loro confezione non può avvenire in base ad un rapporto di reciprocità con l’udienza poiché l’assenza di complanarità spazio-temporale lo impedisce.
La cura del palinsesto in questo modo non può che essere centrata sui sondaggi e sul fiuto dei guru della Tv, che però non possono che basarsi sul calcolo venale: in questo modo l’udienza si trasforma in utenza che va trasformata in una massa di consumatori da conquistare.
Il tasso di venalità non ha limiti: anche i bambini vanno studiati da questo punto di vista ed immessi precocemente – il più precocemente possibile – nel circuito affabulatorio consumistico.
Ma la differenza più profonda e dilacerante fra racconto di storie in situazione e storytelling televisivo è sul piano dell’influenza che da una parte e dall’altra viene esercitata sui processi d’identificazione e di rappresentazione sociale.
Da una parte ci troviamo di fronte all’innesco attraverso il racconto di processi identificatori che tendono a rafforzare l’appartenenza cultural – specifica e il sistema di rappresentazioni sociali che la informano e costituiscono l’ossatura di quell’oggetto transizionale collettivo (Green) che costituisce il più potente sistema di stabilizzazione del mondo che l’individuo e il gruppo sociale possano introiettare; – processi che, nel caso della fiaba diventano processi abreatori, sempre cultural – specifici, che come ha dimostrato Bettelheim aiutano a superare i conflitti interni.
Dall’altra il sistema integrato e centralizzato dello storytelling televisivo conduce a processi identificatori sottoposti ad una continua opera di peeling che leviga le appartenenze locali fino a farle scomparire in un prodotto che “deve” andar bene dovunque e comunque. È noto ad esempio che i cartoonist giapponesi (che riciclano e disseminano via TV per tutto l’orbe terraqueo Pinocchio, così come Heidi, Goldrake, etc.) mantengono indistinti i contorni degli occhi per facilitare i processi d’identificazione nei bambini di tutto il mondo.
Quest’opera di acculturazione violenta implicitamente fa piazza pulita di ogni differenza ed esplicitamente incita ad un comportamento massificato e conforme che in contemporanea ritroviamo iterato sul piano reale in tutti quei non luoghi  sottoposti sul piano architettonico ed urbanistico ad un identico processo di peeling.
La cultura egemone all’interno di questo enorme processo acculturativo risulta quella dei media, e della Tv in particolare. Si tratta di una cultura che non può che assoggettare a sé e alla propria logica produttiva ogni alterità inglobandola in una dimensione vuoto-satura – direbbe Ghezzi – che fa da musica di sottofondo al tutto.
Il sistema di rappresentazioni sociali che ne deriva, soprattutto per i grandi consumatori di Tv, è profondamente influenzato dai sistemi di rappresentazione sociale che provengono dalla Tv, che in questo modo si sovrappongono gli altri sistemi di rappresentazione sociale, li inglobano, e li riciclano in continuazione in un blob che alla fine produce uno “spostamento di realtà” (Gerbner).
 
 
3. Le rappresentazioni televisive della realtà e il processo che conduce alla coltivazione televisiva
 
Secondo Gerbner questo spostamento di realtà è fondato sul fatto che i grandi consumatori, cioè coloro che sono esposti alla Tv per oltre quattro/cinque ore al giorno, trovano nella Tv un soggetto che contribuisce in maniera decisiva alla definizione delle rappresentazioni mentali e sociali della realtà. Rappresentazioni che risultano in questo modo spostate rispetto a quelle di coloro che sono meno esposti dei primi alla Tv, e che più dei primi sono influenzati da emittenti portatrici di altri sistemi di rappresentazione.
L’ipotesi di partenza è che più ore noi passiamo di fronte alla Tv e più siamo esposti ad introiettare “concezioni della realtà sociale coincidenti con le rappresentazioni televisive di essa” (Wolf).
Questa introiezione peraltro, afferma Gerbner, non è selettiva: cioè il grande consumatore assorbe di tutto e di più in maniera acritica, e disponendo ogni cosa sullo stesso piano. In questo modo il rituale di fruizione rende tutto ugualmente importante ai suoi occhi.
Ed infine “il mezzo televisivo non coltiva solo sistemi di credenze, ma produce anche atteggiamenti emotivi corrispondenti ai sistemi di credenze”[4].
Una forte esposizione alla cultivation produce nei grandi consumatori la definizione di un punto di osservazione del mondo che è distante dal mondo reale sia da punto di vista dei contenuti degli eventi (ad esempio: nella percezione dei livelli violenza presenti nella società), sia nella acquisizione dei ruoli sociali (ad esempio: dei modelli di mascolinità e femminilità).
E in ogni caso i grandi consumatori tendono a dare “risposte televisive” ai problemi sociali ed individuali più alte di quelli meno esposti, con i seguenti esiti rispetto a coloro che sono meno esposti:
– sovrastima della quantità di violenza attuata nella società;
– maggiore senso di insicurezza;
– minore autostima;
– maggiore propensione al razzismo;
– maggiore propensione a  percepire gli anziani e i deboli come marginali;
– ansia più elevata;
-maggiore propensione alla introiezione di ruoli sessuali più stereotipati;
– maggiore insoddisfazione circa il proprio stile di vita.
 
 
Melandri e Secchi usano la fiaba del Pifferaio Magico come paradigma della fascinazione perversa. Penso che, sulle loro orme, noi possiamo considerare la coltivazione televisiva come lo strumento che i moderni pifferai magici usano per portare alla morte non i bambini di Hamelin, ma tutti coloro che incautamente si lasciano avvincere dal fascino perverso che proviene dallo storytelling televisivo: in questa sede ho voluto porre in evidenza la divaricazione che intercorre fra  questa forma di affabulazione e quella che proviene dal narrare in situazione.

 

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Bibliografia
– Angelini L., Affabulazione e formazione: docenti e discenti come produttori e fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998
– Angelini L., Le fiabe e la varietà delle culture, CLEUP Ed., Padova, 1989.
– Bettelheim B., Il mondo incantato. Importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Feltrinelli. Milano, 1977
– Cirese A. M., “Qualcosa è fiaba, ma cosa? Spezzoni di un discorso”, in: AA.VV. “Tutto è fiaba”, Emme Edizioni, Milano, 1980, pp.5\19
– Franz (Von) M., Le fiabe interpretate, Bollati Boringhieri, Torino 1980
– Gerbner G., Living with Television. The Dynamics of the Cultivation Process , Erlbaum, Hillsdale, 1986.
– Ghezzi E. (intervista a): http://www.ilportoritrovato.net/html/ghezzi2.html
– Godbout J., Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 2002
– Green A., Slegare, Borla, Roma, 1994
– Kaës R. e al., Fiabe e racconti nella vita psichica, Roma, Borla, 1997
– Laplanche e Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari, 1968
– Lüthi M., La fiaba popolare europea. Forma e natura, Mursia, Milano, 1979
– Melandri e Secchi, La fascinazione, Nuove Pratiche, Parma, 1994
– Milillo A., “La vita e il suo racconto”, Casa del Libro, Roma, 1983
– Wolf M., Gli effetti sociali dei media, Bompiani, Milano



[1] Per il concetto di “abreazione” vedi: Laplanche e Pontalis
[2] Ma Lüthi e i demologi ci invitano a considerare il narrare orale come un corpus estremamente dinamico, capace di contaminazioni anche con elementi provenienti dalla cultura alta
[3] in “Affabulazione e formazione” (Angelini, 1998) ho poi cercato di approfondire cosa ci sia dietro quell’ “intuitivamente”, e di analizzare il rapporto fra affabulazione e formazione.
[4] Wolf, p. 100
 

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