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Sulla Verneinung (Negazione) di Freud

17 Ago 19

A cura di antonello.sciacchi16

 Nel famoso saggio del 1925 sulla Negazione, analizzando l’atto del negare nel suo attuarsi, Freud ci introduce alla logica delle enunciazioni, prese nel momento in cui il soggetto le sta enunciando. Propone una logica psicologica, ben diversa dalla logica classica degli enunciati già enunciati. Non dovrebbero stupire i suoi risultati “non classici”. Freud esordisce citando un proprio caso clinico: “Lei domanda chi possa essere questa persona nel sogno – dice il paziente. Di certo non è mia madre”. Correggiamo: “Allora è la madre”.[1]

Stupisce, tuttavia, che per giustificare la propria pratica clinica, che rovescia la negazione nell’affermazione, Freud non ricorra al suo vecchio arnese, addirittura lo scibbolet della psicanalisi – al mito di Edipo – ma sviluppi una “nuova” teoria in termini di introiezione e proiezione delle rappresentazioni psichiche dentro e fuori dall’apparato psichico, con l’affermazione (Bejahung) dalla parte dell’introiezione e la negazione (Verneinung) della proiezione. Eppure il vecchio modello edipico avrebbe spiegato bene l’atto del negare: la madre è l’oggetto del desiderio; il Super-Io interdice l’incesto e ne rimuove la rappresentazione, quindi l’Io la nega, stabilendo la differenza tra realtà psichica ed effettuale. Perché allora Freud si complica la vita, cercando giustificazioni alternative? O c’è dell’altro?

La teoria edipica vale quel che vale; come tutte le mitologie non vale molto, perché i miti spostano a livello simbolico ciò che dovrebbero spiegare a livello reale; sono (ri)narrazioni dalle mille varianti, non spiegazioni.[2] Scoprono l’acqua calda, perché il caldo la scalda. Offrono solo una comprensione illusoria della realtà.[3] Dovendo a loro volta essere spiegati, non possono spiegare. La freudiana non è una teoria scientifica ma ad hoc, trasmessa d’autorità agli allievi in formazione senza possibilità di falsificarla, quasi un delirio. Il risultato “politico” è che se non ammetti l’Edipo esci dall’ortodossia freudiana, come a suo tempo Adler e Jung.

Convince ancora meno la sovrastruttura pseudo-topologica che Freud cala nella propria psicologia, ponendo l’affermazione all’ingresso e la negazione e all’uscita dell’apparato psichico; l’affermazione farebbe entrare nell’apparato ciò che soddisfa il principio di piacere; la negazione espellerebbe (Ausstossung) ciò che lo contraddice. Dico pseudo-topologica perché la contrapposizione dentro/fuori non è topologica ma di senso comune, la vera antitesi del senso scientifico. Premetto una necessaria precisazione tecnica, sulla topologia come scienza della res extensa, per altro ignota al Cartesio ancora euclideo.

In topologia si dice che un punto è interno a un insieme se vi è contenuto con tutto un suo intorno, cioè con un insieme aperto[4] che lo contiene; è esterno se è interno al suo complementare. In topologia punti interni ed esterni sono strutturalmente interni. I veri contrapposti agli interni sono i punti di frontiera, che non sono né interni né esterni, cioè non sono dentro né all’insieme né al suo complementare.[5] Oltre a non sapere nulla di topologia, all’epoca già formalizzata da Hausdorff, Freud, che pure parlava di topiche psichiche, non ebbe familiarità con le frontiere, a differenza del suo allievo Federn, che teorizzava il narcisismo con l’occupazione di frontiere dell’Io (Ichgrenze). Freud le evocava se gli servivano, per esempio ponendone una parziale tra l’Io e l’Es, per giustificare la rimozione da parte dell’Io di moti pulsionali dell’Es. Allora dove andava a parare Freud nel saggio che stiamo leggendo?

Queste pur banali considerazioni hanno una certa rilevanza. Introducono una questione, un tempo si diceva “a monte”. Perché mai, avendo alle spalle una teoria della negazione a suo modo plausibile, Freud sentì il bisogno di formularne una nuova a prescindere dalla mitologia edipica e per giunta discutibile? Di seguito provo a rispondere in via congetturale alla domanda. Devo, però, precisare che non criticherò Freud per confutarlo; so bene che la mitologia freudiana, come ogni mitologia, è inconfutabile perché prevede solo conferme; il mio intento è corroborare Freud con una teoria più scientifica della sua e meglio rispondente alla pratica clinica. Magari con un aiutino topologico, giusto per superare il senso comune e i suoi fatali presupposti. La mia ipotesi è che Freud volesse uscire dallo Zuidersee mitologico, per mettere piede su un terreno più solido, come 40 anni prima aveva tentato con il Progetto per una psicologia, rimasto incompiuto. È chiaro che ha fallito la seconda volta, ma i fallimenti non ci spaventano. Ce l’ha insegnato lui.

* * *
L’inconscio si può dire in tanti modi; così Aristotele diceva dell’essere. I modi freudiani di dire l’inconscio sono in sostanza due e difficili da conciliare: epistemico e ontologico. Nell’Interpretazione dei sogniFreud dà dell’inconscio la versione epistemica come sapere che non si sa di sapere; nei saggi metapsicologici invece ontologica come regno delle pulsioni.

Nel memorabile Capitolo VII Freud costruisce il processo primario come meccanismo simbolico – oggi si direbbe un automa – che alle rappresentazioni psichiche applica due regole sintattiche: la condensazione e lo spostamento, corrispondenti agli assi linguistici di Jakobson della selezione e della combinazione, alias metafora e metonimia nella versione logocentrica di Lacan. Nelle 640 pagine del libro il termine Trieb ricorre 34 volte, per lo più nel composto Triebkräfte, “forze pulsionali”, una sola volta come sexuelle Triebe, “pulsioni sessuali”.

Invece nei saggi metapsicologici, da Pulsioni e loro destini (1915) in poi, nell’inconscio spadroneggiano le pulsioni. È la versione ontologica dell’inconscio, meno scientifica e palesemente finalizzata alla terapia in senso ippocratico: mira a guarire agendo sulle cause morbose. L’oscillazione tra le due versioni genera l’ambiguità del pensiero freudiano, mai del tutto filosofico – ontologico – né del tutto scientifico – epistemico.

Cosa sono le pulsioni? Freud le definisce come forze costanti alla frontiera tra il somatico e lo psichico, all’“interno” del quale importano le rappresentazioni di stimoli somatici “esterni”; hanno sede in una parte del corpo, detta zona erogena, e tendono a una meta prefissata: la soddisfazione libidica. Nei termini della filosofia scolastica la pulsione è una virtus, una virtualità, cioè una potenzialità che tende a realizzarsi in un certo modo per raggiungere un certo fine prestabilito. All’ingenuo, non ancora deformato da qualche insegnamento scolastico, non dovrebbe sfuggire la circolarità della definizione. Perché l’oppio fa dormire? chiede il commissario d’esame al giovane dottorando nel Malato immaginario di Molière (1673). Perché ha la virtus dormitiva, risponde il neo-dottore, formato sulla filosofia scotista che riconosceva l’esistenza attuale del virtuale. Bravo! Perché c’è la coprofilia? Perché c’è la pulsione coprofila, cioè anale, risponde il dottore freudiano ortodosso.

A parte la vuotezza della definizione tautologica (a parte pure il riferimento a “forze costanti” che in biologia non esistono), risalta una peculiarità delle pulsioni freudiane: sono entità ontologiche, precisamente cause aristoteliche. Sono cause efficienti quelle sessuali, che producono la soddisfazione sessuale; è causa finale la pulsione di morte, che tende alla quiete dell’ultimo riposo, quella del Ruhebett (che significa anche “divano”). Una volta introdotte, le pulsioni installano nell’apparato psichico freudiano il rigido determinismo del principio di ragion sufficiente, di cui il principio di piacere è una variante: non esiste effetto psichico senza causa che lo produca; la rigida causalità interdice la casualità, quindi gran parte del territorio della scienza moderna. (La teoria delle probabilità nasce nel 1654 con Pascal e Fermat.) Così il freudismo esce dalla tradizione galileiana e si incanala nell’antico solco aristotelico dello scire per causas.[6]Tanto dovrebbe bastare a squalificare tutta la metapsicologia pulsionale con le sue pretese di “giovane scienza” (junge Wissenschaft). Se è scienza, è roba vecchia, déjà vu.

Cosa resta, allora?

La mia sensazione – nulla più di una sensazione – è che nel 1925 Freud si sentisse intrappolato nella propria mitologia e cercasse di uscirne, rivolgendosi come quarant’anni prima ad algoritmi più scientifici; ignorando sia Galilei sia Cartesio, l’algoritmo dentro/fuori gli sembrava promettente e conciliabile con l’aristotelismo della costruzione metapsicologica: il citato scire per causas, per Freud irrinunciabile.
Cos’ha di non scientifico lo scire per causas? L’aveva capito bene Aristotele. L’eziologia ha un nemico strutturale: l’infinito.[7]Se c’è l’infinito, non c’è possibilità di risalire lungo la catena delle cause e degli effetti fino alla causa prima che dà la conoscenza. Convocare l’infinito, come fa la scienza moderna, prima in matematica e poi nelle scienze che ne fanno uso, disabilita automaticamente il principio di ragion sufficiente, quindi lo scire per causas. Per la precisione la verità del principio di ragion sufficiente è narrativa: narra la storia degli effetti prodotti dalla catena delle cause. La prescientifica è una verità diacronica. La scienza galileiana opta per una forma alternativa di verità, quella sincronica, valida in ogni tempo, quindi senza tempo.[8]

Certamente Freud non ragionava così, ma da analista non poteva non avvertire la presenza della dimensione infinita nell’oggetto del desiderio come emerge in psicanalisi. Da qui la sua inquietudine teorica, che si estende per più di un decennio proprio dal saggio sulla negazione fino ad Analisi finita e infinita (1937). Non in ogni caso la negazione nega, questo è il dato clinico di partenza. Ma cosa non si può negare? Spinoza l’aveva già intuito e precisato nei primi assiomi dell’Etica. Ciò che non si può negare è l’infinito. L’infinito è innegabile, come la madre nel sogno del paziente di Freud. L’aveva quasi capito anche il suo analista nel citato Capitolo VII della Traumdeutung. Nell’inconscio non vale il principio di non contraddizione: non vale et non A, perché non A non nega A. Perché? Forse perché Apotrebbe tenere il posto dell’infinito.
Cosa si può dire della logica dell’infinito?
Innanzitutto, va detto che di logiche infinitarie ce n’è più d’una, tutte non aristoteliche. Quella che adotto è la logica intuizionista, individuata da Brouwer agli inizi del secolo scorso. La sua peculiarità sintattica è di sospendere sia il principio del terzo escluso (X vel non X, per ogni enunciato X) sia l’intercambiabilità dei quantificatori attraverso la doppia negazione: l’esistenza non equivale a negare l’universale negativa, cioè “esiste almeno uno che” non equivale a “non è vero che tutti non”, e “non esiste uno che non” non equivale a “tutti che”. La ragione della mia opzione intuizionista è freudiana e riguarda proprio la semantica della negazione.

Nel 1933 Gödel dimostrò che la semantica giusta per la logica intuizionista è infinita (numerabile), cioè contiene infiniti valori di verità o infiniti stati epistemici. Tarski e Kripke costruirono effettivamente semantiche intuizioniste infinite; il primo ne diede un modello topologico, il secondo ordinale con una relazione di ordinamento tra stati, detta accessibilità, riflessiva (ogni stato accede a sé stesso) e transitiva (se lo stato accede allo stato accede a C, allora accede a C).

In questa logica la negazione diventa un operatore infinitario, non molto diverso dall’“esiste almeno uno” e dal “tutti”. Affermare che l’enunciato Anon vale, cioè è falso, è un’enunciazione infinita nel senso che ammette che non valga qui e ora e neppure negli infiniti stati accessibili da quello in cui la negazione si enuncia. “Non è la madre” potrebbe essere un’enunciazione vera adesso, ma falsa in futuro. La correzione freudiana “è la madre” anticipa i tempi e prefigura il momento dell’elaborazione analitica quando l’analizzante riconoscerà la persona del sogno come la propria madre. En passant, questa logica fa spazio al tempo, epistemico se non cronologico. Il tempo cronologico non esiste nel modello epistemico di inconscio.

In altra sede ho dimostrato che la logica intuizionista ospita teoremi epistemici, validi per l’inconscio; ne cito un paio qui pertinenti: non si può non sapere (desiderare)se non sai (desideri), allora sai (desideri), che pone finalmente su solide basi non contraddittorie l’assunto freudiano della negazione che (talvolta) afferma. Basta utilizzare come operatori epistemici leggi classiche non intuizioniste, per esempio il terzo escluso per il sapere o la doppia negazione per il desiderare. Il sapere di Xdiventa X vel non X; il desiderare diXdiventa se non non X allora X.

La seconda coppia di teoremi citati: se non sai (desideri), allora sai (desideri), che mi piace chiamare rispettivamente teorema di Cartesio (sul sapere) e teorema di Lacan (sul desiderio), illustra in modo chiaro il processo della negazione che non nega ma afferma. Esiste il non sapere inconscio, questo è il dato freudiano di partenza. Il teorema di Cartesio afferma che il non sapere implica il sapere.[9] Allora, per il modus ponendo ponens [10] si conclude che esiste il sapere. Questa deduzione è più semplice e rigorosa della freudiana, basata sulla (ipotetica) rimozione, pur partendo entrambe dall’esistenza del sapere inconscio. Giustamente Lacan pose in esergo alla sua rivista Scilicet il motto tu peux savoir (“tu puoi sapere”). In base a un ragionamento analogo aggiungerei: “Tu puoi desiderare”.

Sospendere la negazione, riceverla come affermazione, accettare il rimosso, nella pratica della cura individuale, come anche fare della matematica non metaforica in teoria,[11] andando al di là delle tante ortodossie di scuola, come ho tentato in questa sede, tutto va bene per continuare l’analisi, almeno in prospettiva, nell’attesa di falsificare le congetture iniziali delle e della psicanalisi, individuali e collettive, magari per dare spazio all’infinito.

L’insegna Freud, il quale tuttavia restò esitante di fronte alla propria stessa innovazione. Convocare l’infinito, anche in modo indiretto attraverso la negazione che non sempre nega, metteva infatti a repentaglio il principio di ragion sufficiente, come ho già spiegato. Il risultato fu l’inibizione teorica di Freud, che già nella propria metapsicologia non aveva dato giustificazioni convincenti proprio dell’inibizione. Nel freudismo l’inibizione non si spiega in modo diretto, ma solo indiretto attraverso la sottrazione di energia pulsionale. Si può fare di meglio?
 

 

[1] Cito dalla traduzione commentata di Davide Radice, recentemente pubblicata da Polimnia Digital Editions, Sacile 2019.
[2] Non sto dicendo che le raccolte di favole popolari come quelle di Giuseppe Pitré in Sicilia o dei Grimm in Germania siano inutili. Rappresentano archivi di sapere collettivo a cui l’analista può attingere per illustrare i casi individuali.
[3] Senza contare le false deduzioni che si possono trarre dai miti, come l’invidia del pene dal mito edipico.
[4] Un aperto appartiene a una famiglia di insiemi tali che l’unione e l’intersezione finita sono ancora aperte. L’intorno di un punto è un insieme che contiene un aperto contenente il punto.
[5] Equivalentemente ogni intorno di un punto di frontiera contiene sia punti dell’insieme sia punti del complementare. La frontiera ha l’interno vuoto.
[6] “Uscire dal solco” è l’etimologia di delirare. Rientrando nel solco aristotelico Freud si illude di non delirare.
[7] Di conseguenza l’approccio eziologico al reale evita di principio (per non dire osteggia) il ricorso alla matematica. Freud condivide il pregiudizio rousseauiano della matematica come deviazione dalla sessualità. 
[8] La Zeitlosigkeit (l’assenza di temporalità) dell’inconscio fu un’intuizione scientifica di Freud.
[9] Riporto la dimostrazione intuizionista del teorema di Cartesio. Scrivo X vel non X per il “sapere di X”, ipotizzando che il soggetto “sappia” su quale alternativa scommettere. La necessità di scommettere sul vero risale a Pascal, uno dei primi teorici del calcolo delle probabilità.
Suppongo falsa l’implicazione [(se non(X vel non Xallora (X vel non X)].
L’implicazione è falsa se l’antecedente è vero e il conseguente falso.
Quindi vale [vero non (X vel non X), falso (X vel non X)].
L’alternativa è falsa se entrambi i termini sono falsi.
Quindi vale [vero non (X vel non X), falso X, falso non X].
La negazione è falsa se l’affermazione è vera. Sostituisco vero falso non.
Quindi vale [vero non (X vel non X), vero X]. (Questa è la mossa intuizionista che falsifica la negazione cancellando ogni falso dedotto in precedenza).
La negazione è vera se l’affermazione è falsa. Sostituisco falso vero non.
Quindi vale [falso (X vel non X), vero X].
Quindi vale [falso Xfalso non X, vero X].
Il teorema è dimostrato, perché dall’ipotesi che sia falso si deduce la contraddizione [falsoX,veroX].
[10] Da e da A implica B si deduce B.
[11] È facile riconoscere la matematica metaforica: è una pseudo-matematica senza teoremi, orientata a confermare per analogia una certa dottrina. Lacan ha prodotto matemi ma non un singolo teorema. Anche le elucubrazioni ontologiche di Deleuze sul calcolo differenziale non sono molto matematiche.
 

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1 commento

  1. dinange

    Vorrei intervenire su questo
    Vorrei intervenire su questo passaggio “La teoria edipica vale quel che vale; come tutte le mitologie non vale molto, perché i miti spostano a livello simbolico ciò che dovrebbero spiegare a livello reale; sono (ri)narrazioni dalle mille varianti, non spiegazioni.[2] Scoprono l’acqua calda, perché il caldo la scalda. Offrono solo una comprensione illusoria della realtà.[3] Dovendo a loro volta essere spiegati, non possono spiegare.” e sulla nota [2].
    Secondo me è vero che non spiegano, ma non è questa la funzione che le varie culture, nel loro divenire storico, assegnano ad essi, e alle fiabe, loro cugine di campagna. Funzione doppia, e cioè: terapeutica e preventiva. Ed il discorso delle varianti, come ha messo in luce illo tempore Propp, sta proprio a evidenziare la loro propensione ad ‘adattarsi’ alle esigenze non solo delle singole culture nel loro divenire storico, ma -se il buon raccontatore in situazione è in grado di cogliere le esigenze attuali della propria udienza, – perfino ogni volta ch’egli si accinge al racconto.
    Non si tratta quindi di ‘spiegazioni’, ma di intuizioni. Concordo quindi con la critica all’uso scolastico del mito di edipo, ma rilevo che è sminuente affermare che “le raccolte di favole popolari … Rappresentano archivi di sapere collettivo a cui l’analista può attingere per illustrare i casi individuali”, poichè non si tratta di un archivio incartapecorito, ma di un materiale vivo perennemente sottoposto a processi di trasformazione e adattamento, cui non solo l’analista, ma chiunque può attingere.

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