La difficoltà ad accettare la concezione di probabilità alternativa alla frequentista, appunto quella soggettivista (bayesiana), che intende la probabilità come grado di fiducia (degree of belief) o propensione alla scommessa equa del singolo individuo difronte a un evento aleatorio,[3] è secondo me dovuta a due “ragioni”, forse pregiudizi, ben radicati e diffusi nella cultura dominante. Li espongo brevemente.
1) La ragione principale è l’avversione alla scienza, segnatamente al soggetto che la pratica. Scontata la diffusa resistenza alla scienza, risalente ai tempi non lontanissimi dei processi a Bruno e Galilei, vige il pregiudizio che nella scienza tutto debba essere oggettivo, perché l’oggettivo è certo, il soggettivo incerto. È certo che ho investito un pedone, attraversando con il rosso; ma è incerto il racconto del testimone che ha assistito all’evento.[4] L’incerto non piace; si vuole una scienza certa come la religione, magari per contestarla come religione.[5] Allora funziona il tipico pregiudizio empirista della conferma, o confirmation bias, per cui l’essere umano si muove preferibilmente in ambiti di conoscenze acquisite: è vero solo ciò che si può “verificare” oggettivamente nei fatti. Si sa che la paranoia ragiona “solo” per conferme, che non sono necessariamente spiegazioni.[6] La difficoltà era ben nota ai primi fisici quantistici davanti a risultati che sfuggivano alla predizione, a certe misure aleatorie dipendenti dalla presenza dello sperimentatore. La verifica oggettiva sembrava inaccessibile al soggetto. Arrivata al vertice della conoscenza oggettiva con Newton, la fisica minacciava di decadere a pratica soggettiva come una scienza umana qualunque. C’era spazio per l’argomento capzioso dell’umanista: se la scienza rifiuta il proprio soggetto, allora rifiuto la scienza. Come dargli torto?
2) La probabilità soggettiva, intesa come grado di fiducia che accada un evento, dato un certo sapere (locale) sul contesto dove può avvenire, è una variabile individuale, diversa da soggetto a soggetto e da luogo a luogo; varia in funzione del sapere individuale sul reale. L’individuo valuta la probabilità non come frequenza ma come previsione della frequenza, anche se la frequenza non si può determinare empiricamente come nel caso di una scommessa. Le valutazioni individuali ovviamente variano da individuo a individuo.
Stando così le cose, la probabilità soggettiva calamita tutti i pregiudizi umanistici nei confronti della nozione di variabile, perché la variabilità compromette il principio di ragion sufficiente, basato sull’univocità della funzione causa / effetto, per cui possono esserci più cause ma deveesserci sempre un solo e ben determinato effetto.[7] Non esiste la variabilità degli effetti, data la stessa causa. Ne va della possibilità di scrivere la storia. Esemplare è tuttora l’opposizione popolare della teoria biologica della variabilità, inventata da Darwin.[8] I suoi “principi generali della variazione”:[9] trasmissione genetica di piccole modificazioni (descent with modification), sopravvivenza del più adatto alla riproduzione in un certo ambiente (natural selection), emergenza casuale di varianti, si basano evidentemente sulla probabilità. Data la prospettiva indeterminista e afinalistica del modello darwiniano di variazione-selezione, il senso comune, che predilige la certezza del Disegno Intelligente e gioca al lotto i numeri ritardatari, stenta a recepire il “lungo ragionamento” di Darwin.
Essendo variabile, il “soggettivo” è considerato sinonimo di “arbitrario”, quindi è censurato. Perciò si censura la probabilità soggettiva. Vige tuttora, specialmente nelle scienze umane, il detto vichiano verum et factum convertuntur,[10] che non prevede variabili soggettive: la verità non è variabile;[11] la verità vera è di fatto unica e oggettiva come la sua probabilità intesa come frequenza e può essere raccontata e annunciata a tutto il mondo come laverità. In questo senso Freud è vichiano; narrando i suoi casi clinici, non usa mai il termine Variabel. La libido, l’energia pulsionale, non ha unità di misura perché non varia; non ha quindi senso misurarne le differenze. Freud usa il termine “misura” (Ausmaß) esclusivamente nel senso qualitativo di più o meno. Ne risulta l’inconfrontabilità dei casi clinici e, a rovescio, la ricerca spasmodica della loro singolarità. È ovvio che tale approccio preteso oggettivo perde sia la variabilità sia una grossa fetta di oggettività: la covarianza, cioè come nello sviluppo le singole parti di un organismo variano le une rispetto alle altre.
Tuttavia, c’è un importante punto tecnico in cui Freud fa posto alla variabilità, senza nominarla come tale, ed è a livello dell’“attenzione ugualmente fluttuante” (gleichschwebende Aufmerksamkeit,[12] ben tradotto in portoghese come attenzione “equifluttuante”) dell’ascolto analitico. Si tratta di un’attenzione che oscilla intorno a un punto zero, senza stabilire una direzione privilegiata, direi a 360 gradi. L’attenzione, intesa come funzione trigonometrica – seno o coseno – si predispone a registrare la ripetizione come forma di ciclicità, elevandola a livello epistemico dal piano ontologico in cui si sviluppa.
La stretta dipendenza, per esempio ciclica, come appena detto, della verità dalla narrazione dovrebbe modificare il detto vichiano in verum et fabula convertuntur, perché non esistono fatti in sé, veri o falsi, forse neppure per chi compie il fatto, che se lo racconta in modo diverso da come è avvenuto o da come lo vede l’altro; esistono solo fatti narrati e tanti quanti solo le narrazioni. Queste, poi, possono essere vere o false, perché la verità è sempre un fatto linguistico. Negli anni Trenta del secolo scorso, limitatamente ai linguaggi formalizzati – ovviamente i linguaggi naturali non lo sono – Tarski formulò la corrispondenza metalinguistica: la neve è bianca se e solo se l’enunciato (o la narrazione) “la neve è bianca” è vero.[13]
Al fondo della contrapposizione tra le due concezioni di probabilità ci sta la profonda spaccatura della filosofia occidentale moderna, operata dal cogito ergo sum cartesiano. Da allora non c’è più corrispondenza univoca tra essere e sapere; ontologia ed epistemologia si separano e si contrappongono. Dalla parte della probabilità come frequenza oggettiva opera la concezione ontologica, che considera l’incertezza dell’evento una caratteristica ontica, intrinseca all’evento, frutto di un indeterminismo reale; dalla parte della probabilità come grado di fiducia soggettiva c’è la misura della nostra ignoranza, cioè dell’incompletezza del nostro sapere, per cui “tutto il verosimile è falso”, come sosteneva Cartesio,[14] che pure non affrontò mai esplicitamente il tema della probabilità pur trattando dell’incertezza.
Calando dal piano teorico, la contrapposizione ontologia/epistemologia si ripartisce tra due pratiche: l’ontologia rimane filosofica, l’epistemologia passa alla scienza; la prima si dedica tradizionalmente al vero nei modi della metafisica, la seconda al falso nella prospettiva di falsificarlo nei modi della fisica. Che la scienza operi con il falso e sul falso lo sanno bene i manipolatori e i diffusori di fake news, per esempio sui danni da vaccini. Perché avrebbero tanto successo se non contenessero un briciolo di verità sub specie falsi?
Secondo me anche l’inesperto di statistica e persino il fobico di matematica – “perché dice che non la capisce” – potrebbe essere curioso di conoscere la formula del teorema di Bayes, che è tanto semplice quanto profonda. Non entro nei dettagli. Si tratta di moltiplicare due probabilità come si moltiplicano le misure di due lati del rettangolo per calcolarne l’area:[15] una probabilità è soggettiva, l’altra oggettiva.
La probabilità soggettiva individuale è la probabilità a priori, o impregiudicata, di una certa ipotesi; è detta a priori perché viene prima della costatazione dei fatti ed esprime la convinzione “trascendentale” soggettiva. Moltiplicando la probabilità a priori per la verosimiglianza – questa sì è una probabilità oggettiva, cioè è la frequenza dei dati di osservazione nell’ipotesi da testare – si ottiene un valore proporzionale alla probabilità a posteriori dell’ipotesi, compatibile con le osservazioni effettive (con probabilità diversa da zero). Passando dalla probabilità a priori alla a posteriori, il teorema di Bayes dice come avviene e come si modifica l’apprendimento, osservati i fatti. La procedura di apprendimento bayesiana è tanto semplice da poterla trasferire su una macchina in via algoritmica. Sulla probabilità a posteriori, sintesi di sapere oggettivo e soggettivo, il soggetto può basare in modo coerente le proprie decisioni.
Ricapitolando, il teorema di Bayes è oggi considerato un modo ragionevole di modificare le proprie idee alla luce dei risultati empirici e di agire di conseguenza. Il verbo “modificare” è importante. L’esperienza non produce nuove idee, come pretende l’empirismo ingenuo – il cosiddetto induttivismo –, ma modifica il rapporto tra i “pesi” di idee preesistenti, che trascendono sempre il livello empirico, quando non sono mitologiche.[16] Lo dice anche il linguaggio corrente: apprendere significa “ponderare” i pro e i contro di ipotesi in gioco.
Oggi, a più di mezzo secolo di distanza dall’aneddoto riferito all’inizio, l’approccio soggettivista alla probabilità è diventato pratica corrente in diversi settori della scienza e della tecnica: diagnostica medica, meccanica quantistica e intelligenza artificiale (tra entusiasmi, crisi e rilanci) sono solo alcuni esempi.
In Italia la diffusione della concezione soggettivista delle probabilità alla Thomas Bayes (1763) fu merito di Bruno de Finetti (1906-1985), che intitolò significativamente il suo trattato in due volumi proprio così: Teoria delle probabilità (1970), al plurale.[17] Il plurale ricorreva già nel saggio di 39 anni prima: Probabilismo. Saggio critico sulla teoria delle probabilità e il valore della scienza.[18] Dal 1937, con La Prévision: ses lois logiques, ses sources subjectives,[19] poi tradotto in inglese,[20] de Finetti avviò la ripresa (durerà?) dell’epistemologia cartesiana (soggettiva) sull’ontologia aristotelica (oggettiva).[21] L’idea chiave di de Finetti, già in un saggio del 1926 di Frank P. Ramsey,[22] ma anticipata da John M. Keynes nel suo Treatise on Probabilitydel 1921,[23] è che la teoria delle probabilità sia una branca della logica: sarebbe la logica potenzialmente cartesiana dell’incerto, che Cartesio tuttavia non sviluppò.[24] Come fa notare Leonard J. Savage, dire che la probabilità di A, data l’evidenza di B, è di ¾ assomiglia molto a dire che la proposizione Aè per ¾ implicata dalla proposizione B.[25]
A quando una psicanalisi probabilistica, ovviamente bayesiana? La premessa psicanalitica che la giustifichi ci sarebbe. Se è vero che l’inconscio freudiano è un sapere che non si sa di sapere,[26]nel campo di incertezza epistemica potrebbe funzionare bene una teoria soggettivista delle probabilità, anche se Freud non fece mai accenno a probabilità né frequentiste né soggettiviste; parlò solo di verosimiglianza, in ciò favorito dalla lingua tedesca che ha un solo termine (Wahrscheinlichkeit) per due concetti che Bayes tenne ben distinti. Curiosamente, usato al negativo, il termine unwahrscheinlich riacquista in Freud la doppia significazione di "improbabile" e di "inverosimile", soprattutto per contestate una tesi avversa.
Aggiungo senza svilupparla una considerazione che renderebbe ragionevole l’introduzione in psicanalisi delle due probabilità, oggettiva e soggettiva. Mi riferisco alla sessualità. Freud sviluppò l’argomento correlando due dicotomie. La dicotomia oggettiva è la differenza anatomica dei sessi; la soggettiva è la polarità attivo/passivo, psichicamente articolata come sadismo/masochismo. Secondo Freud la polarità soggettiva precede la dicotomia oggettiva. Il soggetto nasce psichicamente con un solo sesso: quello attivo maschile, che possiede l’organo giusto, il pene. Chi non possiede il pene non è ancora femmina, è castrato.[27] La dicotomia oggettiva si raggiunge solo con la maturazione puberale. Solo allora la femmina si riconosce donna nella variante dell’edipo femminile, coniugato in senso materno, e le due dicotomie si sovrappongono. Freud non trattò il caso della transessualità, dove l’oggettivamente maschio si concepisce soggettivamente come femmina e l’oggettivamente femmina come soggettivamente maschio; rispetto alla presenza/assenza del pene, i transessuali sono i falsi positivi e i falsi negativi, che il determinismo freudiano non concepiva. Freud si accontentava di una generica e aspecifica bisessualità.
Nell’ambito della logica conversazionale Giampaolo Lai ha provato a sviluppare considerazioni probabilistiche intersoggettive, arrestandosi però alla soglia della formalizzazione matematica; le sue equazioni sono dimidiate nel senso che scrive p =, lasciando in sospeso (vuoto) il termine di destra.[28]
In ambito strettamente psicanalitico si potrebbe, per esempio, calcolare con la formula di Bayes-Laplace quante volte un sintomo debba ripetersi, prima che l’analizzante acquisisca la ragionevole certezza – per convenzione superiore o uguale al 95% – che l’interpretazione dell’analista sia giusta. Risolvendo per n l’equazione lineare (n+1)/(n+2) = 0,95, il risultato è sorprendente e dà da pensare: occorrono ben 18 ripetizioni (partendo dalla prima che ha di default il 66% di probabilità di essere giusta) per ottenere la certezza desiderata.[29] Simmetricamente l’analista scientificamente formato aspetterà almeno 18 ripetizioni del sintomo prima di enunciare la sua interpretazione, per essere sicuro al 95% che sia giusta. Considerazioni del genere, a Freud affatto estranee, attengono al problema del termine dell’analisi.
Questo programma di ricerca, inteso nel senso di Imre Lakatos,[30] offrirebbe l’occasione per correggere in via definitiva l’affermazione di Freud nel V capitolo del Compendio di psicanalisi sul Chiarimento alla teoria del sogno: “Le regole decisive della logica non hanno valore nell’inconscio, che è il regno dell’illogica”.[31] Freud si riferiva al coesistere dei contrari, trattati dal processo primario inconscio come identici. Ciò avviene di regola anche nel calcolo delle probabilità: lanciando una moneta, Testa o Croce sono eventi contrari, ma hanno la stessa probabilità, cioè sono in via probabilistica equivalenti. Riconoscere questa logica è anche dovere del soggetto della scienza.
L’insegna Lacan: “Si prepara la scienza rettificando la posizione dell’etica”.[32] L’etica annunciata dalla psicanalisi è assai prossima all’etica scientifica dell’incertezza. La sua massima recita: “Non trascurare ciò di cui sei incerto”, perché per il soggetto della scienza l’incerto conta più del certo – conta per promuovere la ricerca scientifica. Per il soggetto dell’inconscio nell’incerto abita il desiderio. La fissazione ontologica alla psicoterapia può oggi far velo all’etica epistemica del riconoscimento del desiderio, come nel 1937 fece velo a Freud in Analisi finita e infinita. Imponendo al soggetto la normalità collettiva della guarigione, la pratica oggettivante della psicoterapia cannibalizza la dimensione etica del desiderio singolare. Finita la psicoterapia, il soggetto può dire: “Sì, sto meglio ma non è quel che desideravo”. Viceversa, si danno non pochi casi che dopo una psicanalisi si assoggettano a una psicoterapia, spesso camuffata da seconda analisi, per azzerare la dimensione del desiderio aperta dalla prima; questa è secondo me una seconda rimozione.[33] Gli avversari della psicanalisi mi correggono: “Per riparare i guasti della psicanalisi”.
Purtroppo non posso raccontare tutto questo a GAM, che se ne andò dieci anni dopo l’episodio qui narrato.
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