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MIRKO, UN UOMO IN FUGA, UN UOMO LIBERO

5 Gen 20

A cura di Francesca Spinozzi

di Antonella Capoferri, Infermiera (Rete Nazionale Noi e le Voci)

Senza titolo, di Maurizio Romani 1978-1979

Mirko, (un nome di fantasia), è andato via. È scappato, è fuggito da tutto e da tutti, dal suo problema, “disagio” “disturbo”, “difetto”. Si è accorto, si è reso conto, ha realizzato quello che stava succedendo. Gli si chiede di funzionare, di essere funzionante, “congruo”. Lui non lo è, non lo era qui, ha trovato un posto dove può evitare il suo “difetto” e funzionare liberamente senza più quella sua ossessione pericolosa per sé e per gli altri. Si è accorto dei danni fatti e di quelli scampati.

La sua voce ha un nome e si chiama “Essenza Fondamentale”, non è facile farlo parlare della sua voce e, quelle poche volte che lo ha fatto, ha detto che “Essenza” non gli vuole bene, non può volergliene. Sente di non meritare quel bene e forse nemmeno lo vuole, non saprebbe che farsene. È solo. Vuole essere libero, non vuole prendere farmaci, non vuole fare le analisi del sangue, non vuole regole, non vuole ascoltare, non vuole mettere il pigiama, non vuole vivere con altre persone. Ci sono stati momenti molto lunghi in cui non voleva neanche mangiare, si vedeva grasso, obeso e descriveva i grassi e gli obesi come magri, figurini, fotomodelli. Era magrissimo. Alto con le spalle tipicamente curve, occhioni scuri e sorriso. Non lo vedo da quasi due anni, lo sento al telefono un paio di volte al mese e parliamo per ore. È molto intelligente e profondo, educato, istruito e gentile. Si preoccupa per gli altri, ama i fiori, gli animali, il mare e i paesaggi. Quando parla del suo passato si descrive come un verme, uno che ha sfruttato la sua famiglia, un parassita. Non vuole più pesare sugli altri, vuole avere le stesse capacità degli altri, capacità di autonomia … Mirko ha più di quarant’anni, non sa cos’è essere autonomi, avere un lavoro, avere amici o una fidanzata. Sta cercando tutto questo e sarà molto difficile per lui, più di quanto non lo sia per tutti. Vuole essere come gli altri, solo essere come tutti e si chiede perché a lui non è concesso essere come gli altri. Rifiuta l’aiuto di tutti e se si rende conto che potrebbe commettere un reato o un qualcosa che altri pagherebbero per lui, esprime il rifiuto. È una persona docile che vuole rendersi utile agli altri, guadagnare quel pane che mangia, quel letto in cui dorme. In questo momento vive di stenti, in strada perché non ha casa, si arrangia facendo saltuariamente qualche piccolo lavoretto sufficiente per un pasto ogni tanto. Non ha paura di essere definito un senza tetto o clochard, lo ritiene più dignitoso che essere ricoverato in ospedale, o vivere alle spalle di altri, lo ritiene un diritto. Rifiuta anche la piccola pensione che anni fa il padre lo obbligò ad accettare, non ne usufruisce perché pensa di restituire al padre un po’ di quanto lo stesso ha speso per lui, per ripagare i danni che lui ha fatto in passato e che non vuole fare più, ha scelto proprio quel posto così lontano che glielo permette. Inoltre non vuole essere un peso per la società, non vuole essere diverso o marchiato. È riuscito a raccontare alcuni episodi del suo passato che hanno contribuito a minare la sua autostima, in realtà sono tanti, ripetuti e perpetuati da persone che lui considera amici ma amici non sono. Ci sono persone che si sono divertite a prenderlo in giro ridendo del suo problema e spingendolo a commettere reati di cui lui non aveva consapevolezza. I fatti vissuti che ha raccontato sono caratterizzati da incomprensioni, riconoscimenti mancati, disistima, invisibilità, abusi di ogni genere, anche sessuali da parte di persone cosiddette normali, apparentemente “congrue”, che hanno sfruttato la sua ingenuità, il suo candore, la sua mitezza e la sua ossessione.

Pur non essendo mai stato violento ha rischiato la pericolosità sociale e di conseguenza il ricovero in una Rems. Gli era stata proposta più volte, in alternativa, la comunità terapeutica e ha rifiutato. I genitori avevano anche pensato di prendere una badante, o un badante, a tempo pieno che lo aiutasse a non avere quei comportamenti pericolosi ma ha rifiutato con grande convinzione. Non ha accettato e mai accetterà quanto gli viene chiesto. Testardamente vuole essere libero e capace di vivere da solo. Lo sta facendo a centinaia di chilometri da diciotto mesi. Non ha più quei comportamenti pericolosi perché nella città in cui vive attualmente non ci sono quegli oggetti del suo desiderio, della sua ossessione. Gli è stato chiesto di tornare e di mettersi alla prova dato che ora ha capito. Si rifiuta di farlo, probabilmente ha paura di rischiare o forse è solo contento di non avere più quelle pulsioni che lo tormentavano e davvero si sta sentendo più grande, più forte perché è riuscito a sopravvivere in un ambiente sconosciuto, da solo. Solo senza soldi, senza casa, per la prima volta si sente capace. Senza genitori, senza vicini di casa, senza medici, infermieri, psicologi e persone che conoscono il suo tormento e che pur volendolo accogliere non sempre ci sono riusciti, non come quegli sconosciuti che ha incontrato e che ancora incontrerà. 

Come avrei dovuto ascoltare, accogliere, accompagnare Mirko? Chi avrebbe potuto prendersi cura di lui? Quanto tempo ci vuole? Quali tecniche, quale approccio terapeutico sarebbe stato efficace? E chi dice che magari questa, da lui scelta, non sia la strada migliore? Chi può stabilire che la sua fuga non sia sana, non sia un costruttivo movimento di ribellione verso la “guarigione”? Come evolverà la sua vita? Rischia molto, non solo di morire di freddo! A lui non importa, la sua vita è stata a lungo un rischio, per sua decisione, e non. Una cosa bisogna riconoscere a Mirko: il coraggio. Il coraggio è quello che serve a tutti, anche a noi, anche ai servizi che a volte lavorano in sicurezza, per la sicurezza degli altri e non tanto per la persona che ha preso in carico. La pericolosità di Mirko era vera, grave, involontaria. Non sapeva, non conosceva le conseguenze delle sue azioni, voleva solo dimostrare a tutti di essere in grado di fare le cose che gli erano negate, ed erano negate solo a lui perché visto come “non in grado”, “incapace”, “inidoneo”… e invece incoscientemente le ha fatte, dapprima male, malissimo e poi, continuando nella sua folle ossessione, sempre più spesso in un crescendo di pericolosità, ha imparato, rischiando la morte sua e di altri. Ora che sa e non fa più nulla di tutto questo, è spaventato non solo di essere rinchiuso ma anche di poter nuocere ad altri gravemente.

Quella di Mirko è una storia di esclusione, di emarginazione. Ha cercato di farsi accettare di essere uguale agli altri che invece gli hanno costruito intorno un muro di etichette e giudizi negativi che non corrispondono affatto alla sua persona. Ho grande stima di lui. Nonostante la sua solitudine, nonostante quei muri invisibili, quelle trappole che i cosiddetti normali gli hanno messo sulla strada, ha finalmente preso in mano la sua vita e ha deciso per sé. Seppure l’evitamento non è una soluzione, potrebbe essere, per ora, il primo passo verso una sua crescita personale. Mi rendo conto che ci vorrà molto tempo e che le nostre telefonate sono per lui importanti dal punto di vista affettivo. Al momento si tiene costantemente in contatto con diverse figure per lui significative e che sono, oltre me, medici e psicologi che lo hanno seguito da anni. Rifiuta le telefonate dei suoi genitori. Si è recato con grande fiducia e speranza al CSM della città in cui vive e appena si è reso conto che gli venivano proposte le stesse soluzioni di sempre, che già qui aveva rifiutato, ha deciso di non andarci più.

We don't need no education. We don't need no thought control. No dark sarcasm in the classroom. Teacher, leave those kids alone… sono le parole di una canzone dei Pink Floyd ma è anche “il grido dell’anima” di Mirko che non vuole un altro mattone nel muro, e noi non lo saremo per lui.

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