Non si può dire che Brentano fosse platonico. Le tre o quattro dimostrazioni dell’immortalità dell’anima, che nel FedoneSocrate recitò poco prima di bere la cicuta, non fecero presa su di lui. “Ovviamente, poiché l’anima non esiste, non si può parlare della sua immortalità”.[2] Anche Cartesio non lo convinse. “Cartesio affermava che l’anima pensa sempre e che il suo non pensare significherebbe il suo non essere, ma è vero il contrario”.[3]
A tutti gli effetti Brentano fu aristotelico.[4] Citò Aristotele in 31 pagine su 528 della Psicologia – quasi una ogni 17 – contro le 2 citazioni di Platone. Prima di lui, anche per Aristotele l’anima non esisteva, perché, come per Freud, ne esistevano ben tre: vegetativa nel fegato, animale nel cuore e intellettiva nel cervello. Le prime due erano biologiche e mortali, mentre la terza godeva di un’immortalità sui generis, sopravvivendo nel collettivo e non individualmente. Nel complesso l’anima dava forma (morphé) al corpo materiale (ulé). Perciò ne condivideva il destino effimero di frontiera tra corpo proprio e dell’altro.[5]
Ed è subito aporia. Infatti, se è vero che “l’uomo pensa con la propria anima”,[6]come sosteneva Aristotele, allora la psicologia senz’anima è senza pensiero. Si uscirebbe dall’impasse supponendo che l’uomo pensi con il proprio oggetto, ad es. pensando l’impensabile infinito.[7] Ma Brentano attribuì scarso peso alla nozione di oggetto; lo liquidò come espressione “sinsemantica” (sic), contestuale e implicita in rappresentazioni, giudizi o affetti.
Pur esclusa l’anima, la psicologia di Brentano consente e promuove lo studio empirico della fenomenologia psichica, iniziando a classificare i fenomeni psichici (II volume). Brentano li ripartì in tre categorie: rappresentazioni, giudizi e movimenti affettivi, compresi interessi e amore;[8] secondo il curatore tedesco, riproducono in parallelo la tripartizione cartesiana in ideae, iudicia e voluntates. I fenomeni psichici sono retti da leggi empiriche derivabili dall’esperienza per via induttiva in base alla percezione interiore.
Il punto fermo della dottrina di Brentano è la percezione interiore, meta-percezione trascendentale, distinta dall’introspezione. È lei a garantire l’unità di coscienza, a istituirne l’intenzionalità e a conferire verità ai fenomeni psichici, appresi come dotati in sé e per sé di evidenza soggettiva “interna”, maggiore, benché relativa, dei fenomeni oggettivi “esterni”, per esempio nella percezione di luce e calore.[9]Oggi si parlerebbe di soggetto, termine non familiare al Nostro, che parla di sostanza.
Brentano dissodò il terreno in cui affonderà le sue radici il cosiddetto (male) intuizionismo di Bergson.
L’intenzionalità della coscienza passerà in toto alla fenomenologia husserliana e con qualche riserva al freudismo. Una volta alla settimana per due anni i giovani Husserl e Freud frequentarono i seminari viennesi di Brentano. Di certo il futuro fenomenologo ne trasse maggior frutto del futuro psicanalista. Tuttavia Freud mantenne la distinzione tra percezione interna ed esterna[10]contrapponendo la realtà psichica interna (Realität) all’effettuale esterna (Wirklichkeit), cioè l’antitesi tra i principi di piacere e di realtà; inoltre trasferì l’intenzionalità dalla coscienza all’inconscio.
Freud non recepì il postulato dell’unità di coscienza. Ma consolidò l’aristotelismo latente nella propria formazione medica polarizzando quello di Brentano in direzione del principio di ragion sufficiente, che attribuisce una causa a ogni effetto: factotum dell’apparato psichico freudiano fu la pulsione (der Trieb), termine assente in Brentano, come il tema della sessualità.
Insomma, il divario tra Freud e Brentano è ricco di chiaroscuri, difficili da chiarire ragionando in termini di terzo escluso: o solo chiaro o solo scuro. Perché rievocarlo, allora? Qualche ragione c’è. Serve, ad esempio, a contestualizzare la speculazione freudiana, segnalando i punti di attacco e di distacco rispetto ad altri autori, nel caso Aristotele, con cui Freud ebbe un rapporto ben diverso da quello di Brentano, mediato dalla Scolastica.
Freud non conosceva a fondo Aristotele; lo citò solo in riferimento al sogno. Di lui in biblioteca aveva solo la Poetica, da cui trasse la nozione di catarsi, per altro segnalata da Breuer. In realtà l’aristotelismo di Freud, in particolare il suo “imperativo bisogno di causalità”,[11]fu ippocratico, mediato dall’imprinting medico,[12] per cui ogni forma morbosa ha un agente morboso. Analogamente per Freud ogni effetto psichico ha una causa pulsionale. Gli eventi casuali, privi di causa, non esistono nell’apparato psichico freudiano. Le cosiddette associazioni libere non sono libere ma vincolate da complessi inconsci. Se, nella psiche al posto della causalità esistesse la casualità, la psicologia scientifica sarebbe impossibile, sembrava pensare Freud. Si sbagliava di molto.
Freud formulò chiaramente il dogma deterministico all’inizio del XII capitolo della Psicopatologia della vita quotidiana, intitolato Determinismo, caso e superstizione, punti di vista. Rileggiamolo: “Certe inadeguatezze delle nostre prestazioni psichiche e certe esecuzioni all’apparenza non intenzionali, applicando loro il procedimento della ricerca psicanalitica, si dimostrano pienamente motivate e determinate da moventi ignoti alla coscienza”.[13]
Ferenczi confermò l’enunciato, traducendolo quasi alla lettera: “Fatti in apparenza puramente casuali come i lapsus, le dimenticanze, il prendere una cosa per un’altra, la perdita di oggetti, buona parte degli errori e degli atti mancati della nostra vita pratica, si rivelano, se esaminati con i mezzi tecnici della psicanalisi, determinati dalla nostra volontà, o meglio da rappresentazioni volontarie inconsce”.[14]Più filosoficamente: “La principale conquista che dobbiamo alla psicanalisi è di averci permesso di dimostrare che i fenomeni della psiche sottostanno a leggi costanti e immutabili come i fenomeni dell’universo fisico”.[15]I maestri trasmettono i loro pregiudizi agli allievi; più pregiudizi, più allievi.
In tema di determinismo Freud e allievi patirono una doppia ignoranza teorica e pratica.
In teoria ignoravano che la casualità non esclude la certezza ma la sposta. Il lancio di una moneta equa produce singoli risultati incerti, ma per ragioni di simmetria è certo che la probabilità di Testa, il suo valore atteso, è ½, senza supporre alcuna causa efficiente o finale che lo determini. È difficile accettare la nozione di probabilità perché è meta-empirica, connessa più al soggetto giudicante che all’oggetto giudicato. L’indeterminismo del singolo evento non esclude la regolarità della serie di eventi aleatori; accettando di scommetterci, il soggetto la presuppone come legge del caso, un ossimoro per l’eziologia.
In pratica Freud and Company ignorarono la storia della scienza passata e recente. Non sapevano che il calcolo delle probabilità divenne scientifico nel carteggio tra Pascal e Fermat del 1654, due secoli prima che nascesse Freud. Neppure vollero riconoscere che ben due scienze recenti, la genetica e la meccanica quantistica, per loro rimaste lettera morta, erano essenzialmente probabilistiche. Ne parlo più avanti.
Tanto va detto per segnalare l’arretratezza scientifica del pensiero freudiano, un prezzo che tuttora noi freudiani paghiamo alla genialità di Freud. L’innovazione scientifica non fu il forte di Freud; inventò sì una scienzaex novo ma la pose sulle vecchie basi dell’eziologia ippocratica.[16] Gesù, grande affabulatore di parabole, avrebbe detto che Freud versò vino nuovo in otri vecchi. Mi dicono – e concordo – che, se Freud avesse presentato al pubblico la psicanalisi in versione scientifica hard, non come psicoterapia medica, non avrebbe avuto tanto successo. Una volta di più sulla scienza ha prevalso la ragione politica di una lobby professionale, che in modo opportunistico ha medicalizzato la psicanalisi, aggirando l’approccio galileiano, in pratica inutilizzabile. Oggi in Italia la psicanalisi è legalmente riconosciuta come psicoterapia. Giustamente, perché dopo il processo a Galilei, la scienza non ha più bisogno del riconoscimento giuridico da parte del potere.
Ignorandone la matrice, Freud accolse nella metapsicologia due cause aristoteliche: l’efficiente e la finale. Grazie a loro fondò la sua “giovane scienza” (eine junge Wissenschaft) sull’antico scire per causas. La causa efficiente agiva a livello delle pulsioni sessuali; realizzava la soddisfazione libidica prima orale, poi anale e infine fallica; (il livello scopico è raggiunto in seconda battuta a sviluppo libidico completato). La causa finale agiva in silenzio come pulsione di morte che, ripetendo in formato ridotto l’esperienza del trauma, ne riduceva progressivamente la perturbazione e portava il soggetto a uno stato di quiescenza (atarassia), prossimo allo stato inorganico.
Ebbene, pur presupponendo l’intenzionalità cosciente, Brentano non parla né di causa efficiente né finale. Non parla neppure di “vita dell’anima” (Seelenleben), mentre Freud la evoca ogni venti pagine dei suoi scritti. Last but not least, è assente in Brentano l’interesse psicoterapeutico; il suo intento è prettamente filosofico: avviare via San Tommaso una renaissance aristotelica tra i fumi dell’idealismo tedesco. Date tali differenze non da poco, c’è da chiedersi cosa Freud abbia appreso dai seminari di Brentano.
Alcune nozioni, come si è visto, sono passate da Brentano a Freud: la distinzione interno/esterno, l’intenzionalità psichica, per uno conscia, per l’altro inconscia; altre non sono passate, come l’unità dello psichismo. In senso inverso, praticamente nulla è passato da Freud a Brentano, nonostante la comune piattaforma aristotelica. Ma forse c’è da dire qualcosa di più che va oltre i singoli enunciati. Veramente in comune i due autori, il filosofo e il medico, ebbero verso la scienza moderna, la galileiana, lo stesso identico atteggiamento negativo, per non dire ostile, articolato in filosofie poco diverse: aristotelica in Brentano, ippocratica in Freud.
Si avverte, infatti, un tratto inquietante (unheimlich) in Freud, su cui gli agiografi “freudisti” (ma poco freudiani) sorvolarono.[17] Senza entrare nei dettagli, dico che avverto in Freud una forma di riluttanza, quasi un’avversione, all’aggiornamento scientifico, come se gli avanzamenti scientifici altrui non lo riguardassero. Pensava che avrebbero compromesso le sue faticose conquiste?
Segnalo in merito due fatti negativi, per me significativi, non messi bene in luce dagli storici del movimento analitico, che considerarono solo fattori “interni” ad esso, ritenendoli gli unici rilevanti, come le divergenze dottrinarie tra colleghi o le polemiche con ex-allievi, e trascurarono importanti riferimenti “esterni”, specifici del contesto culturale in cui quel movimento si muoveva. Secondo la nota distinzione di Kahneman, mi sembra che gli storici della psicanalisi, sia gli analisti da Freud a Jones, sia i non analisti da Peter Gay a Silvia Vegetti, abbiano applicato procedure di pensiero “veloci” a scapito delle “lente”.[18] È chiaro che i fatti positivi non fanno uscire dal sapere acquisito, confermando ciò che si sa già, mentre i negativi, confutando il sapere acquisito, potrebberofar uscire dalla clausura epistemica; è un trucco per difendere l’ortodossia non guardare fuori dalla finestra di casa.
Il primo fatto negativo da segnalare riguarda l’angustia dell’impostazione medica del freudismo. Mentre Freud scriveva i tre saggi sulla teoria sessuale, furono riscoperti, a quasi quarant’anni dalla loro pubblicazione,[19] i testi di Mendel, che inauguravano la genetica scientifica su base probabilistica; la loro importanza in medicina è oggi scontata, in quanto aprirono la porta alla vasta classe delle malattie genetiche. Negli scritti di Freud e allievi non risuona la minima eco dell’evento epocale, come se non riguardasse la loro “scienza”. Nelle 7000 pagine delle Sigmund Freud gesammelte Werke il nome di Mendel non ricorre. È tuttavia curioso che nessuno degli storici della psicanalisi da me consultati segnali tale assenza nella dottrina freudiana. Paradossalmente è assente l’assenza; anzi, negli storici avvenne la stessa assenza che nei soggetti di cui narrano la storia, quasi contagiati da pari ignoranza. Per Freud e i suoi interpreti la genetica rimase la psicogenesi dello sviluppo libidico in base alla costituzione dell’Io, ancora una volta un vecchio concetto ippocratico.
Ancora più grave è che gli storici della psicanalisi omettano di segnalare un’altra e più pesante omissione di Freud. La storiografia ufficiale non riferisce che Freud non citò mai Galilei; tale assenza è secondo me rilevante per l’interpretazione storica della psicanalisi.[20] Suggerisce l’ipotesi che la scienza freudiana non divenne mai galileiana, ma restò aristotelica. Freud non aprì mai il Dialogo sui massimi sistemi, dove il Pisano ridicolizzò impietosamente lo Stagirita, impersonato dall’aristotelico Simplicio. Non a caso Freud in biblioteca non ebbe le opere né di Galilei né di Cartesio. Rimase abbacinato da Leonardo.
Il secondo fatto negativo non è molto diverso dal primo; riguarda ancora la probabilità. Al fracasso epistemologico, prodotto dalla meccanica quantistica, Freud non fece caso. Una solida ragione l’aveva. Formulato nel 1926 da Heisenberg, il principio di indeterminazione indeboliva il determinismo newtoniano e la “rigorosa causalità” di natura locale, tormento di Einstein; a maggior ragione minava il sovra-determinismo freudiano. Meglio tapparsi le orecchie, che ascoltare certa musica. Sappiamo che Freud non aveva orecchio musicale.
In verità Freud soffrì di una sintomatica volontà di ignoranza; fu una forma di fobia dei fenomeni probabilistici in quanto incerti. Forse fu favorito dalla sua stessa lingua che ha un solo termine, Wahrscheinlichkeit, per i concetti distinti di “probabilità” e “verosimiglianza”, il primo epistemico, il secondo ontologico (v. La probabilità in psicanalisi? http://www.psychiatryonline.it/node/8299). Alla probabilità Freud preferì la somiglianza alla verità; pretese dalla scienza una certezza che solo la religione può dare. Allora regredì ai miti presocratici, dispensatori di certezze metaforiche, invece di aprirsi al progresso delle nuove scienze che aprivano orizzonti di calcolata incertezza. L’ilozoismo della filosofia presocratica fu il terreno di coltura del vitalismo freudiano; culminò, infatti, nell’invenzione della pulsione di morte.
Certo, Freud fu un conquistador, così si autodefinì nella lettera a Fliess dell’1 febbraio 1900; conquistò il territorio dell’inconscio e sentì il dovere di difenderne i confini, pur non essendo “un uomo di scienza, un osservatore, uno sperimentatore, un pensatore”.[21] Forse, resistendo alla scienza galileiana, Freud salvò provvisoriamente la psicanalisi, salvaguardando l’invenzione dell’inconscio. Il salvataggio avvenne a prezzo dell’inattualità: la scienza freudiana, essendo aristotelica, è oggi inattuale e perciò apprezzata dagli ortodossi.
Ma noi freudiani di oggi, se non siamo freudisti, possiamo addurre le stesse ragioni di Freud per giustificare le nostre resistenze all’avanzamento scientifico della psicanalisi? Perché parliamo ancora di libido e di pulsioni? Perché temiamo le moderne neuroscienze? La vera domanda imbarazzante, che perciò rimuoviamo, è: perché noi freudiani resistiamo alla scienza galileiana? (Sul tema rimando a "La psicoanalisi secondo Galilei" http://www.psychiatryonline.it/node/6300). Non ci ha insegnato Lacan che nell’inconscio abita il soggetto della scienza? Resistere alla scienza significa allora resistere all’analisi?
Invito a riflettere su un dettaglio, ancora una volta in absentia: nella storia del movimento analitico non c’è stato un maestro che insegnasse la scientificità della psicanalisi nel senso galileiano “delle sensate esperienze e delle dimostrazioni necessarie”.[22] Neppure Lacan, che pure riconobbe l’affinità tra soggetto del desiderio inconscio e soggetto della scienza, ammise apertis verbisla scientificità della psicanalisi. Giustamente, perché la scienza galileiana, e con lei la psicanalisi, non l’insegna il maestro al discepolo, ma si apprende in collettivi di pensiero alla Ludwik Fleck,[23] non in quelli ruotanti attorno all’identificazione a un Führer, come la Chiesa e l’esercito, descritti da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io. “Tra il soggetto e l’oggetto esiste un terzo, la collettività – scrisse Fleck. È creativa come il soggetto, ribelle come l’oggetto e pericolosa come una forza elementare”.[24]
Personalmente le neuroscienze non mi disturbano; le conosco, le apprezzo e continuo ad aggiornarmi sul loro evolvere; ma riconosco senza patemi che, se mai prenderà piede, la psicanalisi scientifica non sarà neuro-scientifica; avrà i propri presupposti che non saranno né fisici né biologici ma psicanalitici. E saranno schiettamente freudiani: l’esistenza dell’inconscio, l’esistenza della rimozione originaria, l’acquisizione differita del sapere. Ultimamente ho aggiunto la supposizione di sapere nel transfert, secondo Lacan.
Per me, da sempre freudiano non freudista (lacaniano non lacanista), né ortodosso né eterodosso,[25] i citati presupposti freudiani, liberati dall’aristotelico involucro ontologico, confezionato attorno a loro da Freud, offrono spunti per continuare a scavare nella psicanalisi scientifica, a prescindere dalla psicoterapia. Magari, a differenza di Freud, prestando orecchio – il terzo di cui parla Reik – ai risultati paralleli che tra tante incertezze i fisici quantistici vanno scavando nel loro campo, dove, da vera ed eterna immortale, l’anima potrebbe rifarsi viva, annunciando il ritorno a pieno titolo del soggetto cartesiano della scienza.
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