Mi faccio da tempo questa domanda, vagliando le mie reazioni alle dichiarazioni, confessioni ( o presunte tali) di analizzanti che si muovono sul campo perverso, ma non solo.
Con perturbante non intendo ovviamante dire schifoso, lascivo, viscido o volgare. La corazza di un analista non è certo intaccata da contenuti , consci od inconsci, che tocchino l’osceno.
Mi riferisco invece a quei discorsi dell’analizzante che ’perturbano’ l’analista, in senso freudiano, fanno cioè correre quel sottile senso di angoscia misto a malessere, un inquietudine che come una nota stonata resta in testa anche molti giorni dopo la seduta.
Il perturbante freudiano è qualcosa che inquieta perché da l’impressione di essere già stato vissuto, sentito, odorato, avvicinato. Ed è proprio il suo ritorno che turba , non ciò che esso rappresenta. Ripeto, non si parla di cose ‘spaventose’
‘ Ho pensato al corpo di mia sorella morto che ritornava in vita’,‘ Ho immaginato come fosse vedere quella troia mentre soffre schiacciata da un auto’.
‘ Ci siamo fatti assieme mentre correvamo ai 160 sull’autostrada’.
Nessuna di queste frasi, oscenità esibite, ha avuto su di me effetto perturbante.
Questo perché l’analisi somiglia alla narrazione di ‘Occhio nel cielo’, di Philip Dick. In quel racconto ciascuno dei sopravvissuti all’esplosione del bevatrone allestisce e dà forma a un mondo a sua immagine e somiglianza, come accade spesso in seduta.
Non sono per me stati perturbanti racconti di nequizie, efferatezze, desideri di sopraffazione. Ma lo fu una frase di una giovane donna: ‘ Mia zia ha la Sla’.
Tale frase ridestò in me il ricordo di un infanzia nella quale un mio caro venne colpito da tale patologia, in modo subitaneo e feroce. Qualcosa che credevo sistemato, messo al suo posto. Qualcosa che , nonostante il lavoro fatto, le sedute di supervisione, tornava. ‘Il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto, e invece è affiorato’ scriveva Freud . Per preservare la posizione di analista, dissi no alla domanda della ragazza, e la indirizzai ad un collega.
Credo che il desiderio di un analista, la sua capacità di mantenere quella posizione stia nel saper maneggiare le proprie questioni irrisolte impedendo che sfocino in agiti controtransferali, questioni che spesso si annunciano in guisa di perturbante.
Quante migliaia di pagine ho letto, e discusso, sul concetto di controtransfert, sulla necessità del controllo del caso clinico, come bastioni capaci di metterci in guardia dall’aver o meno indagato aree nascoste che, se inavvertitamente calpestate , possono liberare un Golem capace di sfasciare l'analisi.
Credo che leggendo Freud, e mettendo in tensione le parole degli analizzanti col proprio vissuto, sia possibile isolare ciò che può sfociare in slavina controtransferale fiutandone da subito l’odore perturbante.
Non tutto ciò che è rimosso e torna è perturbante, è Freud che ce lo insegna.
Non basta il passato, non basta la lividezza del cadavere che torna. Può in alcuni casi essere piu’ spaventevole un foruncolo sulla guancia del paziente che fa ricordare la malattia esantematica che ci portò via il fratellino o la sorellina. Ed è li che l’analista può cadere.
Dico questo per fare un falò di affermazioni quali ‘ io ne ho sentite tante…’, ‘ io ascolto cose così terribili che…’,che vorrebbero sottintendere un clinico fortissimo, blindato, capace di tenere la propria posizione in qualsiasi frangente.
L’analista, anche quello in apparenza corazzato, cade di fonte a ‘ quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo, ma che ci è familiare’.
E’ su questo che deve esser capace , da subito, di chiudere un analisi allorquando refoli di ricordi gelidi spifferano nello studio e innervano un dolore sottile che egli non riesce a superare.
‘ La mia depressione è molto forte’ furono le frasi che diedero il via al crollo di una mia analisi, parole insostenibili da chi pareva capace di fronteggiare tutto.
Vedere qualcuno che non ce la fa , che richiama impotenza, furono quel perturbante che fece crollare tutto.
Io, proprio perché ho visto franarmi addosso ciò che avrebbe dovuto riabilitarmi, ho saputo dire no a chi chiedeva aiuto portando in questione la medesima malattia che ipotecò la vita di un mio familiare.
Perché se ancora ciò affiorava come elemento perturbante, avrei tradito la mia posizione.
Mi chiamai fuori per non essere di nocumento al paziente.
Con perturbante non intendo ovviamante dire schifoso, lascivo, viscido o volgare. La corazza di un analista non è certo intaccata da contenuti , consci od inconsci, che tocchino l’osceno.
Mi riferisco invece a quei discorsi dell’analizzante che ’perturbano’ l’analista, in senso freudiano, fanno cioè correre quel sottile senso di angoscia misto a malessere, un inquietudine che come una nota stonata resta in testa anche molti giorni dopo la seduta.
Il perturbante freudiano è qualcosa che inquieta perché da l’impressione di essere già stato vissuto, sentito, odorato, avvicinato. Ed è proprio il suo ritorno che turba , non ciò che esso rappresenta. Ripeto, non si parla di cose ‘spaventose’
‘ Ho pensato al corpo di mia sorella morto che ritornava in vita’,‘ Ho immaginato come fosse vedere quella troia mentre soffre schiacciata da un auto’.
‘ Ci siamo fatti assieme mentre correvamo ai 160 sull’autostrada’.
Nessuna di queste frasi, oscenità esibite, ha avuto su di me effetto perturbante.
Questo perché l’analisi somiglia alla narrazione di ‘Occhio nel cielo’, di Philip Dick. In quel racconto ciascuno dei sopravvissuti all’esplosione del bevatrone allestisce e dà forma a un mondo a sua immagine e somiglianza, come accade spesso in seduta.
Non sono per me stati perturbanti racconti di nequizie, efferatezze, desideri di sopraffazione. Ma lo fu una frase di una giovane donna: ‘ Mia zia ha la Sla’.
Tale frase ridestò in me il ricordo di un infanzia nella quale un mio caro venne colpito da tale patologia, in modo subitaneo e feroce. Qualcosa che credevo sistemato, messo al suo posto. Qualcosa che , nonostante il lavoro fatto, le sedute di supervisione, tornava. ‘Il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto, e invece è affiorato’ scriveva Freud . Per preservare la posizione di analista, dissi no alla domanda della ragazza, e la indirizzai ad un collega.
Credo che il desiderio di un analista, la sua capacità di mantenere quella posizione stia nel saper maneggiare le proprie questioni irrisolte impedendo che sfocino in agiti controtransferali, questioni che spesso si annunciano in guisa di perturbante.
Quante migliaia di pagine ho letto, e discusso, sul concetto di controtransfert, sulla necessità del controllo del caso clinico, come bastioni capaci di metterci in guardia dall’aver o meno indagato aree nascoste che, se inavvertitamente calpestate , possono liberare un Golem capace di sfasciare l'analisi.
Credo che leggendo Freud, e mettendo in tensione le parole degli analizzanti col proprio vissuto, sia possibile isolare ciò che può sfociare in slavina controtransferale fiutandone da subito l’odore perturbante.
Non tutto ciò che è rimosso e torna è perturbante, è Freud che ce lo insegna.
Non basta il passato, non basta la lividezza del cadavere che torna. Può in alcuni casi essere piu’ spaventevole un foruncolo sulla guancia del paziente che fa ricordare la malattia esantematica che ci portò via il fratellino o la sorellina. Ed è li che l’analista può cadere.
Dico questo per fare un falò di affermazioni quali ‘ io ne ho sentite tante…’, ‘ io ascolto cose così terribili che…’,che vorrebbero sottintendere un clinico fortissimo, blindato, capace di tenere la propria posizione in qualsiasi frangente.
L’analista, anche quello in apparenza corazzato, cade di fonte a ‘ quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo, ma che ci è familiare’.
E’ su questo che deve esser capace , da subito, di chiudere un analisi allorquando refoli di ricordi gelidi spifferano nello studio e innervano un dolore sottile che egli non riesce a superare.
‘ La mia depressione è molto forte’ furono le frasi che diedero il via al crollo di una mia analisi, parole insostenibili da chi pareva capace di fronteggiare tutto.
Vedere qualcuno che non ce la fa , che richiama impotenza, furono quel perturbante che fece crollare tutto.
Io, proprio perché ho visto franarmi addosso ciò che avrebbe dovuto riabilitarmi, ho saputo dire no a chi chiedeva aiuto portando in questione la medesima malattia che ipotecò la vita di un mio familiare.
Perché se ancora ciò affiorava come elemento perturbante, avrei tradito la mia posizione.
Mi chiamai fuori per non essere di nocumento al paziente.
Premesso che è libera scelta
Premesso che è libera scelta quella dell’analista di passare la mano, ho alcune perplessità. Primo, inviare un paziente non è mai una decisione che non impatti negativamente sul paziente stesso. Che spiegazione si da di questo invio? La verità? Ma allora perché non dirla subito e provare ad andare avanti? I pazienti sono molto solidi (sono abituati ad essere i terapeuti dei loro familiari o i capri espiatori) e comprendono tutto. Inoltre una self-disclosure dell’analista può dare una svolta alla terapia come sottolinea Yalom.
Poi non capisco: se l’analista si accorge di questa ferita ancora non rimarginata, perché non approfittarne? In fondo, sappiamo, si sceglie questo mestiere per cercare di guarire. Ci sono tanti strumenti, supervisione, intervisione, supplemento di analisi e 1000 altri. Mi pare che quella di abbandonare il campo sia, tra tutte, la scelta peggiore.
Questo articolo fa parte di
Questo articolo fa parte di una breve serie di interventi che documentano gli effetti collaterali dell’abbandono da parte dell’analista, cosa che io ho aspramente sperimentato sulla mia pelle.
La mia non è stata una chiamata fuori, quanto un non procedere, consapevole di mieli limiti che avrebbero sicuramente indicato il percorso del soggetto.
Da ultimo è sicuramente una libera scelta il chiamarsi fuori dell’analista, dipende da come lo fa. Le modalità di uscita da un luogo nel quale sei legato con lembi di pelle devono seguire indicazioni di chirurgica cautela e precisione. L’analisi è un abito su misura, costruito con fatica sartoriale, come per tutti gli analizzanti. Qua si marca la differenza tra la psicoterapia standardizzata e l’opera di sartoria uno per uno dell’analisi. Nel corso del tempo analitico, possono accadere molte cose, diverse interferenze concorrono a mutare il rapporto portandolo ad una deriva di tipo malsano. Cambiamenti e distorsioni che si iscrivono su un abito che ha avvolto il paziente. Nei corsi di preparazione per volontari , una delle prime cose che vengono insegnate in caso di incendio, è quella di non strappare mai brutalmente i drappi dal corpo dell’ustionato, perché si corre il rischio di cavare via brandelli di carne. Quell’abito va tolto con mano da orefice, quale dovrebbe essere quella dell’analista.