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DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE COME MALATTIE DELLA VOLONTÀ

9 Mar 20

A cura di Giovanni Abbate Daga

La rubrica Fast Food torna con un nuovo contributo di Nadia Delsedime.

Il tema discusso è cruciale, decisivo: fino a quando un soggetto che soffre di una forma grave e maligna di disturbo dell’alimentazione è in grado di autodeterminarsi? Fino a quando può essere lasciato solo nel provvedere al suo diritto e ai suoi bisogni di salute? La domanda non ha risposte facili e preordinate, ma non può non essere formulata. Nelle ore più buie è la domanda che di volta in volta risuona nella mente e nel cuore di tutti. Persona affetta, familiari, amici, curanti. Una domanda a cui bisogna dare voce – dare corpo mi viene da scrivere – affinchè non rimanga inespressa e non negoziabile o peggio ancora non rimanga un rimpianto.

Lo spirito dei tempi esalta il valore inestimabile dell’individuo, allargando in tal modo il recinto sacro in cui è sovrano assoluto. Ma agli uomini dei secoli passati era esperienza familiare che (al di là del concetto di homo faber suae quisque fortunae) spesso invece la vita è governata dalla forza di ἀνάγκη, la necessità. L’immagine antica evocata da ἀνάγκη è quella di essere costretti, schiacciati, spinti a forza in una stretta gola. Per questo bisogna ricordare che le malattie sono ἀνάγκη, perdita di gradi di libertà, restringimento dell’orizzonte del possibile. È così anche l’anoressia nervosa: da apparente scelta iniziale diventa cammino obbligato, valanga, impossibilità di liberarsi.

Non è facile prendere posizione in contrasto al desiderio di essere sempre più magri. Talora per l’individuo non è possibile e sovente si crede pericolosamente mosca cocchiera. Non è facile per i genitori. E non è facile per i curanti. Per questi ultimi in particolare si pone il doppio compito conflittuale di dare tempo a chi soffre, comprendere le sue ragioni, i suoi valori, le radici della sua sofferenza e il suo bisogno di emaciazione, ma anche di mettere un limite, contenere, arginare la marea montante di una malattia mortifera. Con arginare non intendo tanto e solo le misure di tutela previste dalla legge – benchè queste siano strumenti possibili e in alcuni casi anche doverosi dopo i fallimenti dei percorsi di cura – ma una presenza ferma e irremovibile, una presenza che delinei i confini, che sappia decidere quando la soglia dell’incontro dialogante, deve diventare frontiera invalicabile, baluardo difensivo dall’informe e dal selvaggio, prevenzione del massacro della foresta di Teutoburgo, rifiuto di una folle spedizione senza ritorno nel mondo inabitato del deserto.

Posso dire di avere affrontato, discusso e vissuto questo dilemma molte volte assieme a Nadia e assieme a tutta l’équipe del centro DA di Torino. Spesso è difficile, ma con la collaborazione di tutti, familiari in primis, si impara a non tirarsi indietro in questa difficile e lunga peregrinazione che è la cura. L’auspicio è che alla fine della stretta gola di ἀνάγκη vi sia il disvelamento di un varco e la rifioritura del possibile.

Giovanni Abbate Daga

 

DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE COME MALATTIE DELLA VOLONTÀ.

Desiderio di essere versus obbligo di curarsi

Di Nadia Delsedime

Definizione di volontà: facoltà propria dell’Uomo di tendere con decisione e piena autonomia alla realizzazione di fini determinati. Nel diritto, con riferimento alla capacità di agire dei soggetti in corrispondenza della facoltà di intendere e volere.

La premessa era necessaria per dire che il volere presuppone una buona capacità decisionale e una piena autonomia. Ebbene, per venire al nocciolo della questione, entrambi questi punti risultano inficiati dalla malattia nei casi gravi di Disturbi dell’Alimentazione (Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa, Binge Eating Disorder).

Laddove all’inizio il disturbo si sia basato su un accenno di volontà (di perdere peso, di acquisire più massa muscolare, etc.), dopo poco tempo si può affermare che esso si autonomizzi, slatentizzando un circuito somato-psichico che si automantiene. Il cervello attraverso i circuiti dopaminergici e serotoninergici produce inizialmente piacere e benessere. Ma poi presto tutto questo si trasforma in dipendenza e depressione. Compulsione che difende dal malessere. Compulsione che si distanzia sempre più dalla volontà. Una volontà inizialmente forte che viene pervertita al servizio della morte.

Raramente chi ha un DA vuole davvero morire. Ma corre il rischio di morire senza accorgersene. Questa è la caratteristica di tutte le dipendenze patologiche (alcool, droghe, farmaci, gioco d’azzardo, sesso), dove si intrecciano il piacere e la sofferenza, la vita e la morte. Dove si instaura una compulsione, una pulsione a ripetere, una necessità di bere dal calice che dispensa al tempo stesso piacere, oblio, colpa e punizione. Un modo di sentirsi vivi che sfiora costantemente la morte con una carezza, il bisogno della sfida, di sentirsi forti -magari onnipotenti-, di sentirsi VIVI, di espiare una colpa punendosi. Un bisogno che si illude di essere sotto un controllo volontario, finché non si tocca con mano che il controllo lo si è perso irrimediabilmente. E ci si ritrova su un toboga che corre all’impazzata. Malattie della volontà e malattie del controllo. Portare all’estremo il bisogno di controllo fino a perderlo. “La gabbia d’oro”, come descriveva Hilde Bruch l’Anoressia Nervosa; una gabbia dorata che imprigiona e soffoca fino alla morte. Senza che ci sia consapevolezza di ciò. Si muore senza rendersene conto. Questo è il dramma dell’Anoressia o della Bulimia Nervosa. Perciò non si chiede aiuto, o quando lo si chiede è talvolta tardi.

“Ce la faccio da sola/o”, un mantra ascoltato mille volte, basato sull’illusione di un corpo ancora energico nonostante l’emaciazione, nonostante l’usura del vomito e dell’attività fisica. Una falsa energia che inganna, il canto del cigno prima della morte.

Oppure si chiede aiuto ma la sirena della malattia è talmente forte che impedisce di accoglierlo, di fidarsi, di affidarsi. Si collabora parzialmente, si fa e si disfa una infinita tela di Penelope. Si segue una parte del percorso e poi lo si abbandona. Si ricomincia sempre da capo, alimentando un circolo vizioso di colpa e sfiducia. Fino a dire “tanto non serve a niente!”.

E in tutto ciò non esiste solo il paziente, il malato; intorno a lui/lei gravitano in primis una famiglia, magari fragile e con le proprie difficoltà ma messa all’angolo da una malattia che spesso risulta incomprensibile, una malattia che interroga e non trova risposte. Una famiglia che va a sua volta supportata, aiutata, ascoltata, curata. Una famiglia senza parole che deve ritrovare la capacità di dirsi. Queste malattie tolgono la capacità di dire. Di dialogare, di raccontare. Queste malattie congelano nella paura, nella sfiducia reciproca e nella rabbia. Allontanano invece di avvicinare.

E poi ci sono gli amici, gli insegnanti, talora solleciti, talora sgomenti e impauriti. Talora in fuga. E infine viene la rete dei Curanti (Psichiatri, Psicoterapeuti, Nutrizionisti, Dietisti, Educatori, Assistenti Sociali), che lotta al fianco del paziente, che prova e ci riprova, talvolta fallisce ma non molla. La rete che deve accogliere, contenere le angosce (holding), ma anche mettere degli argini e dei limiti forti al dilagare della malattia e alla morte. Una rete che deve essere madre e padre al tempo stesso. Che deve riparare ferite e far esperire emozioni correttive.

Una paziente che ha lottato contro l’Anoressia e ne è uscita ha scritto nel libro che ha pubblicato: “L’anoressia è una malattia che colpisce le persone sensibili, ma soprattutto non riguarda le persone deboli. Resistere all’istinto della fame è infatti difficilissimo…perchè mangiare è un istinto primordiale: il cibo è uno dei primi piaceri della vita. Quindi tutte le persone che ho incontrato durante il mio lungo percorso, affette da questi problemi, sono persone fortissime. Il problema è che hanno incanalato la loro forza nel modo sbagliato. Ed è ciò che ho fatto io per anni. Invece di sfogare la mia rabbia, le mie pressioni, le mie ansie, mi sono chiusa a chiave in una gabbia, in una cella buia, senza finestre. E le chiavi ce le avevo io, ma avevo troppa paura di usarle, troppa paura del mondo fuori.” (A. Miglietta, Luce, 2017)

Malattia come autocura di cui si perde poi il filo e il senso, e ci si smarrisce in un labirinto buio dove si vaga fino allo stremo se non si accetta l’aiuto, la luce, che viene da fuori. Malattia delle persone forti, travolte dalla loro stessa forza e volontà.

I Disturbi Alimentari, malattie dello sguardo oltre che del controllo, del bisogno di attirare e respingere al tempo stesso lo sguardo altrui, uno sguardo desiderato e odiato simultaneamente, temuto e amato. Uno sguardo che è anche bisogno di contatto, cercato e rifuggito.

Il caso Ellen West pubblicato da Binswanger nel 1944-45 è un fulgido esempio delle dinamiche di queste patologie; qui si intrecciano depressione e disturbo alimentare in una danza mortifera che si alterna per anni. Alcune frasi di Ellen meritano di essere riportate: “Da quando vedo nella voracità la vera idea ossessiva, essa mi è piombata addosso come una belva.” “Due cose mi tormentano: in primo luogo la fame. In secondo luogo la paura di ingrassare. E da questi lacci non vengo fuori. Orrenda sensazione di vuoto…è una oscura sensazione di vuoto nel cuore, una sensazione di angoscia e di abbandono. … Nel mangiare io cerco di soddisfare due cose: la fame e l’amore. La fame viene appagata, l’amore no! Resta il gran buco non riempito.”

La funzione del sintomo viene qui ben esplicitata, una funzione che è insostituibile per certi versi. Perciò in tanti, se non in tutti i pazienti, si coglie quella potente resistenza al cambiamento e al trattamento che in qualche modo “protegge” il sintomo dalla cura.

Cosa sarebbe il paziente senza il sintomo?

E’ talmente tanta la paura di scoprirlo che molti preferiscono non curarsi. Il sintomo diventa poco a poco identità, una identità che appaga il desiderio di essere del soggetto, di essere visto e ascoltato. Una identità forte, scioccante a volte. Una presa di posizione contro il mondo, un urlo contro l’Altro. Una ribellione, una affermazione. Come si può quindi rinunciare ad una tale identità? Solo che l’identità poco a poco sbiadisce in un pieno di malattia che allaga ogni altro proposito, l’identità diventa solo un’identità malata. Il soggetto si smarrisce.

Il sintomo è l’unica proprietà delle pazienti anoressiche, e possiamo quindi comprendere perché vi sono così terribilmente attaccate” (Birot, Chabert, Jeammet; Curare l’anoressia e la bulimia; 2006).

E’ qui che deve intervenire un limite, anche forte ed estremo come l’obbligo di cura, come un TSO, come una Misura di Protezione (Interdizione o Amministrazione di Sostegno allargata) decisa da un Giudice Tutelare, che renda obbligatoria la cura, perché questo sarà l’unico argine possibile contro la morte. Questa è la posizione paterna incarnata dalla Legge, una posizione che dice “NO, non si può andare oltre”. La Legge diventa Cura. L’obbligo di cura diventa obbligo di prendersi cura di sé, di riaprire una finestra sulla vita laddove la gabbia era chiusa sulla morte. E attraverso il limite si riscopre, si definisce, il desiderio. Il desiderio che nasce dai NO. Il desiderio che nasce da una assenza, da una mancanza, da una negazione (Hegel, Lacan). Un desiderio più sano che deve essere elaborato e fatto proprio. La Legge che vicaria una volontà malata sostituendosi ad essa per darle il tempo di ristrutturarsi, di ripartire, di resettarsi. Mettere a riposo una volontà che non è più in grado momentaneamente di decidere. Questo perché il corpo è troppo malato e quindi lo è la mente, non più lucida. Non in grado di dare un consenso informato valido alle terapie, o meglio un dissenso valido. Quando il corpo tornerà in grado di vivere, la mente tornerà in grado di ragionare e di esprimere una capacità decisionale valida. Non è l’obbligo della cura a togliere libertà ma è la malattia a togliere completamente la libertà di essere.

Nel libro di Paolo Cotrufo (“Mia madre odia le carote”, 2016) la paziente co-protagonista dice ad un certo punto “provai il desiderio inconfessabile di qualcuno che mi restituisse a forza i miei chili mancanti, così che la responsabilità non fosse mia. <Io non ho fatto niente, io il controllo non l’ho perso, finisce questo strazio ma non l’ho voluto io> ”.

Talvolta i pazienti ci implorano di fermarli, di bloccare la loro discesa agli inferi, ma sono i Curanti ad avere timore di prendere decisioni forti. Perché? Forse perché abbiamo a che fare con dilemmi etici riguardanti anche il libero arbitrio. Eppure sono pazienti questi che, quando affetti da una forma maligna, grave e cronica, stanno morendo….cosa ci può essere di peggio? Certo, l’obbligo di curarsi sarà all’inizio doloroso, ma è un trattamento salvavita. “Ciò che mette in pericolo i pazienti, è anche ciò che rassicura il loro Io. … Imporre limiti al comportamento distruttivo, spesso non è solo indispensabile, ma è anche la manifestazione tangibile del pensiero e dunque dell’interesse per la paziente di coloro che le stanno vicino, e questo significa contribuire nello stesso tempo a risvegliare l’interesse della paziente per ritrovare il piacere del legame con gli altri e con se stessa” (Birot, Chabert, Jeammet¸ Curare l’anoressia e la bulimia; 2006).

La guarigione passa inevitabilmente attraverso le sofferenze della cura; sofferenze che durano anni talvolta. Ma chi vuol guarire deve soffrire, deve rinunciare ad una parte di sé che magari dà sicurezza ma al tempo stesso avvelena e uccide. “Chi vuol nascere deve distruggere un mondo”, come scriveva Hermann Hesse. Il mondo di prima, dell’infanzia, delle insicurezze, dei traumi, delle paure. Il mondo della malattia.

Ancora Zoe nel bel libro di Paolo Cotrufo conclude cosi: “I disturbi alimentari hanno a che fare con molte cose…con il controllo, con il perfezionismo, con la fame, con gli specchi, con il vuoto, con l’onnipotenza, con l’impotenza, con la paura, con la morte. Raramente si dice che hanno a che fare con il desiderio di vivere, che siano un folle desiderio di riuscirci”.

Allora, forse è lecito e doveroso aiutare – con tutti i mezzi possibili – questi malati, questi soggetti persi alla ricerca di sé, a VIVERE, dando loro modo di costruirsi una vera identità al di là della malattia.

Ci vuole tempo, pazienza, forza, coesione all’interno dell’equipe curante e con i famigliari e una lotta tenace contro lo scoraggiamento. Ma i risultati spesso, anche se non sempre, si vedono e ripagano di ogni frustrazione.

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