Stiamo regredendo al livello d’inciviltà dei popoli primitivi. Fra gli antichi nomadi, l’anziano malato veniva abbandonato al suo destino, ed il resto della sua gente proseguiva il suo percorso lasciandolo da solo a morire. Quest’usanza, allora imposta dalle condizioni materiali di vita, ora si ripropone in virtù del cosiddetto “darwinismo sociale”. Questi versi di Baudelaire, meravigliosi e terribili, ce la descrivono:
Quand notre cœur a fait une fois sa vendange,
Vivre est un mal ! C’est un secret de tous connu
(una volta che il nostro cuore ha fatto la sua vendemmia / vivere è un male, è un segreto che tutti conoscono).
Se un anziano ha fatto la sua parte nella produzione dei mezzi di sussistenza e nella procreazione (la sua “vendemmia”), la sua esistenza è inutile, è solo più un peso per gli altri; ed allora è inutile curarlo, e se c'è da scegliere, meglio salvare con le terapie i giovani, che possono ancora offrir qualcosa alla società: così pensano i fautori del “darwinismo sociale”.
L’evoluzione della civiltà diede ai vecchi ben altro valore: l’anziano è colui che, non avendo capacità lavorative e procreative, ha tuttavia esperienza, è chi può utilmente consigliare ed istruire i giovani. Ora, però, le cose stanno cambiando, ci stiamo imbarbarendo. L’evoluzione tecnico-scientifica è rapidissima, l’anziano non riesce a tenerle il passo; le sue conoscenze, a questo riguardo, sono obsolete ed inutili. Al contrario, riguardo alla vita interiore, assistiamo ad un’involuzione: è sempre meno oggetto d’interesse, è sottovalutata, persino ignorata. Qui l’anziano avrebbe molto da insegnarci: viene da un’epoca in cui i problemi venivano risolti con la riflessione e la discussione, e non con la tecnologia; un’epoca in cui all’Arte veniva dato il giusto peso, non era intesa come puro “intrattenimento; un’epoca in cui la religione orientava le scelte di vita; un’epoca in cui le esperienze affettive non erano ritenute meno importanti delle altre. Tuttavia, oggi, le parole del vecchio si dissolvono nell’aria: nessuno più l’ascolta, nessuno più dà importanza alla sua sopravvivenza.
Francamente, le note
Francamente, le note dell’articolo si pongono esattamente nella stessa prospettiva che intendono “criticare”. La domanda è la medesima: a che serve l’anziano o il vecchio?
La vita ridotta a funzionamento e utilità, segue la medesima prospettiva della tecnica. L’essere umano vive generando senso. In ogni istante non è posizionato solo in una rete di stimoli ma anche in una rete di significati. Più generiamo tempo più dimoriamo nella rete di significati, ben oltre il nostro corpo. Mentre la rete di stimoli cambia poco nel tempo, la rete di significati – sempre aperta – si fa sempre più complessa. Arriva il giorno in cui, avendo generato molta vita, ciascuno di noi finisce per vivere e dimorare molto oltre la sua rete di stimoli, molto oltre il proprio corpo.
Le cose “servono”, possono essere utili o inutili, per questo possono avere un prezzo ed entrare nel commercio. La vita si inscrive in un registro altro – atopos – servendo semplicemente a se stessa. Non vedere questo è veramente l’eclissi della civiltà.
Non intendevo certo mettere
Non intendevo certo mettere in discussione che la vita umana ha, di per sé, un suo valore, indipendentemente da tutte le caratteristiche che differenziano gli individui l’uno dall’altro: sesso, razza, status, età, ecc., oltre che utilità sociale. Questo, per me (e spero anche per chi legge) è sottinteso e dato per scontato. Intendevo, semmai, criticare il darwinismo sociale anche perché considera unicamente l’utilità materiale delle persone (quella che, giocoforza, popoli primitivi ritenevano di valore esclusivo per la propria sopravvivenza), mentre ignora il carattere prezioso dell’esperienza, propria dell’anziano, riguardo alla vita interiore. Anche ammesso, e non concesso, che si debba considerare degno di sopravvivere solo chi ha un certo “valore” per la collettività, il darwinismo sociale ignora il valore inestimabile dell’esperienza interiore ed affettiva.