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COVID-19: Storie di catastrofi, dissolvimenti e occasioni, speriamo, non perdute

18 Mar 20

A cura di Gerardo Favaretto

L’emergenza dell’epidemia da Covid è una notizia che ha aperto notiziari e telegiornali per tutto il mese di gennaio del 2020 e che, dalla sua insorgenza, ha popolato di informazioni Internet e i social. La situazione cinese, di Wuhan e dello Hubei in particolare, veniva quotidianamente aggiornata come la notizia di maggior rilevo senza nascondere note di preoccupazione.
La maggior parte delle persone, in Italia e in Europa, probabilmente, non aveva neppure nozione dell’esistenza di Wuhan e della relativa provincia e, tantomeno, che avessero lo stesso numero di abitanti dell’Italia. L’emergenza era distante mezzo mondo e, seppur tragica, riguardava un altro paese, un altro sistema politico. In conseguenza di una personificazione del problema nella  Cina stessa e nei  cinesi, sono cominciate presto le discussioni fra scienziati, intellettuali e persone interessate ai fenomeni sociali. Molto presto qualche psicologo è intervenuto rispolverando le teorie sul contagio, sulla paranoia, sulla paura dell’altro. L’argomento principale per giorni è stato: arriverà in Italia, e se sì, che cosa accadrà? Quali saranno le conseguenze? Come dobbiamo organizzarci?
 Nella seconda metà di gennaio, per qualche giorno, il Covid scivola nella graduatoria, sembra lasciare il posto alle notizie ordinarie anche se nella rete, invece, non perde di intensità il dibattito e, fra post sui social e filmati You tube, c’è chi continua a ragionarci. Dalla seconda metà di febbraio, nel giro di pochi giorni, forse di ore, si insinua prima il dubbio e poi scoppia con indubitabile certezza la notizia: il virus è qui, in Italia. Ci si sveglia un mattino in un paese in cui vi sono ben due territori monitorati e chiusi nei quali vi è un copioso focolaio misteriosamente creatosi dal nulla. Non si conoscono mappe e spostamenti, pazienti zero e dinamiche dei contagi, il fatto è che c’è il virus: scuole chiuse, attenzione ai contatti, persone in rianimazione, persone morte. Il primo periodo è ancora legato a una dinamica comunicativa che tende a confinare il problema in luoghi definiti e segnati da un destino oscuro, ma diverso da quello della maggioranza; ben presto questa posizione diventa insostenibile: l’evidenza di altri focolai, migliaia di infetti al giorno (o meglio di test positivi e di persone con sintomi) migliaia di ricoveri e, purtroppo, migliaia di morti. Adesso superata la metà di marzo è così; sta continuando così e così sta accadendo nel resto dell’Europa e del mondo.
Questo mio è uno dei racconti possibili della storia di questi giorni.
È la verità dei grandi cambiamenti trasportati dal vettore della violenza: dire parole, costruire narrazioni, dare voce a delle idee è la base del sistema della sopravvivenza trans personale. Quando il peso della creaturalità, perché minacciata nella dimensione ordinaria, diventa insostenibile, il genere umano cerca idee per dare un senso all’esistenza che superi la caducità, e  che sappia assumersi la responsabilità di un “eterno”. La crisi è dentro l’esperienza individuale e dentro alla presunta intoccabilità della libertà personale così fondante nella società e cultura occidentale.
Ad eccezione di alcune persone che, sommariamente potremo individuare in coloro che, per motivi diversi, già facevano della marginalità e dell’evitamento una loro direttrice esistenziale [1],  la stragrande maggioranza degli individui sta sperimentando la crisi della loro organizzazione ordinaria della vita. La distruzione del funzionamento ordinario, e quindi di quei meccanismi che permettono alla mente di muoversi in un contesto conosciuto, è una delle principali conseguenze della irruzione della idea della morte.  Tollerare l’idea della propria mortalità è un presupposto indispensabile al funzionamento del Sé.  Gravi traumi emotivi o anche minacce alla integrità del corpo causano la perdita delle coordinate del funzionamento ordinario e mettono gli individui di fronte a una situazione di crisi. [2] Nello stesso momento in cui il mondo ordinario viene sconvolto non cessa la necessità della persona di ritrovarlo. A meno di non vivere una profonda angosciante depressione, e quindi una sconfitta sul piano esistenziale, le persone cercano di riscostruire il proprio mondo individuale su basi che siano sufficientemente sicure per poter sopravvivere.   Vittime dello shock e della paura, le persone si affidano a chi gli fornisce idee e pensieri che, indipendentemente dalla loro coerenza e dalla loro ragionevolezza, hanno il merito di convincere e di essere una narrazione possibile e, quindi, una base alla ricostituzione di un senso “normale” della realtà. Sarebbe davvero interessante avere un catalogo di queste idee, poterle classificare per coglierne coerenza e verità, o presunta tale.
Bisogna premettere che questa produzione di idee, di scritti e di analisi è fortemente supportata da un contesto sconosciuto in altri momenti di crisi mondiale, ovvero, l’esistenza della rete Internet e dei social media. La presenza della rete e delle sue multiformi possibilità di comunicazione, non veicola solo buffe parodie, filmati, raccomandazioni improbabili o false notizie, ma diventa anche sostegno e base della capacità di pensiero e della sua espressione. Questo vale per le diverse forme di pensiero in cui il sapere moderno si è articolato e parcellizzato: il sapere scientifico e quelli ermeneutici (politico, filosofico, sociologico).  Il pensiero scientifico per definizione non si sgomenta di fronte a nulla, cerca di produrre conoscenza e sapere da tutto ciò che accade. A fronte della anomalia costituita dalla malattia la osserva, ne studia le caratteristiche, cerca risposte che riportino l’eccezione nell’ambito della normalità. In questo senso è un sapere che esercita la sua funzione normante, come direbbe Canghuilem[3]   e, in questo senso ha un ruolo importante nella ricostituzione di un ordine. Le persone si aspettano questo dagli scienziati: risposte che dicano come stanno le cose veramente e un bisogno di certezze che vuole essere un antidoto all’angoscia di fronte all’oscurità. Dai medici e dalla medicina ci si aspetta un atteggiamento attento, pedagogico, rassicurante e dotato di soluzioni certe.  Il fatto che queste non esistano o non esistano ancora, fa ulteriormente aumentare le angosce e il senso di smarrimento.
E il pensiero dei professionisti della mente quale è? Su cosa dibatte, come contribuisce ad affrontare questa emergenza?  Nel giro di pochissimi giorni migliaia di professionisti della salute mentale si sono iscritti a gruppi Facebook i cui temi sono centrati sull’assistenza delle persone in ospedale, la cura e la protezione di pazienti ed operatori, la natura sostanzialmente traumatica della esperienza epidemica, dell’isolamento e dello stravolgimento dell’ordine sociale. È necessario interrogarsi su quale sia l’aspettativa sociale nei confronti dei professionisti della salute mentale; si ritiene che debbano essere a loro volta normatori e normativi? Si ritiene che il loro sapere e le loro conoscenze siano in grado di governare processi sociali? Di ricostruire i legami individuali e sociali come se il corpo sociale fosse una grande mente malata in conseguenza di un trauma?  I professionisti della salute mentale hanno difficoltà a sottrarsi a queste aspettative  anche   in ragione del fatto che a loro stessi risulta non essere chiaramente comprensibile quale debba essere il loro ruolo dentro l’insieme delle conoscenze e dei saperi.
La più prestigiosa, dal punto di vista storico, associazione degli psichiatri, la Società italiana di psichiatria, prende posizione assumendo decalogo che voglio qui riportare
la Società italiana di Psichiatria(SIP) ha deciso di divulgare sette regole per affrontare e vincere la paura generata dalla circolazione di notizie infondate o non vagliate accuratamente.

  1. Attenersi alle comunicazioni ufficiali delle autorità sanitarie;
  2. Riconoscere che le cose "spaventose" che attraggono la nostra attenzione non sono necessariamente le più rischiose, è il primo passo verso la consapevolezza;
  3. Contenere la paura, mantenere la calma ed evitare di prendere decisioni fino a quanto il panico non è passato;
  4. Affidarsi solo alle testate giornalistiche ufficiali e autorevoli;
  5. Non fare tesoro di ciò che si intercetta online e sui social media, soprattutto se "condiviso" da amici solo virtuali, che in realtà non si conoscono davvero, e se non accuratamente verificato;
  6. Rivolgersi al proprio medico e non fare domande su gruppi social, chiedendo opinioni;
  7. Se compaiono sintomi come panico, ansia o depressione rivolgersi ad uno specialista al fine di un’adeguata diagnosi.
Si tratta di consigli sensati ma nei quali è difficile rintracciare un punto di vista professionale. Dire a chi è nel panico: “contenga la paura, mantenga la calma” è un buon consiglio da amico; non c’entra con quello che deve dire uno Psichiatra. La fragilità del contributo dei professionisti della mente è resa evidente dal fatto che la sola disponibilità a consulti on line, o l’esprimere indicazioni generiche, non aiuteranno. Non aiuterà neppure far assumere agli psichiatri e agli psicologi il ruolo di “normalizzatori” dell’angoscia collettiva.
Le cure psichiatriche e psicologiche sono fondate sulla prossimità delle persone e sul loro incontro fisico. Questo, in larga misura, non è più possibile. L’alternativa non può essere l’assenza di cure (che ora è il maggior rischio che il sistema della salute mentale). In un momento in cui sarebbe necessaria un’adeguata e funzionale rete di telepsichiatria il sistema si è fatto trovare strutturalmente impreparato.[4] Sarebbe opportuno che le risorse di questo tipo fossero disponibili, non su volontaristica scelta di alcuni professionisti privati, ma con esperienze strutturate, con modalità accessibili e con strumenti di provata efficacia in una prospettiva che permetta una virtuosa evoluzione.
E’ necessario che psichiatri e psicologi trovino la loro posizione all’interno della rete dei saperi e delle conoscenze, che riconoscano i vantaggi e i limiti del loro possibile contributo nella ricostruzione di una nuova coscienza sociale ordinaria. I saperi sulla mente debbono interrogarsi sulla loro identità e su quello che possono fare, su quali siano gli strumenti più efficaci a disposizione[5].  Un prezioso aiuto può arrivare dalle ricerche sui traumi e sugli effetti dei traumi sulle persone[6](sia operatori che pazienti). Solo parlando con gli altri saperi e creando sinergie nella rete sarà possibile comprendere la complessità di quanto accade e fornire le risposte di cui le persone ora sentono la necessità.  La ricostruzione di una dimensione sociale della persona è una questione anzitutto relazionale e culturale e non di pertinenza di una conoscenza del funzionamento mentale che viene in modo poco opportuno trasformata in pedagogia sociale.
 

[1] Sarebbe davvero interessante soffermarsi sul fatto che questi gruppi sono stati pronti a quello che è successo nello smantellamento delle consuetudini sociali conseguente alla epidemia e hanno verosimilmente sperimentato maggiore continuità nella propria identità sociale.
[2] E uno dei temi trattati da chi si è occupato di traumi, fra tutti B.Van der Kolk : Il corpo accusa il colpo : mente corpo e cervello nella elaborazione delle esperienze traumatiche , Milano 2105
[3] G.Canghuillem Il normale e il patologico , ed it. Torino 1998
[4] Alcuni dubbi sulla capacità del nostro sistema di assistenza a utilizzare la Telepsichiatria erano già stati espressi in G.Favaretto , E. Zanalda Telepsychiatry in Italy, from premises to experiences  Evidence based psychuatric care https://www.evidence-based-psychiatric-care.org/wp-content/uploads/2018/12/Favaretto_Zanalda.pdf
[5] Si vedano le risoorse censite  nel sito della  Società Italiana di epidemiologia psichiatrica
https://siep.it/pandemia-da-coronavirus-impatto-sulla-salute-mentale/
 

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