Lettera n. 1 – Le origini della psichiatria e della riabilitazione psichiatrica
Quando si parla di riabilitazione in tema di malattie
mentali, non possiamo riferirci solo alle tecniche
riabilitative, ma anche alla base sovrastrutturale e strutturale
da cui queste tecniche prendono significato.
Franco Basaglia, 1971
Carissimi, l’anno scorso ho avuto quattro incontri con i vostri colleghi, durante i quali abbiamo parlato di un argomento che io amo molto: la storia della psichiatria, e in particolare della riabilitazione psichiatrica. Spero di averli resi abbastanza interessanti anche per loro. Mi sarebbe piaciuto farlo anche con voi a partire da questo 25 marzo, ma per ora come sapete non ci è possibile. Viviamo un momento triste, strano e difficile, nel quale meno ci si incontra e meglio è; nel quale l’incontro, che nella riabilitazione psichiatrica è uno degli strumenti più importanti, è diventato improvvisamente un pericolo. Viviamo giornate nelle quali avvertiamo intorno a noi un’atmosfera di malattia, un pericolo nell’aria che non vediamo ma che può farci male; io ricordo di avere vissuto una sensazione del genere proprio quando la mia età era più o meno quella che ora avete voi, ed era esplosa la centrale nucleare di Chernobyl. Anche allora si avvertiva nell’aria la presenza di qualcosa che non si vedeva ma che avrebbe potuto farci male. In ogni caso, ci adattiamo e cominciamo il nostro corso senza poterci, per il momento, conoscere direttamente; speriamo di poterlo fare almeno in occasione delle ultime due lezioni. Il nostro breve corso si articola in 4 incontri. Nel primo tratteremo l’origine della psichiatria, fino alla fine del ‘700 (per rendervela più vicina, la tratteremo facendo degli esempi concreti); nel secondo la nascita della psichiatria moderna, dalla fine del ‘700 alla metà del ‘900; nel terzo parleremo della storia più recente, e in particolare del lavoro di Franco Basaglia e della promulgazione della legge 180. Nell’ultimo incontro vorrei proporvi alcuni approfondimenti possibili, tra i quali sceglierete quelli che vi interessano di più. Non sono molto tecnologico, quindi ho pensato di proporvi queste lezioni inserendo il set di slide (quelle che avrei usato comunque) in questa lettera insieme al mio commento.
Da quando esiste la psichiatria? Beh, potremmo dire da sempre, perché la follia, intesa come disfunzione o ribaltamento della ragione è una delle possibilità, delle forme che l’esistenza umana può assumere, e da quando esiste la follia (come fenomeno proprio e altrui), esiste per l’uomo e per i gruppi umani la necessità di interfacciarsi con essa e di gestirla come fenomeno individuale e sociale. Così, troviamo tracce di provvedimenti che possiamo definire psichiatrici nelle legislazioni del mondo classico o nei testi di medicina più antichi. Ma noi, giusto per fissare un punto, cominceremo a considerare la storia della psichiatria e della riabilitazione psichiatrica tra il ‘500 e il ‘600, perché questi due secoli costituiscono un momento nel quale possiamo osservare le tre radici dalle quali origina la psichiatria moderna ancora separate, prima che si intreccino durante il ‘700 per costituire appunto la psichiatria. Di fronte al fenomeno costituito dalla follia, infatti, l’uomo è portato a organizzarsi, e mi pare che lo abbia fatto, forse un po’ schematicamente, a partire da tre approcci, che poi convergendo hanno dato luogo appunto a questa cosa molto ibrida e difficile da definire, che è anche una disciplina medica ma non è solo una disciplina medica, che è appunto la psichiatria. Per ciascuno di questi approcci, porteremo un esempio concreto, ma ovviamente potremmo portarne molti altri.
Il primo approccio che consideriamo – ma si sviluppano in realtà parallelamente, non in successione – è quello che possiamo definire “politico”, cioè relativo all’ordine pubblico all’interno della comunità. Di fronte al disordine che la follia introduce in una società (e soprattutto in una società dove si vive a più stretto contatto, cioè in una città) la collettività e l’autorità che la dirige reagiscono cercando di identificarlo e di risolvere la situazione in tre modi: intanto tentando con tutti i mezzi possibili (dai più dolci, seduttivi ai più violenti) di riportarlo all’ordine. E se questa operazione non riesce, ci sono altre due soluzioni: sequestrarlo, rinchiuderlo in modo che non disturbi e non corra pericolo, o in alternativa espellendolo, esiliandolo, in questo caso solo perché non disturbi. Michel Foucault ha scritto un libro molto ricco di notizie sul modo in cui queste cose si sono verificate in Europa – in particolare in Francia – nel ‘600, la Storia della follia nell’età classica (Rizzoli, 2011; se volete è disponibile la presentazione a Genova dell’ultima edizione italiana da parte di Massimo Galzigna, che l’ha curata, oltre a un'intervista allo stesso Galzigna). Foucault vi racconta il “grande internamento” che caratterizzò l’Europa del ‘600 con la nascita di grandi stabilimenti volti a rinchiudere e fare anche lavorare non solo i folli, ma insieme a loro tutti coloro che creavano disordine (nella Repubblica di Genova fu fondato nel 1656 l’Albergo dei poveri, quel grande edificio che vedete sopra piazza dell’Annunziata e oggi è occupato in gran parte dall’Università). Ma racconta anche che in ambiente arabo già da qualche secolo erano state create, anticipando qualcosa che in Europa si sarebbe diffuso all’inizio dell’800, istituzioni pensate per rinchiudere esclusivamente i folli. E noi studieremo questo fenomeno, il sequestro dei folli da parte dell’autorità politica, proprio a partire da una di queste istituzioni, che, secondo la classica Storia della psichiatria di Zilboorg e Henry (che cita però in modo sbagliato la fonte, e qualche anno fa l’ho ricostruita con un’appassionante indagine) è una delle prime delle quali esista una descrizione scritta.
All’inizio del ‘500 un giovane mozzo genovese, Gio. Antonio Menavino (al quale è dedicata una delle principali vie di Voltri, dove era nato), fu catturato dai pirati barbareschi, e una volta liberato scrisse un libro sulle curiosità che gli era capitato di vedere a Costantinopoli durante la prigionia. Tra le altre “un luogo chiamato Timerahane”, un termine che in turco oggi può essere tradotto con “manicomio”, ma allora il manicomio e la parola manicomio non esistevano a Genova, perciò Menavino deve lasciare il termine nella lingua originale, come facciamo oggi noi con gli ultimi ritrovati prima che venga coniato un termine in italiano. Lo sguardo del Menavino sulla psichiatria è per noi doppiamente interessante perché è due volte naif: in primo luogo perché quando fa la visita è un adolescente, e in secondo luogo perché viene da un posto, Genova, dove non esiste l’idea che possa esistere un “manicomio”. Nella prossima diapositiva troverete il testo, che ho lasciato in italiano antico perché mi sembra più simpatico da leggere (una sola nota: sultan Paiaxit è Bajazet II, il sultano dell’epoca).
“Di un certo luogo chiamato Timarahane, dove si castigano i matti.
Fece fare Sultan Paiaxit un luogo nella citta di Costanti[no]poli, dove si dovessero menare i pazzi, accioche non andassero per la citta, facendo pazzie. Questo è fatto à modo d'uno hospitale; dove sono intorno à cento cinquanta guardiani in loro custodia, & sonovi medicine, & altre cose per loro bisogni; & i detti guardiani vanno per la citta con bastoni, cercando i matti, & quando ne trovano alcuno, lo incatenano per il collo con cathene di ferro, & per le mani, & à suono di bastoni lo menano al detto luogo, & quivi gli mettono una cathena al collo assai maggiore, la quale è posta nel muro, & viene sopra del letto; talmente che nel letto per il collo tutti gli tengono incathenati; & ve ne saranno per ordine, lontano l'uno dall'altro, da quaranta; i quali per piacere di quei della citta molte volte sono visitati; ma di continuo i guardiani loro stanno appresso col bastone accanto: per cio che non essendovi, guastano i letti, & traggonsi le tavole l'uno all'altro; & venuta l'hora del mangiare, i guardiani gli vanno essaminando tutti per ordine, & trovando alcuno, che non istia in buon proposito, crudelmente lo battono; & se à caso trovano alcuno, che non faccia piu pazzie, gli hanno miglior cura, che à gli altri”. G.A. Menavino, 1535
PROPOSTA! Vi proporrei a questo punto di “fare alcune domande” a Menavino, e vedere all’interno del testo come vi risponde (p. es.: cos’è il timerahane? Chi l’ha costruito? Perché? Come funziona? A cosa serve? ecc.).
Il secondo approccio che consideriamo è quello relativo al tentativo di rapportarsi alla follia attraverso parole o atti, cioè attraverso la relazione interpersonale, e ha origine antichissime. Filosofi, religiosi, medici, uomini di lettere hanno operato da sempre questo tentativo, e si sono trasmessi racconti dei successi che hanno ottenuto. Un libro famoso come il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes racconta di un personaggio caduto nella follia, e di come coloro che lo incontrano reagiscono ai suoi atti, a volte prendendolo in giro, a volte reagendo violentemente alle sue azioni distruttive, e spesso tentando di manipolarlo, a fin di bene, per convincerlo a fare cose che gli evitino di mettersi nei guai. Infondo anche uno dei poemi più antichi, l’Iliade, inizia documentando gli sforzi verbali che i generali achei fanno per convincere Achille, che non era folle ma era adirato quanto può a volte esserlo un folle, a cambiare atteggiamento. Noi sceglieremo come esempio di questo secondo approccio ciò che fece padre Antero Micone, un frate agostiniano scalzo che era una sorta di Direttore generale del lazzaretto durante la peste del 1656 a Genova (in un clima che purtroppo ha molto in comune con quello che stiamo vivendo), per fare cambiare atteggiamento a un uomo che rifiutava di mangiare a causa di un delirio di veneficio (l’idea delirante, cioè, che lo si volesse avvelenare). Anche in questo caso manteniamo la lingua in cui scrive padre Antero.
“Non subito, che ti sarà detto, il tale non può, non vuole mangiare, habbilo per disperato, tenta ogni mezzo possibile, perché in questo ho veduto miracoli, e con qualche stratagemma si è salvata la vita di molti; tra gli altri fu grazioso questo:
Un tale havea dato in frenesia, che volessero cibarlo a fine d'avvelenarlo, onde non era possibile farli prender cosa alcuna; si minacciò col bastone, che se non mangiava gli haveressimo rotte le braccia, e in fatti se li diede qualche percossa; poco m'importa, disse, a morir sotto il bastone, se altrimenti hò da morir di veleno. Due huomini gagliardi per forza gli aprirno la bocca, con violenza se gli gettò il cibo, gli strinsero poi il morso, acciò fosse necessitato a tranguggiarlo; dissimulò lui alquanto fin che lo lasciassero, e subito che gli levarono le mani d'addosso, sputò l'ovo in faccia, a chi v'era presente, onde disperati di ridurlo a mangiare, lo lasciammo”.
Quando che sconvogliendosegli i fantasmi, incomincia a fantasticare differentemente, e rivoltosi con impeto al suo vicino, con parole d'ignominia, e infamia, lo percosse fieramente; ah infame, diceva, tu m'hai tolto l'onore, tu m'hai dishonorato, e non fece poco quel pover'huomo a salvarsi;
“Di nuovo torna a freneticare differentemente, e con gran fretta dice volermi parlare, presto presto chiamate il Padre, e gridava tanto altamente, e parea parlasse si da proposito, che se ben havevo avvertito li servitori, che dimandato da frenetici non mi sturbassero, stimarono essi ben fatto chiamarmi; vado da lui, e con affanno straordinario mi supplica, che li facci perdonar la vita, perchè l'Illustriss. dicea, vuol farmi archibuggiare; e mi faceva molti scongiuri con promesse grandi, se li ottenevo il perdono.
"Ah forfante", gli risposi io, "hai ardire di chieder grazie per mezzo mio, tu che per darmi disgusto, per farmi dispetto, mai hai voluto mangiare. Sù Signor Commissario, hor hora sij archibuggiato"
O chi havesse veduto, e udito questo meschino: "Ah padre io mangierò, mangierò quanto volete, presto, presto portatemi da mangiare".
Subito, perchè non si mutasse di proposito, gli feci dare un'avanzo di minestra fredda, qual prontamente mangiando, ad ogni boccone, con ansia mi diceva: "Fate, che non sij archibuggiato, che mangierò quel che volete".
E, mangiata, ch'hebbe tutta la minestra, ne dimandò immediatamente un'altra”. p. Antero, 1656
PROPOSTA! Vi proporrei a questo punto di “fare alcune domande” anche a padre Antero, e di cercare le risposte all’interno del suo racconto, riflettendo su quello che ne pensate complessivamente.
Il terzo approccio alla follia che consideriamo è quello dei medici. La medicina si è occupata della follia da tempi molto antichi, almeno da Ippocrate, il medico greco che visse nel V secolo a.C. e vedete qui raffigurato. Nei suoi scritti inquadra la maggior parte di quelle che sono definite oggi le malattie mentali tra i “morbi della testa”. In particolare, gli antichi dividevano le malattie mentali in due grandi categorie, con febbre (cioè sintomatiche di malattie di carattere internistico) e senza febbre, corrispondenti alle attuali malattie mentali in senso stretto. Tra queste, i due quadri principali (bisogna stare attenti perché nella storia della psichiatria molti nomi di malattie rimangono gli stessi, ma indicano malattie completamente diverse) erano la melanconia, cioè un quadro a esordio lento, decorso lungo, caratterizzato da tristezza e timore immotivato (è il quadro di Don Chisciotte, ad esempio). Erano descritti però anche tipi particolari di malinconia, caratterizzati dall’alternarsi di umore triste e umore immotivatamente allegro, o di assenza d’iniziativa e iperattività. Un altro quadro era la mania, che era un quadro a decorso acuto, esordio improvviso, disturbi molto marcati dell’ideazione e agitazione esplosiva fino all’aperta violenza (è il quadro dell’Orlando furioso). Gli storici della psichiatria ritengono che alcuni casi che oggi definiamo schizofrenia allora finissero nel calderone della “stultitia” insieme a quadri di deficit intellettivo. Altre malattie mentali erano considerate tra i disturbi dell’addome, ed erano la melanconia ipocondriaca, che si esprimeva soprattutto attraverso tristezza combinata con disturbi della digestione, nausea ecc.; e una stranissima malattia, l’isteria, che era inizialmente attribuita a movimenti dell’utero nel corpo della donna, poi più modernamente ai secreti dell’utero, finché negli ultimi due secoli si è compreso che poteva interessare anche l’uomo ed era una malattia mentale, che non aveva nulla a che fare con il corpo o i secreti dell’utero. In ogni caso, la psichiatria dei medici riguardò in Europa fino alla fine del ‘700 pochissime persone, quelle che potevano pagarsi un costoso consulto medico. All’inizio del ’700 i modelli di riferimento cambiarono insieme a quelli della medicina; per oltre 2000 anni i medici si erano occupati soprattutto degli umori che circolavano nel corpo, e da solo 300 attribuiscono perlopiù le malattie a disfunzioni dei diversi organi. Fu una rivoluzione incredibile. Fino alla fine del ‘700 il modello d’interpretazione e di trattamento di quelle che consideriamo oggi malattie mentali da parte del medico era identico a quello delle altre malattie. Si cercava di capire quali umori potessero essere alterati, e di correggere l’alterazione con la somministrazione di sostanze naturali (soprattutto erbe). Raramente viene riportato dai medici un dialogo, un’interazione diretta, con il paziente, come abbiamo visto per padre Antero, perché evidentemente non si attribuiva a questo grande importanza.
Come esempio di questo approccio considereremo ciò che scrive Pompeo Sacco, un medico che insegnò a Parma e a Padova a cavallo tra ‘600 e ‘700, a proposito di un caso di pica, che è un disturbo dell’alimentazione oggi piuttosto raro che consiste nell’ingerire tutto ciò che capita a tiro, compresi terra, polvere ecc., osservato in una ragazzina. Siccome Pompeo Sacco scrive in latino (perché i medici non erano tanto interessati a essere letti dalla generalità delle persone, quanto invece a scambiarsi informazioni coi medici di altre nazioni, che conoscevano tutti il latino come oggi si conosce l’inglese), in questo caso vi propongo solo uno schema riassuntivo del suo resoconto del caso e pochi passaggi. Vedrete che il problema del Sacco è simile a quello di padre Antero: convincere la persona a mangiare, o a non mangiare schifezze. Ma il metodo con cui ci provano è completamente diverso.
L’appetito depravato.
Anamnesi – Donna vergine di 13 anni, di temperamento pituitoso, con aggiunta di melanconia.
Esame obiettivo: Gonfiore della milza con pallore cutaneo e aspetto emaciato, “depravato è in lei l’appetito e mangia calce, carboni e terra, è gonfia nel volto, mentre le mestruazioni sono sospese”.
Diagnosi ed eziologia: “Quanto più è noto che questo sintomo sia un sintomo di depravazioe della facoltà appetitiva dello stomaco e del senso comune, tanto più ce ne è nascosta la causa, sicché non mancarono alcuni che tentarono di attribuirla all’occulto, ciò che io giudicai sempre il rifugio dell’ignoranza”.
Ipotesi patogenetica: Il gonfiore della milza sembra dipendere dalla “materia grassa” accumulata nel sangue dal temperamento pituitario e malinconico, che ostruirebbe i capillari dell'organo; allo stesso modo, coll'ostruzione dei vasi uterini, si determina quel turgore che impedisce le mestruzioni. Lo stesso meccanismo, non consentendo una corretta evacuazione, sostiene gli altri segni: alterazione della costituzione e della crasi ematica, cachessia e cattivo colorito cutaneo.
Terapia: in primo luogo, la liberazione delle regioni ipocondriache e di quelle dello stomaco; in secondo luogo, la rimozione delle ostruzioni di milza e utero; in terzo luogo, la correzione della prevalente acidità degli umori; in quarto, la depurazione della massa ematica dall'inquinamento degli umori escrementizî e, infine, il sostegno dei processi digestivi.
Prognosi – Il quadro preoccupa, ma non scoraggia: blandi salassi, emetici e purganti, rabarbaro, rosmarino, salvia, genziana, assenzio, maggiorana, portulacca. P. Sacco, 1686
“Se il difetto del fantasma è tenace, o la fibra è modificata in modo fermo, non può risentire degli aiuti dell'arte sanitaria; bisogna quindi provare se il difetto sia negli umori o negli spiriti, con la proposta di medicine; se queste non giovano, penso che l'ammalato debba essere abbandonato a se stesso”. P. Sacco, 1717
Quest’ultima è un’osservazione generale che traiamo da un’altra opera del Sacco, ed è molto interessante: se il paziente non risponde al trattamento, deve essere abbandonato a se stesso. Ed è una questione di bioetica che ritorna spesso in medicina, ma ancora più in psichiatria: come distribuire le risorse, su quali pazienti investire. Da qualche anno ad esempio in psichiatria c’è molta enfasi sugli esordi, sui giovani (che i casi presi all’inizio guarivano meglio, lo avevano già osservato gli psichiatri all’inizio dell’800, peraltro), ma anche in questo caso bisogna chiederci dove prendiamo le risorse necessarie, e quanto è lecito abbandonare qualcuno per curare di più qualcun altro. Un amico, primario in Emilia, Beppe Tibaldi, nel commentare le memorie di Ken Steele (un famoso giocatore di baseball americano che divenne schizofrenico e guarì dalle allucinazioni uditive dopo qualche decennio di malattia e molti fallimenti e brutte esperienze), scrive che “tutti hanno diritto a una seconda occasione” (K. Steele, E venne il giorno che le voci tacquero, Mimesis, 2005). In realtà, studiando la storia della psichiatria si vede che Pompeo Sacco non è certo stato il solo a pensare che i pazienti inguaribili dovessero essere abbandonati a se stessi; anzi, come vedremo nella prossima lezione, all’inizio del ‘900 alcuni pensarono che dovessero essere addirittura soppressi, e qualcuno arrivò anche a farlo.
PROPOSTA! Vi proporrei a questo punto di “fare alcune domande” anche al professor Sacco, e di cercare le risposte all’interno della sintesi del suo resoconto clinico, e riflettere su cosa ne pensate complessivamente.
Il caso di Geel, una cittadina della campagna belga, merita di essere considerato a parte rispetto a queste tre linee che sono confluite a dar vita alla psichiatria. Lì si era sviluppato, a partire dall’VIII secolo, il culto di santa Dymphna, una principessa irlandese che si era convertita al cristianesimo facendo infuriare il padre, che l’aveva inseguita, raggiunta e decapitata a Geel. Pare cha alcuni folli vedendo la scena cruenta fossero rinsaviti per lo shock, infatti allora era diffusa l’idea che uno spavento o una forte impressione potessero scuotere la mente e guarire dalla follia (e anche padre Antero, infatti, aveva spaventato il delirante). Di qui si sviluppò il culto della santa, e migliaia di folli da tutta Europa per secoli furono accompagnati a Geel per essere miracolati e cominciarono a chiedere ospitalità agli abitanti. Alcuni di questi folli, pur non avendo ottenuto la guarigione, rimasero a Geel, affidati spesso a pagamento agli abitanti che si specializzarono nei secoli in questa attività, e cominciarono a fare vivere e lavorare i folli loro affidati insieme a loro, nelle famiglie. Si sviluppò in questo modo una soluzione alternativa all’assistenza psichiatrica, nata spontaneamente dal basso e gestita da persone di buon senso, che no nasceva né all’interno della tradizione politica, né all’interno di quella filosofica, né di quella medica. Quando nacque la psichiatria moderna dall’incrocio di questi tre filoni, i primi psichiatri ebbero anche la curiosità di recarsi a Geel per studiare questo strano fenomeno, unico in Europa e molto raro nel mondo; durante il nostro prossimo “incontro” vedremo cosa successe.
PROPOSTA! Alla fine di questa prima lettera vi chiederei anche qualcosa di più. Cioè non solo di interrogare un ipotetico cittadino di Geel su ciò che accade nel suo paese, e scrivere quali potrebbero essere le sue risposte, ma anche di valutare quale degli approcci (quello politico, quello basato sulla relazione e quello medico) dei quali vi ho portato tre esempi, e quello alternativo di Geel, vi sembra che abbia più a che fare con quello che può essere, all’interno dell’équipe psichiatrica, il ruolo del TeRP, motivando le vostre scelte.
Nell’immagine: Monumento a Padre Antero nell’ospedale di Sestri Ponente
Nel video: l’intervista a Luana Testa, una collega romana, e a me sulla storia della psichiatria al congresso SoPsi del 2011.
Il testo prosegue con la seconda lettera… clicca qui per il link.
Fonti personali:
P.F. Peloso, (1993): Contributo di un mercante genovese alla conoscenza delle istituzioni psichiatriche del XVI secolo, Bucarest, Revue des Etudes sud-est éuropéennes, 31, 1993, 137-144.
P.F.Peloso (1998): Hospital care of madness in the Turk sixteenth century according to the witness of G.A. Menavino from Genoa, History of Psychiatry, 9, 35-38.
P.F. Peloso (1991): Disturbi del comportamento alimentare: approccio medico e attitudine psicoterapica attraverso l'esame di due casi clinici del XVII secolo, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, XLVIII, 175-188.
P.F. Peloso (1996): Modelli della mente e del corpo nell'opera medica di Pompeo Sacco (1634-1718), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti.
Peloso P.F. (2015): Psichiatri a scuola dai contadini? Il “miracolo” di Geel tra devozione, integrazione e terapia dei folli, Humanitas, 70, 3, 379-388.
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