Una delle questioni irrisolte, nella psicoanalisi, è la lettura della dimensione sociale, ovvero, del principio che presume che contesti, situazioni, fatti violenti e distruttivi possano causare alle persone esperienze traumatiche radicali e che possano essere comprese solo rinunciando all’esclusività del determinismo psichico e individuale. Si pensi ai temi della guerra, della tortura, dello sterminio, e di quelle forme di violenza e prevaricazione purtroppo così frequenti e frequentemente rinnovate nella storia.
La psicoanalisi ha, con gli eventi traumatici un rapporto particolare, quasi confidenziale, essendo intrisa della filosofia del “rifiuto della fatalità” come dice S. Amati citando Levinas. Ma psicoanalisi e psichiatria hanno, talvolta, e non raramente, un ruolo ambiguo nei confronti del trauma e della cura delle persone che hanno subito gravissime ingiurie come la deportazione, la tortura e che sono sopravvissute, per insondabili destini a stermini di massa. L’ambiguità di questo ruolo sta, anche, nel delicato equilibrio fra la comprensione del determinismo psichico e una posizione etica, ossia fra il ricondurre le vicende traumatiche a una storia individuale, ovvero, farne anche una questione etica di rilevanza sociale. Non che le due cose siano inconciliabili; Silvia Amati Sas sembra averlo molto chiaro, al punto che ritiene, a ragione, che la stessa categoria del Post traumatic stress disorder, PTSD,” per l’utilizzazione universale e aspecifica che se ne fa corra il rischio di essere una specie di “feticcio teorico facilmente complice dei traumi e delle guerre.”
Queste considerazioni e altre, tutte molto interessanti, si trovano in una raccolta di saggi di Silvia Amati Sas, uscita quest’anno,2020, per Franco Angeli, con una breve prefazione di Anna Ferruta e una bella introduzione di Federico Perozziello, che ne ha curato la pubblicazione.
Si tratta di articoli, interventi e riflessioni che coprono un ampio arco di tempo, quasi 40 anni, e che rappresentano una testimonianza delle elaborazioni, dei pensieri e dei giusti interrogativi di questa psicoanalista che, fin dall’inizio degli anni 70, ha cominciato ad occuparsi di vittime di violenza politica e sociale, di persone esuli, in Svizzera e che provenivano dall’America latina: Brasile, Cile, Argentina, Uruguay. Dice Federico Perozziello “Si trattava soprattutto di donne segnate dall’esperienza devastante dei campi di concentramento, dalla tortura, in cui avevano subito ogni tipo di sevizia morale e materiale”.
Nonostante questi saggi facciano riferimento a un tempo e a dei luoghi specifici non sfugge la loro attualità conseguente alla costante presenza, nello scenario sociale ed umano, della violenza. Una violenza estrema, impensata che ha come fine l’annullamento e la distruzione delle persone. Una violenza che, se si sopravvive fisicamente, lascia cicatrici profonde nel modo di pensare e di pensarsi delle persone. Rende le loro emozioni piagate da ricordi, a volte impossibili, e getta loro in una esperienza di sé ancora più distruttiva dell’immenso dolore provato. In questo contesto il discorso sul meccanismo attraverso i quali traumi condizionano l’esistenza e come il vivere post traumatico, ne risulti determinato, finisce con il confrontarsi con una prima e ineludibile questione ovvero quella della posizione etica di chi ascolta.
S. Amati, parlando dei sentimenti di chi assiste alla evocazione di tanta violenza e distruttività dice : Risentiamo di una perplessità simile a quella descritta da Primo Levi sulla sua esperienza nel campo nazista dove i prigionieri , al posto della gioia prevedibile per la liberazione tanto attesa, cadevano in uno strano e profondo malessere, al pari dei soldati russi, loro liberatori e poi cita direttamente Sommersi e salvati “non salutavano, non sorridevano, sembravano oppressi, oltre che dalla pietà, da un confuso ritegno che chiudeva loro la bocca e faceva loro abbassare gli occhi vinti dallo scenario funereo. Era una vergogna che conoscevamo bene. Quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa virgola e non abbia valso a difesa.”
Questo è il punto di partenza di un crescendo di riflessioni che si muovono su un crinale che da una parte comporta il confronto col ricondurre dentro una teoria , quella della psicoanalisi, i moti dell’anima e della identità di queste persone e dall’altro non perde mai di vista la concretezza del fatto che si parla di eventi accaduti , di ferite, di morti , di sevizie , violenze , comportamenti imposti inizialmente fonte di orrore , poi diventati abitudinari.
Perché se è vero, come dice Silvia Amati, che ci si “abitua a qualsiasi cosa”, per obbligo, rendendo consueto l’impensabile, è anche vero che il crinale della memoria dei sopravvissuti è contraddistinto, oltre che dall’ orrore, dalla depressione, dall’angoscia e anche dalla vergogna. Sì, la vergogna per qualcosa che hanno subito da altri, che sentono di avere accettato. La vergona di cose che non pensavano mai avrebbero fatto e che invece sono accadute e che comporta la necessità di silenzio e della rimozione di quanto è successo. Per esempio, molti sopravvissuti ebrei ai campi di stermino nell’immediato dopoguerra, hanno vissuto ma anche subito il non dover e non poter parlare di quanto era successo; il non poterlo fare per una aspettativa degli altri indipendentemente dal fatto che fossero stati a loro volta torturatori, vittime, spettatori o, anche, liberatori come nell’esempio di Levi. Sul piano individuale spesso la domanda cui ciascuno finisce col porsi è: perché io? perché io, vittima, e perché io, sopravvissuto? Molte volte rimane celata, dentro, da qualche parte, pietrificata da un misto di angoscia, dolore e vergogna.
E allora come si fa ad ascoltare? come si riesce a permettere che l’orrore sia narrato e che la persona possa riguardare, col sostegno dello sguardo di un terapeuta, quanto è successo senza precipitare in una angoscia senza parole? Alcune riflessioni di Silvia Amati su questo sono decise e coraggiose come quando, riportando una situazione di significativa difficoltà alla conclusione di un lungo percorso psicoterapico, narra di una paziente che gli chiede conto, parlando di un sogno in cui la sovrapponeva alla madre interrogandola sul perché accettasse di farsi carico, assieme a lei, di tutte queste cose terribili:
“se lei è mia madre è naturale che lo faccia, ma se lei “non” è mia madre come potrei ripagarla, e perché lo fa?”. Curiosamente e non per caso anche io mi ero posta la stessa domanda esistenziale e risposi immediatamente e senza la minima esitazione “lo faccio perché anche io vivo in questo mondo di merda”
A momenti percorrendo questi saggi, come su una linea del tempo, si coglie il tentativo sempre più evidente di congiungere la dimensione dei vissuti personali, che si manifesta nelle diverse forme di terapia, a quella del riconoscere l’effetto di un ambiente umano che con i suoi atti determina l’angoscia e i conflitti emotivi che Silvia Amati descrive secondo un vocabolario psicoanalitico. Ma la necessità di una posizione che superi lo sconforto del terapeuta di fronte a questo, quella determinazione che sta alla base della risposta che dà alla paziente nell’esempio appena citato, a dispetto di ogni interpretazione che è obbligata dentro momenti primari della esperienza mentale delle persone, sembrano, a me, il messaggio più prezioso di questo percorso.
“…ci sono ancora oggi –dice l’autrice– parecchi psicoanalisti che interpretano la violenza sociale traumatica, subita da un paziente come un desiderio inconscio o come una ripetizione del suo passato, riconducendo di conseguenza il trauma psichico di origine social e alla fantasia o al desiderio della vittima”
Nell’ultimo saggio pubblicato parla, usando uno pseudonimo, di “Irma”, che era Norma Scopice, studentessa uruguayana di medicina che la Amati conobbe nel 1973 e che si era recata in Svizzera per testimoniare al tribunale Russel. Tornata in Argentina, ove era esiliata, di nuovo scomparve e il suo nome è fra quello di altri in una targa commemorativa alla facoltà di Medicina, a Montevideo. È un nome che andrebbe pronunciato con orgoglio, come quello delle innumerevoli vittime della violenza e della tortura. Ridare un nome alle vittime, fermare i carnefici è un atto necessario anche per la cura dei sopravvissuti, per tutti coloro che sopravvissuti non sono, ma, soprattutto, per tutti coloro che ritengono che la violenza sugli esseri umani sia ammissibile. Non riesco, infatti, a pensare a un atto di cura che metta da parte e cancelli la necessità di un impegno etico e sociale.
La psicoanalisi ha, con gli eventi traumatici un rapporto particolare, quasi confidenziale, essendo intrisa della filosofia del “rifiuto della fatalità” come dice S. Amati citando Levinas. Ma psicoanalisi e psichiatria hanno, talvolta, e non raramente, un ruolo ambiguo nei confronti del trauma e della cura delle persone che hanno subito gravissime ingiurie come la deportazione, la tortura e che sono sopravvissute, per insondabili destini a stermini di massa. L’ambiguità di questo ruolo sta, anche, nel delicato equilibrio fra la comprensione del determinismo psichico e una posizione etica, ossia fra il ricondurre le vicende traumatiche a una storia individuale, ovvero, farne anche una questione etica di rilevanza sociale. Non che le due cose siano inconciliabili; Silvia Amati Sas sembra averlo molto chiaro, al punto che ritiene, a ragione, che la stessa categoria del Post traumatic stress disorder, PTSD,” per l’utilizzazione universale e aspecifica che se ne fa corra il rischio di essere una specie di “feticcio teorico facilmente complice dei traumi e delle guerre.”
Queste considerazioni e altre, tutte molto interessanti, si trovano in una raccolta di saggi di Silvia Amati Sas, uscita quest’anno,2020, per Franco Angeli, con una breve prefazione di Anna Ferruta e una bella introduzione di Federico Perozziello, che ne ha curato la pubblicazione.
Si tratta di articoli, interventi e riflessioni che coprono un ampio arco di tempo, quasi 40 anni, e che rappresentano una testimonianza delle elaborazioni, dei pensieri e dei giusti interrogativi di questa psicoanalista che, fin dall’inizio degli anni 70, ha cominciato ad occuparsi di vittime di violenza politica e sociale, di persone esuli, in Svizzera e che provenivano dall’America latina: Brasile, Cile, Argentina, Uruguay. Dice Federico Perozziello “Si trattava soprattutto di donne segnate dall’esperienza devastante dei campi di concentramento, dalla tortura, in cui avevano subito ogni tipo di sevizia morale e materiale”.
Nonostante questi saggi facciano riferimento a un tempo e a dei luoghi specifici non sfugge la loro attualità conseguente alla costante presenza, nello scenario sociale ed umano, della violenza. Una violenza estrema, impensata che ha come fine l’annullamento e la distruzione delle persone. Una violenza che, se si sopravvive fisicamente, lascia cicatrici profonde nel modo di pensare e di pensarsi delle persone. Rende le loro emozioni piagate da ricordi, a volte impossibili, e getta loro in una esperienza di sé ancora più distruttiva dell’immenso dolore provato. In questo contesto il discorso sul meccanismo attraverso i quali traumi condizionano l’esistenza e come il vivere post traumatico, ne risulti determinato, finisce con il confrontarsi con una prima e ineludibile questione ovvero quella della posizione etica di chi ascolta.
S. Amati, parlando dei sentimenti di chi assiste alla evocazione di tanta violenza e distruttività dice : Risentiamo di una perplessità simile a quella descritta da Primo Levi sulla sua esperienza nel campo nazista dove i prigionieri , al posto della gioia prevedibile per la liberazione tanto attesa, cadevano in uno strano e profondo malessere, al pari dei soldati russi, loro liberatori e poi cita direttamente Sommersi e salvati “non salutavano, non sorridevano, sembravano oppressi, oltre che dalla pietà, da un confuso ritegno che chiudeva loro la bocca e faceva loro abbassare gli occhi vinti dallo scenario funereo. Era una vergogna che conoscevamo bene. Quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa virgola e non abbia valso a difesa.”
Questo è il punto di partenza di un crescendo di riflessioni che si muovono su un crinale che da una parte comporta il confronto col ricondurre dentro una teoria , quella della psicoanalisi, i moti dell’anima e della identità di queste persone e dall’altro non perde mai di vista la concretezza del fatto che si parla di eventi accaduti , di ferite, di morti , di sevizie , violenze , comportamenti imposti inizialmente fonte di orrore , poi diventati abitudinari.
Perché se è vero, come dice Silvia Amati, che ci si “abitua a qualsiasi cosa”, per obbligo, rendendo consueto l’impensabile, è anche vero che il crinale della memoria dei sopravvissuti è contraddistinto, oltre che dall’ orrore, dalla depressione, dall’angoscia e anche dalla vergogna. Sì, la vergogna per qualcosa che hanno subito da altri, che sentono di avere accettato. La vergona di cose che non pensavano mai avrebbero fatto e che invece sono accadute e che comporta la necessità di silenzio e della rimozione di quanto è successo. Per esempio, molti sopravvissuti ebrei ai campi di stermino nell’immediato dopoguerra, hanno vissuto ma anche subito il non dover e non poter parlare di quanto era successo; il non poterlo fare per una aspettativa degli altri indipendentemente dal fatto che fossero stati a loro volta torturatori, vittime, spettatori o, anche, liberatori come nell’esempio di Levi. Sul piano individuale spesso la domanda cui ciascuno finisce col porsi è: perché io? perché io, vittima, e perché io, sopravvissuto? Molte volte rimane celata, dentro, da qualche parte, pietrificata da un misto di angoscia, dolore e vergogna.
E allora come si fa ad ascoltare? come si riesce a permettere che l’orrore sia narrato e che la persona possa riguardare, col sostegno dello sguardo di un terapeuta, quanto è successo senza precipitare in una angoscia senza parole? Alcune riflessioni di Silvia Amati su questo sono decise e coraggiose come quando, riportando una situazione di significativa difficoltà alla conclusione di un lungo percorso psicoterapico, narra di una paziente che gli chiede conto, parlando di un sogno in cui la sovrapponeva alla madre interrogandola sul perché accettasse di farsi carico, assieme a lei, di tutte queste cose terribili:
“se lei è mia madre è naturale che lo faccia, ma se lei “non” è mia madre come potrei ripagarla, e perché lo fa?”. Curiosamente e non per caso anche io mi ero posta la stessa domanda esistenziale e risposi immediatamente e senza la minima esitazione “lo faccio perché anche io vivo in questo mondo di merda”
A momenti percorrendo questi saggi, come su una linea del tempo, si coglie il tentativo sempre più evidente di congiungere la dimensione dei vissuti personali, che si manifesta nelle diverse forme di terapia, a quella del riconoscere l’effetto di un ambiente umano che con i suoi atti determina l’angoscia e i conflitti emotivi che Silvia Amati descrive secondo un vocabolario psicoanalitico. Ma la necessità di una posizione che superi lo sconforto del terapeuta di fronte a questo, quella determinazione che sta alla base della risposta che dà alla paziente nell’esempio appena citato, a dispetto di ogni interpretazione che è obbligata dentro momenti primari della esperienza mentale delle persone, sembrano, a me, il messaggio più prezioso di questo percorso.
“…ci sono ancora oggi –dice l’autrice– parecchi psicoanalisti che interpretano la violenza sociale traumatica, subita da un paziente come un desiderio inconscio o come una ripetizione del suo passato, riconducendo di conseguenza il trauma psichico di origine social e alla fantasia o al desiderio della vittima”
Nell’ultimo saggio pubblicato parla, usando uno pseudonimo, di “Irma”, che era Norma Scopice, studentessa uruguayana di medicina che la Amati conobbe nel 1973 e che si era recata in Svizzera per testimoniare al tribunale Russel. Tornata in Argentina, ove era esiliata, di nuovo scomparve e il suo nome è fra quello di altri in una targa commemorativa alla facoltà di Medicina, a Montevideo. È un nome che andrebbe pronunciato con orgoglio, come quello delle innumerevoli vittime della violenza e della tortura. Ridare un nome alle vittime, fermare i carnefici è un atto necessario anche per la cura dei sopravvissuti, per tutti coloro che sopravvissuti non sono, ma, soprattutto, per tutti coloro che ritengono che la violenza sugli esseri umani sia ammissibile. Non riesco, infatti, a pensare a un atto di cura che metta da parte e cancelli la necessità di un impegno etico e sociale.
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