Aut Aut apre con la proposta di tre scritti di Pirella. Il primo, inedito, è un estratto dai taccuini di lavoro al reparto “P” di Gorizia, presentato da Massimo Bucciantini. Si tratta di un materiale prezioso, perché da essi si evince – in modo necessariamente frammentario ma non mediato dall’ufficialità – uno stile di lavoro che consiste nell’essere, lo psichiatra, sul posto dove intende operare il cambiamento, e nell’avere presente ciascuno dei soggetti della vita istituzionale nella sua relazione con il gruppo. Per comprendere la vita istituzionale ogni dettaglio è importante, insomma.
Di fronte alla follia, lo psichiatra opera per restituire il più possibile senso a ciò che apparentemente non ne ha. Così, se l’affermazione di un malato che il reparto è (come) la sua casa può essere sbrigativamente liquidata da chi l’ascolta come delirio, insensatezza, essa è invece recuperata da Pirella ponendola in relazione con la storia di quell’uomo, che in quel reparto si trova da vent’anni. E ciò che appariva prima insensato, si riempie in questo modo di senso e di vissuto.
Il delirio, dunque, non interrompe nella prospettiva adottata a Gorizia la ricerca del senso, ma spinge semmai ad approfondirla; il delirio non interrompe la comunicazione, perché – come Pirella osserva a proposito di un altro malato – con il delirio vale la pena, almeno fino a un certo punto, di “dialettizzare”. E quando ciò non è più possibile (e non è infrequente), si può prende atto dello stallo temporaneo per riprovarci il giorno dopo.
Il secondo contributo di Pirella è dedicato a Basaglia in occasione della morte; Pirella ricorda gli anni nei quali guardava con interesse al collega da lontano, poi il lavoro in comune a Gorizia e infine si sofferma su quegli inizi degli anni ’80, nei quali della rivitalizzazione dei valori e del clima partecipativo della Resistenza che aveva caratterizzato gli anni ’60 sta spegnendosi anche l’eco.
Ricorda così «con quanta trepida simpatia Basaglia si recasse a Milano per ascoltare un anziano ma ancora vivace Minkowski», ed è interessante che Setaro, nello stesso numero della rivista, noti come in uno scritto volto alla commemorazione dello psichiatra frnco-polacco Pirella faccia tesoro delle osservazioni di uno scritto basagliano degli anni ’50, con il quale Franca Ongaro ha aperto la raccolta degli scritti più siugnificativi del marito nel 1981. Pirella coglie, infatti, come fossero centrali già in quel primo momento per Basaglia l’approfondimento fenomenologico dell’incontro da parte di Minkowski, e di Binswanger, come momento centrale nella relazione medico-paziente; e la ricerca comunque del dialogo con la parte sana, l’elemento illeso dell’altro, il che può evocare alla mente quanto in quegli stessi anni scriveva lo psicoanalista Paul Federn.
Un altro riferimento fondamentale per il giovane Basaglia è Sartre, cui si rifà in riferimento al tema dell’autenticità di ciascuno degli interlocutori nell’incontro; alla diversa qualità attribuita, in polemica con Heidegger, all’”essere insieme” in riferimento al contesto; alle ideologie che, come Basaglia gli ricordò durante un dialogo dato alle stampe nel 1975, «sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte».
A proposito dell’interesse di Basaglia, di Piro e suo in quegli anni ’50 per la psicosi, Pirella ricorda poi il suo e loro tentativo di fondare, all’interno della Società di Psichiatria, un gruppo di studio volto a studiare e posizioni più recenti, e l’ostilità dei rispettivi cattedratici verso qualsiasi cosa sapesse di nuovo che ne ostacolò la realizzazione.
Quello che a Padova per Basaglia era l’incontro duale, a Gorizia divenne l’assemblea dove ebbe l’opportunità, scrive Pirella, di mettere in gioco la sua «straordinaria capacità di tenere aperto il discorso di verifica stimolando la partecipazione di tutti, fossero anche i più miseri e i più esclusi, all’elaborazione di una linea di conoscenza e di trasformazione della realtà».
Perché la deistituzionalizzazione doveva toccare tutti; o vrebbe perso in autenticità. Poi è venuto il momento della riforma, la quale per sopravvivere aveva «bisogno di non avere troppi nemici», ma per questo costrinse a cercare «alleati nei nuovi tecnocrati» e consegnarsi così al rischio di un ripetizioni di ipotesi già fallite altrove (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti). Ed è un punto, questo, ripreso e approfondito nel fascicolo dall’intervento di Colucci.
Ancora Pirella riprende la metafora usata in una conversazione con Basaglia pubblicata nel 1978 per ricordare che, ormai, le navi degli ospedali psichiatrici, come quelle di Fernando Cortez, sono state distrutte e non è possibile tornare indietro; ma neppure questo consente di stare tranquilli: «Il grande mare delle contraddizioni» – e quella della globalizzazione che si fonda sulla libera circolazioni delle merci ma pretende di lasciare incatenata la merce-uomo al vincolo della nazione è oggi senz’altro una di esse – «viene affrontato con nuove navi e con nuovi nocchieri, con proposte sempre nuove, tutte apparentate dall’esigenza di non far scendere liberamente i passeggeri, non permettere loro di stabilirsi nelle piccole isole, nelle palafitte, di ostacolare la crescita di una cultura alternativa alle navi-istituzioni, la cultura del progetto comune di sopravvivenza e di trasformazione della vita». Non c’è dubbio che da allora siamo stati, e siamo, per quarant’anni in quella situazione.
Quanto a un argomento molto discusso, quello del rapporto tra Basaglia, la psichiatria e l’antipsichiatria, Pirella lo imposta (ed è di nuovo molto interessante) in questi termini: «nonostante le proposte “antipsichiatriche” di Laing e Cooper, Basaglia si mantenne sempre al di qua della scelta obbligata tra una psichiatria da riformare e una psichiatria da negare. Intanto perché la negazione si concentro vittoriosamente sulle istituzioni della violenza, e in particolare sul manicomio — ma ricordiamo anche gli interventi sulle carceri e sulle altre istituzioni della segregazione —, ma soprattutto perché Basaglia cercò in ogni momento di scegliere strumenti dialettici che non risolvessero le contraddizioni mediante salti logici o cortine di fumo ideologico, e si concentrassero invece sulla concretezza del rapporto istituzionale e sociale tra medico e paziente, cosi come si era storicamente consolidato».
Il terzo testo di Pirella risale al 1986; i servizi sono ormai ampiamente avviati ma in quegli anni è vivace il dibattito tra fautori di “servizi forti” e di “servizi diffusi”; un dibattito importante, al quale credo che oggi che – a valle della crisi drammatica di fiducia che ha investito il welfare negli ultimi decenni – abbiamo da tempo rinunciato all’idea di poter contare su servizi “diffusi”, ma anche tirando i remi in barca ci troviamo ad avere servizi sempre meno “forti”, dobbiamo attribuire una grande attualità.
È un momento delicato, quello della nascita dei servizi, del quale Di Vittorio si chiede come sia possibile recuperare l’eco, la voce del momento «quando bisognava “mettere tra parentesi la malattia” e provare a “emancipare” gli internati, senza però cessare di assisterli e curarli? Quando essere “responsabili” significava tradire il proprio mandato istituzionale, facendosi carico della libertà dell’”altro”, degli internati, con tutti i rischi che ciò comportava?». Quando il concetto di “reciproca contestazione” riportava indietro il modello della Comunità terapeutica rispetto al punto morto nel quale si era (e continua in buona misura ad essersi) cristallizzato, facendogli ritrovare la potenza e la radicalità delle origini.
Difficile, certo, recuperarla; ma non impossibile credo, e comunque indispensabile per noi operatori della Legge 180, che ogni giorno affrontiamo la scelta se ribadire (rilanciare) o revocare la negazione istituzionale che è stata fatta allora.
La straordinaria trasformazione alla quale la psichiatria italiana è andata incontro negli anni ’70 è nata dalla volontà di Basaglia e gli altri con lui di impegnarsi in una dimensione utopica, che per Pirella deve essere riportata all’utopia concreta del filosofo marxista Ernst Bloch, ma è andata poi incontro a un progressivo divaricarsi, come scrive ancora – e Colucci e poi Di Vittorio riprendono nel fascicolo – tra la linea forte della pratica, che ha ottenuto la chiusura degli Ospedali Psichiatrici e la debolezza del pensiero che l’ha retta e che tuttora la regge.
Le ragioni della crisi sono, per Pirella, da ricercare tra l’altro nella distanza tra le scienze – tanto nel caso delle scienze umane che di quelle naturali – con i loro livelli di astrazione e parcellizzazione, e la materialità della vita che gli esseri umani conducono: «Sfuggono di solito all’attuale dimensione e all’attenzione delle scienze umane le condizioni materiali di vita, le concrete e viventi condizioni in cui gli uomini devono vivere o in cui progettano il mutamento del loro vivere. Questo non accade per una disattenzione voluta o consapevole, ma perché queste condizioni non sono costitutivamente nell’orizzonte epistemologico delle scienze che si occupano della comunicazione, dell’interpretazione, delle idee, delle forme, e quindi della “cultura”, mentre anche le scienze che si occupano, al contrario, di cellule, del funzionamento degli organi e degli apparati corporei, di equilibri biochimici, di ingegneria genetica, di riparazioni ortopediche e chirurgiche, e quindi della “natura”, non sono interessate direttamente (ma neanche implicitamente) alle condizioni materiali di vita, e più in generale alla vita degli uomini, e al rapporto tra la loro vita e i modi in cui si manifesta il dominio e il controllo. Questa dimensione che qualcuno potrebbe chiamare “politica” appare estranea o troppo poco “scientifica”; cosi viene lasciata alla politologia o a certa sociologia».
È un passaggio che mi pare decisamente importante, e ho voluto riportare per intero. Come è di nuovo estremamente attuale la riflessione di Pirella sui confini della psichiatria, e quindi del mandato di cura dei servizi per la Salute Mentale: «Vi sono state e vi sono tuttora confusione e ambiguità sull’”oggetto” della psichiatria, il cervello malato, la pericolosità sociale, la devianza, la disabilità: di volta in volta questo contenitore quasi universale ha inglobato fenomeni accidentali ingestibili o inquietanti. Recentemente sono stati studiati con osservazioni psichiatriche i dirottatori di aerei e perfino i loro ostaggi, mentre stanno uscendo (faticosamente) dalla psichiatria gli omosessuali, ma solo se sono ben adattati».
Ci si muove, insomma, tra un rischio di estensione del mandato all’intero universo di ciò che riguarda l’uomo – da cui pure in qualche misura la psichiatria sente di non potersi dichiarare del tutto estranea – e un rischio di rattrappimento su quelli che sono (con tutte le riserve epistemologiche del caso) considerati i sintomi patognomonici della psicosi. E certo fa riflettere Colucci quando scrive: «Lo psichiatra non può abbandonare la propria specificità tralasciando di interrogarsi su che cosa questa scelta può provocare. È evidente che è stato investito di una delega, che gli viene scaricato addosso un problema sociale che non si riesce o non si vuole risolvere altrimenti, ma è anche vero che deve continuare a preoccuparsi di che cosa succederà all’homeless, “oggetto del rifiuto”». Ma l’individuazione del punto di equilibrio tra non chiamarsi del tutto fuori dalle questioni, e non correre il rischio di trovarcisi soli, non è facile.
Alle utili note biografiche offerte da Lucilla Gigli e Marica Setaro e agli interventi di Colucci e Di Vittorio ai quali abbiamo fatto riferimento, segue quello di Setaro che utilizza materiale dal fondo recentemente messo a disposizione dagli eredi e ha al centro la formazione e la carriera di Pirella e la sua partecipazione al dibattito italiano ed europeo di quegli anni non solo nel campo ella psichiatria, ma più in generale in quello della cultura.
Il movimento di deistituzionalizzazione cui Pirella ha lavorato prima a Gorizia e poi ad Arezzo non è – Setaro riprende dalle sue parole – stato solo un movimento di modernizzazione, né “poteva risolversi in un esercizio di rispecchiamento o di sostituzione di una pratica discorsiva o di un modello scientifico con un altro”, ma è stata una “dura verifica del ruolo dell’intellettuale a contatto con una realtà di oppressione e di violenza”.
Si trattava di testare la possibilità di una psichiatria “democratica” che era concepita come un esempio pratico di quello che avrebbe potuto essere un nuovo atteggiamento dell’intellettuale di fronte alle istituzioni della violenza, allargandosi dal manicomio al carcere, alla scuola, alla fabbrica e alla stessa società dell’esclusione alla quale la follia e la psichiatria erano, con la chiusura dell’ospedale psichiatrico, restituite come contraddizioni.
Setaro ricorda così tra i protagonisti del superamento del manicomio aretino Luciano della Mea, Paolo Tranchina, Anna Maria Bruzzone oltre a un paziente d’eccezione, Pasquale Spadi, autore di un’interessante autobiografia. Il quadro cambia poi con l’approvazione della legge 180 e la morte, due anni dopo, di Basaglia quando si tratta da un lato di dare per acquisita la vittoria sul manicomio e individuare strumenti teorici e pratici nuovi per affrontare i problemi nuovi che l’assistenza nel territorio pone; e dall’altro di curare da parte dei collaboratori, come Setaro giustamente ricorda, la ricezione del pensiero di Basaglia attraverso i suoi scritti perché la sua ricchezza non vada dispersa.
Vittorio Lingiardi dedica l’intervento successivo al tema della diagnosi psichiatrica e i rischi di un atteggiamento idolatrico e di uno idiosincrasico nei suoi riguardi, argomenti ai quali ricordo che Aut Aut ha dedicato il n. 357/2013. Ne emerge l’atteggiamento intelligentemente critico di Basaglia e Pirella rispetto alla riduzione diagnostica e al suo significato di difesa dalla complessità, che affonda le sue radici nella psichiatria di tradizione fenomenologica e psicodinamica – da Binswanger, a Minkowski, a Jung – e conserva tutta la sua attualità anche a fronte dell’ultima versione del DSM. Completano il numero un intervento di Marco Russo relativo alla condizione eccentrica, e uno di Paolo Fabbri, relativo all’identità.
Quanto all’altro volume, si tratta degli atti del convegno Agostino Pirella. L’esperienza di Arezzo a 40 anni dalla legge 180, tenuto ad Arezzo il 7 e 8 giugno 2018, raccolti da Cesare Bondioli.
Il testo si apre con un ricordo dello stesso Bondioli, volto a sottolineare l’importanza del pensiero di Pirella al di là del suo aver fatto parte del gruppo dei collaboratori più stretti di Basaglia, e uno del figlio Martino, che sottolinea l’importanza della “volontà” – la possibilità cioè di autodeterminarsi – come espressione dell’essere umano che può permettere anche rotture coraggiose come quelle che Pirella contribuì a determinare a Gorizia e riuscì a replicare ad Arezzo.
In un denso intervento poi Alessandro Ricci sottolinea l’importanza del pensiero di Pirella e dell’esperienza aretina – e più in generale delle parole e delle pratiche della deistituzionalizzazione – nella formazione degli operatori della nuova psichiatria e conclude con l’osservazione che: «in un tempo come il nostro di tramonto delle utopie è essenziale conservare con cura questi concetti, dove possibile praticarli; è un’eredità non facile, e tuttavia essi ci trasmettono la forza di un pensiero critico generoso e disinteressato, che può ancora generare pratica professionale e sociale».
Un tema ripreso da Paolo Nascimbeni, che sottolinea a sua volta la centralità della trasmissione, ogni volta che è possibile, ai colleghi più giovani della pratica e della cultura della deistituzionalizzazione; un esercizio di trasmissione di una lettura alternativa della storia passata e recente della psichiatria nel quale la sensibilità dell’Università di Genova ci ha dato recentemente l’opportunità di impegnarci e del quale abbiamo reso conto in questa rubrica (clicca qui per il link).
Tra i più stretti collaboratori di Pirella ad Arezzo, Gian Paolo Guelfi ricorda nel suo intervento come già la chiamata di un basagliano come Pirella da parte dell’amministrazione aretina fosse in sé sinonimo di un progetto di distruzione del manicomio e deistituzionalizzazione che ponesse al centro le condizioni dei ricoverati, la loro vita, la loro storia, il loro progetto personale di vita. Attento osservatore delle dinamiche istituzionali, Guelfi coglie uno degli aspetti centrali della deistituzionalizzazione e di una diversa posizione dello psichiatra nel manicomio nel fatto di viverne concretamente gli spazi, nello “stare con” infermieri e pazienti nei reparti che, come ho avuto modo di cogliere a mia volta anche nell’ex Ospedale Psichiatrico di Prato Zanino (segui il link) non era, almeno in molti ospedali psichiatrici degli ultimi decenni, affatto scontato.
Bisogna stare nei luoghi, avere concretamente a che fare con le cose, insomma, se si vuole indurre un reale cambiamento; così era stato – lo racconta Slavich – per Basaglia e i suoi a Gorizia, così per Pirella e i suoi ad Arezzo. E Guelfi racconta in proposito un aneddoto che Pirella era solito citare, secondo il quale Lenin avrebbe risposto ad alcune compagne che lamentavano l’insuccesso del loro apostolato tra le casalinghe, di provare ad aiutarle prima a lavare i piatti sporchi che erano accumulati se davvero volevano riscuotere fiducia e interesse da parte loro.
L’assemblea è, già nelle parole di Guelfi che ci propone qualche interessantissimo estratto dai verbali, il motore della deistituzionalizzazione ad Arezzo come già lo era stata a Gorizia. E sulla questione ritorna John Foot, che sottolinea la differenza di Arezzo da Trieste dove l’assemblea aveva perso invece importanza, sacrificata all’esigenza di contrarre i tempi e cercare da subito un’interlocuzione diretta e individuale tra il soggetto e la città; e vi ritornano poi Loredana Betti, Tina Chiarini, Alessandra Pedone, Franca Primi nel loro intervento, di nuovo centrato sulla rievocazione dell’esperienza aretina. L’assemblea, tenuta nella prestigiosa cornice della Sala dei Grandi, è stata in un primo tempo il momento di confronto interno all’Ospedale Psichiatrico dove tutti hanno avuto la possibilità di dire la loro o di partecipare anche solo con l’ascolto; ma da un certo momento in poi è diventata anche il momento privilegiato dell’interlocuzione tra l’ospedale – e l’esperienza trainante di deistituzionalizzazione che vi stava procedendo – e la città, della partecipazione cioè della comunità ospedaliera alla vita della città.
È ciò che emerge anche dalla testimonianza di altri operatori che hanno lavorato con Pirella – Pasquale De Nicola, Roberto Calcini, Massimo Gherardi, Enrica Giacobbi, Luisa Reina – e qui ripercorrono la storia del manicomio di Arezzo fin dalla lunghissima direzione di Arnaldo Pieraccini, e poi le tappe della deistituzionalizzazione sotto la direzione di Pirella.
Di Pirella, del resto, è giusto ricordare anche il contributo fondamentale alla trasformazione della storia della psichiatria a partire dalla ricostruzione del lavoro di John Connolly nell’Inghilterra del XIX secolo e da quello delle tragedie avvenute in psichiatria nel corso del nazismo e della guerra; così, è significativo il fatto che ad Arezzo un monumento ricordi le vittime delle istituzioni totali.
Italo Galastri, assessore socialista della Provincia di Arezzo ai tempi di Pirella, è stato con Bruno Benigni tra gli amministratori provinciali che più hanno avvertito l’importanza di avviare anche Arezzo sulla strada della deistituzionalizzazione, una deistituzionalizzazione posta in essere da Pirella, come da Basaglia del resto, sotto il segno della responsabilità, rifuggendo da qualsiasi scorciatoia semplicistica e ideologica e sforzandosi di costruire l’accompagnamento della chiusura dell’OP con la contestuale apertura dei servizi alternativi necessari a sostenere il dimesso nella comunità. Un tema, questo del contesto amministrativo locale nel quale nasce e matura l’esperienza aretina di Pirella, al quale dedica poi un’efficace sintesi Caterina Pesce. L’intervento di Marco Cecchini è utile a ricordare come ad Arezzo come altrove la deistituzionalizzazione nel campo della psichiatria non sia proceduta da sola, ma sempre accompagnata da pratiche analoghe che si andavano sviluppando nei campi dell’assistenza ai minori – è questo il caso – o degli anziani.
Emilio Lupo, poi, ricorda il contributo fondamentale di Pirella fin dalla sua nascita alla vicenda di Psichiatria Democratica, l’organizzazione fondata l’8 ottobre 1973 per diffondere i pensieri e le pratiche della deistituzionalizzazione, che ancora oggi è una presenza significativa nel dibattito psichiatrico di molte regioni italiane, e Johann Pfefferer-Wolf ricostruisce, con il corredo di una preziosa bibliografia, la vicenda dell’influenza del pensiero di Pirella nella sua proiezione europea, a partire dal rapporto, già evocato da Ricci, con il concetto kantiano di “insocievole socialità”.
Poi il volume prosegue soffermandosi sugli archivi raccolti presso l’ex Ospedale Psichiatrico di Arezzo, nei quali anche l’archivio Pirella è andato a confluire contribuendo a formare un fondo di grande valore per lo studio di quegli anni di radicale trasformazione e ricostruzione, a partire da basi nuove, della psichiatria italiana, con lavori di Silvia Calamai, Massimo Bucciantini, Massimo Baioni, Carlo Orefice.Due contributi di Ilaria La Fata e Marica Setaro si occupano invece del volume Asili della follia. Storie e pratiche di liberazione nei manicomi toscani, curato da Baioni e Setaro, del quale ci siamo occupati in questa rubrica (clicca qui per il link), la prima proponendo un’interessante lettura in parallelo dell’archivio aretino e di quello di Colorno del quale si è recentemente occupata (è la tappa stretta tra Gorizia e Trieste, tra l’altro, dell’itinerario basagliano, al centro del n. 342/2009 di Aut Aut).
Siamo così di nuovo agli scritti di Pirella, dai quali siamo partiti recensendo Aut Aut, con uno del 1984 originariamente posto come introduzione al volume fotografico Vivere fuori (Firenze, La casa Usher): La logica della trasformazione.
In esso Pirella ricostruisce il suo arrivo ad Arezzo proveniente da Gorizia, quasi ripercorrendo in una prima fase all’indietro la strada della deistituzionalizzazione a testimonianza di quanta strada, comunque, a Gorizia si fosse fatta. Si trattava, anche questa volta, di invertire la logica intrinseca al manicomio e ripercorrere cioè «in senso inverso la catena dell’esclusione». Non più dal portone ai luoghi più interni, dall’”osservazione” ai luoghi della cronicità e dell’inguaribilità sancite una volta per tutte, come il modello manicomiale da quasi due secoli pareva presupporre. Ma dai luoghi più profondi, il ventre della belva, via via verso i padiglioni più esposti alla città, e da questi, fuori.
È molto bella la conclusione di questo scritto, che abbiamo visto echeggiare già nelle parole di Ricci, Nascimbeni e di altri perché ha tanto più valore oggi, che altri anni sono trascorsi: «Sono passati gli anni, e ora Franco non c’è più; e vi sono dei medici, degli operatori molto più giovani che lavorano ad Arezzo e altrove per affermare che ci si deve prendere cura degli altri senza soffocarne la voce».
Nel video: Letture di testimonianze dallo spettacolo "Rosa Lullaby. Ricordi dai Tetti Rossi".
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