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Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolini
11 Set 20
A cura di Sabino Nanni
Per la maggior parte delle persone, il più intollerabile degli omicidi è l’infanticidio. Si può pensare, senza turbarsi troppo, all’assassinio di un adulto estraneo. Si può perfino pensare, sia pure con raccapriccio, al parricidio e al matricidio; ma l’assassinio di un bambino, soprattutto ad opera del suo genitore, suscita l’orrore di un atto sacrilego. Persino Dio, cui tutto è concesso, ferma la mano di Abramo prima che egli sacrifichi il figlio Isacco. Il motivo di tale ripugnanza è che l’infanticidio realizza il desiderio più segreto e più energicamente respinto dalla coscienza della maggioranza delle persone: quello di un’aggressione contro sé stessi e contro la vita umana; il che è frutto della pulsione di morte [10]. Ecco perché il riaffiorare di pratiche sempre più vicine all’infanticidio (l’aborto al nono mese, l’eutanasia prima dei tre anni di vita) è un gran brutto segno: quello di un’umanità che si sta suicidando.
Mettersi nei panni dell’infanticida è tanto difficile quanto necessario, soprattutto per prevenire e contrastare il più orribile dei crimini. Ancor più che negli altri casi, perciò, è opportuno farci guidare dagli Artisti in un percorso che, senza il loro aiuto, saremmo tentati d’evitare; un percorso la cui prima tappa ci porta a Medea. Su questo personaggio, Leonard Shengold dedicò parecchie pagine della sua seconda pubblicazione [15] sul “soul murder” (assassinio dell’anima), ossia sui gravi abusi che portano alla disintegrazione della vita interiore del bambino e del futuro adulto. In Medea, Shengold ravvisa il prototipo del “primal parent” (genitore primario) che porta all’estremo la sua distruttività. Qui sotto riassumo quanto scritto da quest’Autore, insieme ad alcune mie considerazioni su tale figura femminile perturbante, quale compare nel mito e nella tragedia di Euripide. Più sotto ancora parlerò del contributo, a mio avviso importante, di Pasolini.
I – Medea nel mito e nella tragedia di Euripide
La creazione del personaggio Medea segna l’inizio di un interesse nuovo per la donna nella letteratura occidentale. Altre donne come Clitennestra, Elettra e Giocasta, precedono Medea nella storia del teatro; tuttavia erano esseri puramente umani, privi di poteri eccezionali, ed avevano bisogno della complicità di un uomo per realizzare i loro disegni. La Medea dell’antichità che meglio conosciamo, quella di Euripide, ci offre la descrizione di un aspetto nuovo ed oscuro della donna. Si tratta, per certi aspetti, di un personaggio apparentemente diverso dai comuni mortali: è una “maga” capace, per i suoi poteri, d’agire diabolicamente da sola. Tuttavia questa stessa persona manifesta l’ambivalenza ed i conflitti riconoscibili, in misura diversa in ciascun individuo, in tutti gli esseri umani. La presenza contemporanea di aspetti umani comuni e di altri più oscuri ed enigmatici costituisce il motivo principale del fascino di questo personaggio [15].
Per certi aspetti, Medea sembra imparentata con le grandi Dee Madri delle epoche più remote, preistoriche e proto-storiche: “onnipotente”, priva dei limiti cui soggiacciono gli uomini. Tuttavia queste figure femminili, in quanto Dee immortali, appartenevano ad una dimensione lontana dagli esseri umani; come tali, potevano essere oggetto di un investimento idealizzante che non trovava ostacoli. La comparsa di una madre arcaica nelle spoglie di una donna “in carne ed ossa” produce un effetto perturbante, e pone di fronte ad un essere le cui opinioni sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male appaiono tanto violente, tanto animate da spirito vendicativo, da apparire del tutto estranee alla persona comune [1].
La parte del mito che precede la tragedia di Euripide narra la conquista del Vello d’oro. Questo, nella leggenda, possedeva il potere magico di preservare da un tragico destino. Apparteneva, infatti, ad un magico montone che aveva salvato dalla morte Frisso, principe della Beozia. Portando il ragazzo sul dorso, il montone era approdato in Colchide dove fu sacrificato. Quando Frisso morì, il re di quel paese, Eete, si rifiutò di dargli sepoltura nel proprio territorio. Anni prima, Pelìa aveva usurpato il trono di Iolco sottraendolo a Esone, padre di Giasone. Pelìa era assillato dal fantasma di Frisso, che esigeva il ritorno in Grecia delle sue spoglie e del Vello. Egli ne approfittò per mandare Giasone, erede legittimo al trono, a compiere la missione in Colchide, sperando che fallisse e trovasse la morte.
Medea, figlia di Eete, sotto l’influsso di Afrodite s’innamorò perdutamente di Giasone e gli diede in dono un unguento magico che lo rese invulnerabile. Ciò consentì a Giasone di portare a compimento l’impresa pressoché impossibile che Eete gli aveva imposto quale condizione per cedergli il Vello: domare tori feroci, che emanavano fiamme e, legandoli ad un giogo, arare un terreno. Qui avrebbe dovuto seminare denti di drago da cui sarebbero emersi guerrieri giganteschi contro cui, secondo le disposizioni di Eete, Giasone avrebbe dovuto lottare. Costoro, grazie ad un inganno di Medea, combatterono fra loro e si uccisero. Medea, subito dopo, aiutò Giasone ad impadronirsi del Vello, avvelenando il serpente che lo custodiva; fuggì poi con lui imbarcandosi sulla nave Argo insieme al fratello di lei Apsirto. Eete li inseguì con le sue navi, e Medea ritardò il loro avanzamento uccidendo il fratello, gettandone in mare il cadavere fatto a pezzi, ed obbligando così gli inseguitori a fermarsi per recuperare ogni parte del corpo. Giunti a Iolco, il re usurpatore Pelìa si rifiutò di restituire il regno a Giasone, come aveva promesso se questi avesse portato a termine l’impresa del Vello d’oro. Medea vendicò quest’ingiustizia con un inganno: convinse le figlie di Pelìa di poter magicamente restituire al re il vigore giovanile qualora l’avessero fatto a pezzi e fatto bollire in un brodo contenente medicamenti portentosi. Ucciso Pelìa, Medea e Giasone furono costretti a fuggire a Corinto.
Negli antefatti della tragedia, Medea appare chiaramente come persona capace di assassinare e mutilare persone del suo stesso sangue, pur di soddisfare i suoi desideri. Compare già la vendetta sul padre, compiuta assassinandogli il figlio, come avverrà coi bambini suoi e di Giasone. L’odio verso il padre è anche ciò che spinge Medea ad assassinare Pelìa, quale sostituto paterno [1, 15].
Veniamo alle vicende della tragedia euripidea. Medea appare, qui, come vittima di tradimento e d’abbandono: il marito Giasone, stanco di lei e forse spaventato da lei (così appare nella tragedia), l’ha lasciata, nonostante il suo giuramento di fedeltà, ed ha intenzione di sposare Glauce, figlia del re di Corinto Creonte. Medea è ritenuta una barbara fra i Greci, e non può ritornare nella nativa Colchide per via dei crimini commessi. Al vissuto di espulsione dalla terra madre ed a quello di emarginazione dalla città ospite, si aggiunge quindi il sentimento di abbandono per il ripudio del marito. Offesa, alterna stati di furia e di abbattimento: si rifiuta di nutrirsi e si chiude in casa. Già fin d’ora la sua vecchia nutrice esprime il timore che Medea:
“vada meditando chissà che. Ha un’indole violenta e a questo colpo non reggerà: com’è fatta lo so” [2, pag. 64].
Il re Creonte, a questo punto, entra in scena e dice a Medea: “Io ti temo, nasconderlo non serve: ho paura del danno irreparabile che puoi fare a mia figlia” [2, pag. 71].
Creonte è deciso a bandire Medea dalla città. Ha ragione di temere la sua ira: Medea, i cui precedenti comportamenti criminali sono noti, si sente profondamente offesa; a lei, che si crede discendente dagli Dei, è stata preferita una comune mortale.
Ciò nonostante, pur consapevole di sbagliare (e lo dice), Creonte cede alla supplica della donna di rimanere ancora un giorno.
Che un uomo di potere come Creonte, che si suppone avveduto e realistico e cui è nota la storia della donna, ceda alle sue suppliche, testimonia la grande capacità suggestivo-ipnotica di Medea. Il suo potere consiste nel paralizzare le reazioni altrui [15]
Medea, decisa a vendicarsi, invoca la Dea della vendetta Ecate e manda, tramite i due figli, doni di nozze alla principessa corinzia: una veste e un diadema impregnati di veleno che, se toccati, provocano una morte tormentosa. La figlia di Creonte, Glauce, benché consapevole del carattere traditore e dei precedenti criminali di Medea, tuttavia è incapace di resistere all’attrazione dei doni, e li indossa; anche lei cede alla fascinazione ipnotica della “maga” [15]. Un messaggero racconta dettagliatamente l’accaduto a Medea, e le sue parole ancor oggi suscitano intense emozioni:
“Quando la coppia dei tuoi figli giunse insieme al padre e oltrepassò la soglia delle stanze nuziali (…) lei [Glauce]… prese il manto screziato e lo indossò, pose la corona d’oro sui riccioli, acconciandosi la chioma nello specchio lucente e sorridendo al sembiante senz’anima di sé. (…) Quel che accadde poi fu per gli occhi un orribile spettacolo: cangiò colore e andava indietreggiando obliqua, tutta un tremito (…) Una sua vecchia ancella… vide uscirle dalla bocca una bava bianchiccia, e le pupille stralunate nell’orbita, e le carni senza più sangue. (…) L’assalto di due mali la travagliava: sul suo capo il serto d’oro versava un prodigioso rivolo di fuoco divorante; il manto… le rodeva, sventurata, le carni bianche (…) il sangue dall’alto del capo stillava giù commisto al fuoco e, come le lacrime del pino, si staccavano dalle ossa le carni, sotto il morso invisibile dei veleni; spettacolo orrendo” [2, pag. 96, 97].
(Shengold segnala, qui, un fatto curioso: lo stesso termine “gift” che in inglese significa dono, in tedesco vuol dire veleno.)
I doni di Medea sono capaci di soddisfare la pulsione ostile più primitiva. Hanno, infatti, carattere cannibalesco: sono un “morso” che “divora” e “rode” la carne [15]. Il messaggero descrive la disperazione di Creonte, che cerca d’aiutare la figlia. Riporta le parole di questo anziano genitore:
“Povera figlia mia, qual è quel dio che ti dà una morte così indegna? Chi rende questo vecchio orbo di te, mentre ha già un piede nella fossa? Ahi, ahi, figlia, voglio morire insieme a te!” [2, pag. 97].
Così prosegue il racconto:
“Quando finì di piangere e di gemere, mentre voleva sollevare il vecchio corpo, aderiva, come al tronco l’edera, al peplo fine: una lotta terribile: lui che voleva rizzare il ginocchio, lei che di contro l’afferrava; e se faceva forza, quelle vecchie carni strappate dalle ossa le faceva a brani. Desisté alla fine e rese l’anima… Così giacciono morti, figlia e padre” [2, pag. 97, 98].
Padre e figlia si fondono nella morte. Medea, che si è separata così violentemente dal padre (e che fra poco farà altrettanto col marito) provoca, nei suoi nemici, l’opposto di una separazione: padre e figlia tornano a fondersi e, così riuniti, li sopprime.
Ora Medea è decisa ad uccidere i figli. Non può tollerare che Giasone possa tenerli o che essi abbiano una vita separata dalla sua: la loro esperienza del rapporto col padre non le appartiene più. Giasone aveva parlato del suo progetto di portare allo stesso livello di nobiltà i figli avuti da Medea e quelli che prevede d’avere da Glauce; conta molto sulla sua discendenza. L’infanticidio colpisce quest’ambizione di Giasone:
“Uccidere i figli per rovinare la casa di Giasone. Nulla potrebbe meglio ferire il cuore del mio sposo” [2].
Il comportamento di Medea presenta aspetti melanconici: l’assassinio dei figli rappresenta anche una auto-umiliazione ed una auto-mutilazione. Infatti ella vede i bambini come una parte di Giasone, ma è anche una parte di sé stessa che Medea umilia e sopprime in loro. Il suo mondo interno è scisso in due parti, di cui l’una si accanisce contro l’altra [1, 5] ed ella traspone sulla scena del mondo esterno quel che avviene nella sua vita interiore. La parte di sé che Medea uccide nei suoi bambini è sé stessa figlia legata al padre e dipendente da lui: odia questa parte di sé, così come odia il padre.
Tormentata dall’ambivalenza, Medea razionalizza l’atto omicida come gesto di clemenza:
“…ho deciso d’ammazzare subito i figli… per non lasciare, se indugio, che un’altra mano più ostile li uccida. È destino che muoiano e, se devono morire, ad ammazzarli sarò io, la madre” [2, pag. 98]
La razionalizzazione è qui una sorta di auto-giustificazione ipocrita, ma anche espressione della proiezione sui figli di una sua disperazione che trova sollievo soltanto nella morte, come avviene negli omicidi-suicidi di certi gravi depressi
Euripide esprime efficacemente i conflitti e le passioni che si agitano in Medea di fronte alla prospettiva di uccidere i suoi bambini:
“Coraggio, cuore, all’armi. Perché indugio a compiere un’azione necessaria anche se orrenda? Su, prendi la spada, povera mano mia, prendila… non essere vile, non ti sovvenga dei tuoi figli, quanto ti sono cari e come tu li partoristi: no, nel breve lampo di questo giorno scorda i tuoi bambini, piangerai dopo. Tu li ucciderai, ma ti furono tanto cari… e io non sono che una donna sventurata” [2, pag. 98]
La furia di Medea, tuttavia, finisce per aver la meglio sul suo amore. La donna si rende conto che la sua volontà non è influenzata dalla propria coscienza e dalla propria riflessione; non può controllare le proprie passioni, può solo subirle [1]:
“Io non resisto a guardare i miei figli, la sventura mi vince. Il male che sto per fare lo capisco, ma più di ogni pensiero può la passione, quella che per gli uomini è cagione dei mali più tremendi” [2, pag. 94].
Nei momenti decisivi, la furia la domina: la ragione – la funzione dell’Io – non governa più la sua volontà omicida. Tuttavia, la razionalità è ben presente quando se ne serve per i suoi scopi criminali, come quando astutamente inganna Giasone e Creonte. Qui l’Io, anziché dominare la sua rabbia narcisistica, si pone al suo servizio [8].
Nella tragedia, dopo l’infanticidio, Medea viene salvata da un carro trainato da draghi alati, inviatole dal dio Sole. Sia l’infanticidio, sia la sua fuga consentono a Medea di rientrare in pieno possesso dei figli, ossia ridivenire padrona della loro vita e della loro morte. Già aveva preannunciato: “sarò io che li ucciderò, dopo aver dato loro la vita”. Impadronendosi delle loro salme (e impedendo al padre di seppellirli e persino di toccarli) potrà portarli trionfalmente con sé sul carro del Sole, suo antenato. Così facendo, li sottrae alla stirpe di Giasone, e li fa divenire esclusivamente discendenti suoi e dell’antenato idealizzato, onnipotente e immortale. Nel quadro di Delacroix esposto al Louvre, Medea stringe i bambini sul suo ventre, come volesse farli rientrare nel proprio grembo. Pare alludere ad una fantasia di nuovo concepimento, stavolta per partenogenesi, in cui il padre verrebbe escluso. [1]
Fuggita da Corinto, Medea raggiungerà ad Atene Egeo, re di quella città, che le aveva promesso d’ospitarla. Secondo alcuni, dopo la morte, nei campi Elisei diverrà la sposa di Achille. È questo il trionfo della madre arcaica maga ed assassina: neppure gli Dei penseranno di punirla.
L’intensa risposta emotiva suscitata dalla tragedia dipende, in gran parte, dalla fascinazione ipnotica esercitata da questo personaggio. Giasone, Creonte, la figlia di questi Glauce ed il pubblico si rifiutano di credere che la donna tradurrà in un gesto reale le sue potenzialità criminali. Questo a dispetto del fatto che la sua natura e le sue intenzioni sono evidenti, talora esplicitamente dichiarate. Il bisogno di negare quel che Medea è realmente, di vederla benevola e amorevole, a dispetto di quanto ha detto e fatto, è così intenso che persino gli Dei la perdonano. Il bambino (ed il bambino che c’è in tutti noi) ha un assoluto bisogno di una buona madre. C’è una universale resistenza al riconoscimento della realtà di una madre assassina, resistenza che può mascherare un’inconscia attrazione verso di lei. In nessuno di noi scompare del tutto l’intenso e vitale bisogno di una mamma protettiva, che può rinascere nel momento del pericolo. Ciò è in gran parte alla base della diffusa incredulità per la realtà di certi abusi materni [15]. Medea è l’opposto di tale mamma: ella considera il bambino (e la persona che ama), quando non più parte di lei, come un “nulla”. Il punto di svolta della tragedia euripidea è il momento in cui Giasone tradisce il suo giuramento di non separarsi mai dalla moglie. Medea lo aveva aiutato ad impossessarsi del vello d’oro che conferiva, a chi lo possedeva il potere di fuggire da ogni avversità. Tuttavia è proprio tale capacità che la donna non sopporta. Medea rappresenta la madre “onnipotente” e possessiva; una madre che può dare in dono al figlio la capacità di fuggire “con” lei, ma non quella di fuggire “da” lei.
Sia il mito, sia la tragedia di Euripide sono centrati sulla sola figura di Medea; gli altri personaggi sembrano poco più che comparse. Per trovare un quadro più preciso di chi interagisce con la donna-maga dobbiamo fare un salto di più di duemila anni, e rivolgerci a Pasolini.
II – La Medea (e il Giasone) di Pasolini
Pasolini, nel suo film “Medea” (1969 [14]) ci offre una versione, del mito per certi aspetti, più realistica e più facilmente collegabile alla realtà attuale; maggiore, a mio avviso, è anche il suo approfondimento su quanto avviene nella vita interiore dei personaggi e nella loro relazione.
Innanzi tutto, Giasone. Sia nella tragedia di Euripide, sia nei commenti recenti [1, 15] non sono evidenti le motivazioni interiori più profonde del suo comportamento nei confronti di Medea. Il tradimento, la decisione di lasciare la moglie (nonostante il giuramento di eterna fedeltà) possono essere attribuiti ad un suo carattere volubile, opportunista e ambizioso: abbandona Medea per sposare Glauce, la figlia del re di Corinto. Pasolini, al contrario, ci prepara all’evoluzione tragica delle vicende descrivendoci, già dalla prima infanzia di questo personaggio, come prende forma la sua mente. Ciò costituisce la premessa di quanto fatalmente avverrà nella sua vita.
Strappato ai suoi genitori naturali, Giasone viene adottato da Chirone. Questi appare dapprima come centauro; poi, quando il figlio adottivo è cresciuto, come essere umano. Ciascuno dei due educatori presenta a Giasone una diversa visione del mondo. Il Chirone-centauro adotta un sistema di pensiero di tipo religioso e, in parte, animistico [4]: “Tutto è santo, non c’è nulla di naturale. Quando tutto ti sembrerà naturale, tutto sarà finito…”. Non sfugge, a Chirone, che questi sistemi di pensiero colgono gli aspetti più profondi e ambivalenti della vita interiore, dove non vige il principio di non contraddizione: “… ma la santità ha in sé una maledizione: gli Dei che amano, al tempo stesso odiano”.
Più avanti Chirone, divenuto uomo, così commenta la sua precedente visione del mondo: “Per l’uomo antico, i miti ed i rituali sono esistenze concrete che lo comprendono anche nelle sue esperienze corporali e quotidiane. Per lui la realtà è un’unità talmente perfetta che l’emozione che prova, mettiamo, di fronte al cielo d’estate, equivale all’esperienza interiore più personale dell’uomo moderno”. L’uomo moderno (e ora Chirone stesso) usa prevalentemente un sistema di pensiero di tipo filosofico-scientifico; privilegia, nella realtà, ciò che percepiscono i suoi organi di senso, senza ricorrere, nelle sue spiegazioni, al sovrannaturale. Ciò è evidente fin dai primi tentativi di spiegare l’origine del Cosmo da parte di Talete. La “perfetta unità” del mondo esterno e della vita interiore, ora si è rotta definitivamente; e forte è la tentazione di rinnegare, insieme al sistema di pensiero di tipo religioso, anche tutto ciò che esso aveva colto, anche il significato che interiormente viene attribuito alle cose, anche l’esistenza di Dio. Dice il Chirone più recente: “L’uomo primitivo attribuiva un significato di resurrezione al germogliare dei semi che, nella terra, perdono la loro forma e rinascono. Ma ora questo significato ha perso d’importanza, come un lontano ricordo che non ti riguarda più. Infatti non c’è nessun Dio”.
Parlando di quel che prevede nella futura impresa di Giasone (la conquista del Vello d’oro in Colchide), Chirone così commenta: “Ti troverai di fronte ad un mondo ben lontano dall’uso della nostra ragione… un mondo molto realistico, perché solo chi è mitico è realistico, e solo chi è realistico è mitico”. Qui è ben descritta la situazione dell’uomo greco che, sviluppando il suo λόγος, sta cercando d’emanciparsi da forme arcaiche di pensiero. Egli, posto di fronte ad un mondo barbarico, dove tali modi primitivi di pensare sono ancora dominanti (e dove il mito religioso “è” la realtà), deve misurarsi con una cultura che, paradossalmente, è più realistica riguardo alla vita interiore di quanto sia quella più evoluta e razionale: il mito è una struttura culturale permanente, ossia una narrazione che riflette fedelmente ed organizza il mondo interno umano [11]. La mentalità di questo mondo è ormai distante da quella di un Greco (soprattutto dell’Ateniese del V secolo AC cui Euripide si rivolge): è “come un lontano ricordo che non lo riguarda più”. Giasone, perciò, mostrerà notevoli difficoltà a comprendere Medea, che a tale cultura barbarica appartiene. Il λόγος sopravvalutato e idealizzato di quest’uomo si rivela tutt’altro che infallibile; come Chirone gli aveva preannunciato, la “divina” ragione può prevedere molte cose; tuttavia “ciò che non può prevedere sono gli errori a cui ti condurrà… e chissà quanti errori saranno!”
Che Medea appartenga ad un mondo barbarico è chiaramente testimoniato dalla prima scena del film in cui compare questo personaggio, meravigliosamente interpretato da Maria Callas. Qui la donna assiste del tutto impassibile ad un sacrificio umano. Il carattere primitivo di Medea è testimoniato anche dal suo comportamento durante la conquista del Vello d’oro (per cui offre il proprio aiuto a Giasone) e durante la successiva fuga con l’amante. Come si è visto più sopra, ella uccide a sangue freddo il fratello Apsirto e lo fa a pezzi, gettando sulla strada i frammenti del cadavere per ritardare la marcia degli inseguitori. L’assassinio di Apsirto testimonia l’odio di Medea verso il padre che, probabilmente, ha privilegiato il figlio maschio per la successione al trono. Quest’atto, al tempo stesso, segna la rottura, provocata in modo violento, con la sua gente e con i propri genitori. In Medea, come in tutte le menti primitive, pensiero, sensazione ed azione si confondono. In lei, almeno nei momenti decisivi, è gravemente carente quella funzione dell’Io che “grazie ai suoi rapporti col mondo della percezione, regola la successione temporale dei processi mentali, li sottomette all’esame di realtà, e controlla i percorsi che conducono alla motilità” [6].
La narrazione del mito e quella del film di Pasolini divergono in diversi punti. Manca, in quest’ultima, qualsiasi forma di vera e propria “magia”. Medea, come si vedrà più sotto, darà prova di possedere qualità istrioniche che la rendono capace di una sorta di “fascinazione ipnotica” [15], ma non d’essere dotata dei poteri “magici” come li intende la superstizione; poteri che, nel mito, le consentono d’offrire a Giasone un unguento che lo rende invulnerabile, o di neutralizzare i giganti contro cui il suo amante avrebbe dovuto lottare. Tutto è molto più simile alla realtà umana che vediamo ogni giorno. Medea, qui, non appare affatto quella maga onnipotente e invulnerabile che viene descritta nel mito. Dopo avere, assassinando il fratello, reciso i legami coi genitori e la sua patria, nel seguito della fuga si palesa in modo evidente tutta la sua fragilità. Ad un certo punto, il suo volto esprime smarrimento, angoscia, come fosse una bambina che di colpo si sente abbandonata da chi l’ha messa al mondo: dalla Terra Madre, che le pare non la sostenga più, e dal Sole, il dio che ella ritiene sia padre di suo padre. Terrorizzata, si aggira per la campagna implorando: “Parlami terra, parlami sole! Fatemi sentire la vostra voce; non ricordo più la vostra voce!… forse vi sto perdendo”
A questo punto, Giasone le si avvicina e, accogliendola tra le sue braccia, le offre il conforto e la protezione che Medea sente d’aver perduto. D’ora in avanti la donna, allontanatasi dai suoi parenti, esule in una terra a lei estranea, potrà contare solo sul suo amante, che presto diviene suo coniuge.
Qualcosa di analogo accade a Giasone: a differenza di quanto viene narrato nel mito, nel film egli non insiste affatto con Pelìa per ottenere la restituzione del trono di Iolco, che pure gli spetterebbe di diritto. Al rifiuto di Pelìa, egli risponde di tenersi pure il regno: non ci tiene più – Per inciso, qui Pasolini smentisce che Giasone sia un ambizioso; nega, quindi, che per questa caratteristica egli abbandoni Medea per sposare la figlia del re di Corinto: apparteneva già ad una stirpe regale, e vi ha rinunciato. – Allontanandosi da Pelìa, Giasone prende significativamente per mano Medea e con lei emigra a Corinto. Ora, anche se per un breve periodo, ambedue esuli in terra straniera, saranno entrambi il solo sostegno l’uno dell’altra.
Sia per Medea, sia per Giasone, la separazione da chi li ha messi al mondo è avvenuta in modo violento; una violenza messa in atto dalla donna e subita passivamente dal suo coniuge, strappato ai genitori naturali alla sua nascita. Una separazione di questo genere (brutale, priva del sostegno empatico di genitori che comprendano che il destino dei figli è allontanarsi da loro) non può produrre una vera emancipazione. Questa comporterebbe l’assimilazione graduale di qualità apprezzate dei genitori; il che fornirebbe ai figli quell’equipaggiamento interiore necessario per affrontare in modo autonomo la vita. Medea e Giasone, a questo punto della storia, sembrano come due bambini che s’illudono d’aver trovato, l’uno nell’altra, il genitore perduto di cui non possono fare a meno. Vengono in mente gli “uomini vuoti” descritti da Eliot, gli esseri umani privi delle qualità interiori che li renderebbero adulti e autonomi. Essi non possono che appoggiarsi l’uno all’altra; come fossero due assi che si sostengono vicendevolmente e, se una delle due cade, crolla anche l’altra:
“We are the hollow men We are the stuffed men Leaning together Headpiece filled with straw Helas!.
(Siamo gli uomini vuoti, / siamo gli uomini impagliati / che appoggiano l’uno all’altro / la testa piena di stoppia / ahimè! …) [3]
Presto, però, arriva per Giasone la disillusione. Arrivato a Corinto, gli appare la visione di Chirone. È, come dice Chirone stesso, una visione prodotta dalla sua mente, poiché il suo vecchio educatore è stato da lui interiorizzato. L’immagine che gli si presenta è come sdoppiata: vede sia l’antico centauro, sia Chirone divenuto uomo. Fra Giasone e questa visione assistiamo ad un dialogo che rappresenta un punto di svolta nelle vicende del film:
Chirone-uomo: “Hai conosciuto due Chirone: uno sacro, quando eri bambino; ed uno sconsacrato, quando sei diventato adulto. Ma ciò che è sacro si conserva, accanto alla sua forma sconsacrata”
Giasone: “Qual è la funzione del vecchio centauro?”
Chirone-uomo: “Esso [centauro] non parla naturalmente, perché la sua logica è così diversa dalla nostra che non si potrebbe intendere; ma posso parlare io per lui. È sotto il suo segno che tu, al di fuori dei tuoi calcoli e della tua interpretazione, in realtà ami Medea… e inoltre comprendi la sua catastrofe spirituale: il suo disorientamento di donna antica, in un mondo che ignora ciò cui ha sempre creduto. La poverina ha avuto una conversione alla rovescia, e non si è più ripresa”
Giasone: “E a che mi serve sapere tutto ciò?”
Chirone-uomo: “A nulla. È la realtà”
Giasone: “E tu per quale ragione me lo dici?”
Chirone-uomo: “Perché nulla potrebbe impedire al vecchio centauro d’ispirare sentimenti; e a me, nuovo centauro, d’esprimerli”
A questo punto, Giasone s’allontana dando segni evidenti di disperazione.
Il vecchio centauro, imbevuto di credenze religiose, di miti (e perciò sensibile ai fatti della vita interiore), come oggetto interno di Giasone gli ha ispirato sentimenti d’amore per Medea. Egli ha creduto di ravvisare in questa donna una figura materna protettiva, ma la sua sensibilità profonda (che non gli parla direttamente e prontamente) ha colto in lei l’essere fragile simile a lui. Che fare di fronte a questa scoperta? Il Chirone-uomo non sa dargli una risposta. Egli è la voce della ragione, una facoltà che permette di cogliere la realtà, per quanto dura essa sia, ma non necessariamente di risolverne i problemi. Nel caso di Giasone, la sola razionalità non può bastare: gli manca quell’equipaggiamento interiore che gli consentirebbe di rinunciare a Medea come sostituto materno, di riconoscerla come essere sofferente da aiutare, di restituirle serenità e senso di sicurezza. Tutto questo richiederebbe quell’autonomia e quelle capacità riparative e protettive che Giasone non ha mai acquisito. Di fronte a questo problema irrisolvibile, a Giasone non resta che la fuga: abbandona Medea.
La donna, dopo la scoperta del tradimento del marito, appare profondamente abbattuta, distrutta. L’abbandono da parte di Giasone comporta per Medea una grave ferita narcisistica: lei, che si ritiene di stirpe divina, si trova relegata in una condizione inferiore ad una semplice mortale: Glauce. Tuttavia costei è giovane, ed è greca. Si sente del tutto impotente, incapace di fronteggiare la situazione. All’ancella che le suggerisce di ritornare “quella che era”, ossia la “maga” onnipotente, dotata di poteri prodigiosi, Medea risponde con scetticismo: “Sono rimasta quella che ero: un vaso pieno di sapere non mio”.
Poi avviene qualcosa di nuovo: vede il sole, e riconosce nell’astro il dio da cui ritiene di discendere dal lato paterno. Sente che il suo divino antenato la sprona a combattere, a tornare ad indossare “le sue vecchie spoglie”. Con questo sostegno, Medea recupera l’antica decisione, l’antica ferocia e le straordinarie capacità suggestivo-ipnotiche che aveva dimenticato di possedere. Di qui ha inizio la serie dei suoi atti vendicativi e criminosi che culminerà con l’assassinio dei figli.
Di quel che segue, Pasolini ci offre due versioni. Nella seconda vediamo chiaramente che cosa fa deflagrare la miscela esplosiva della furia di Medea.
Medea convoca Giasone con il pretesto di chiedergli di convincere Glauce e Creonte a non bandire dalla città i suoi figli. Afferma che, per propiziarsi il favore della principessa, le farà consegnare preziosi doni dai bambini stessi. In realtà vuole far pervenire a Glauce la veste ed il diadema che, cosparsi di un veleno, la porteranno alla morte. Avevamo lasciato Giasone sconvolto dopo il colloquio con la visione di Chirone che gli aveva rivelato la fragilità di Medea e la propria incapacità a farvi fronte. L’abbiamo poi intravisto festeggiare il suo prossimo matrimonio con Glauce. Ora è del tutto evidente che Giasone ha, in cuor suo, completamente reciso ogni legame con Medea. Disconosce i propri sentimenti per lei e quelli della donna per lui, la de-idealizza completamente; la donna gli è divenuta estranea e cessa del tutto di mettersi nei suoi panni: “Se hai fatto qualcosa per me, lo hai fatto solo per l’amore del mio corpo”. Nega, inoltre, d’essersi giovato delle capacità e della generosità della donna. Tutto questo lo porta ad assumere, verso Medea, atteggiamenti arroganti ed irriconoscenti: “Io devo soltanto a me stesso la buona riuscita delle mie imprese…Ti ho dato molto di più di quello che ho ricevuto”. Qui la ferita all’orgoglio di Medea diventa per la donna intollerabile; non può più assolutamente astenersi da una reazione estrema: il destino dei figli è segnato.
Come Chirone aveva previsto, la “ragione” porta Giasone a commettere con Medea uno sbaglio madornale. Si tratta di una “razionalità” che, sganciata da quel che la sensibilità avrebbe potuto suggerirgli, rimane alla superficie delle cose: per lui, la prospettiva di “sistemare” i figli in una famiglia regale avrebbe dovuto rappresentare un argomento sufficiente a convincere Medea ad accettare l’abbandono e persino i suoi atteggiamenti ostili e irriguardosi. Essendosi allontanato, per le sue esigenze, dal “fuoco” delle passioni, il mondo delle emozioni estreme gli è divenuto del tutto estraneo, ed egli ne ignora l’esistenza in una donna che, in tale mondo, è ed è stata completamente immersa fin dalla nascita.
Il fuoco, simbolo delle passioni, compare nel film in due occasioni: quando Medea sta per entrare nel tempio dove è custodito il Vello d’oro, ossia il momento che dà inizio alla sua avventura con Giasone, e quando ogni legame con quest’uomo viene reciso del tutto, ossia il momento in cui sta per allontanarsi da Corinto. Qui, in Pasolini, il fuoco prende il posto del carro del Sole trainato da draghi alati che compare nella tragedia euripidea. Ad impedire a Giasone d’avvicinarsi a Medea ed alle salme dei figli non è più il volo del carro su cui viaggia la donna, ma il fuoco che s’interpone fra lei e lui. Essendo divenuto, per la sua fragile e superficiale “razionalità”, del tutto incapace d’affrontare il fuoco delle passioni, egli perde per sempre non solo la compagna, ma anche i suoi bambini.
III – La coppia infanticida: il tragico fallimento dell’emancipazione
Le vicende di Medea e Giasone (come narrate nel mito, nella tragedia di Euripide e nella successiva rielaborazione di Pasolini) ci offrono preziosi suggerimenti, utili per comprendere ciò che sta alla base delle estreme manifestazioni di violenza all’interno della famiglia: l’uxoricidio e l’infanticidio. Come si è visto, sia in Giasone, sia in Medea, la separazione dai genitori è avvenuta in modo violento. Ciò, in entrambi, non ha portato ad una vera emancipazione: il rapporto di dipendenza da chi li aveva messi al mondo non viene superato, ma riprodotto per traslazione nella relazione coniugale. Di conseguenza, la separazione fra marito e moglie riproduce, anche nella sua violenza, quella avvenuta fra loro e la famiglia d’origine. Se, per Giasone, Medea è divenuta del tutto estranea (e, di conseguenza, non riesce più a capirla), ciò significa che l’ha uccisa interiormente. Medea fa altrettanto col marito: lo uccide tramite l’acting criminale della soppressione dei suoi figli. Che il carattere violento della separazione sia incompatibile con l’acquisizione una vera autonomia sembrerebbe in contrasto con quanto sostenuto da Loewald, che sul tema dell’emancipazione ha espresso concetti di grande interesse. Per quest’Autore, per superare il legame di dipendenza dai genitori è necessario e inevitabile reciderlo tramite un parricidio e/o un matricidio, vissuti in fantasia e in parte tradotti in azione. Allo scopo di discutere questi concetti, riassumo qui sotto brevemente quel che, in proposito, sostiene lo stesso Loewald [12] ed i commenti di Ogden [13].
Loewald usa i termini “parricidio” e “matricidio” per descrivere l’assassinio di una qualsiasi persona cui si sia legati da un rapporto “sacro”: genitore, parente o altra autorità. Questa persona, talora, è colpevole di tradimento. Nell’atto di quest’assassinio, dice Loewald, “è l’autorità genitoriale che viene soppressa; tutto ciò che è “sacro” nel legame fra figlio e genitore viene profanato” – per inciso, la parola “sacro” è qui usata in un’accezione laica per descrivere ciò che si distingue per la sua solennità e rispettabilità. – “Autorità” parentale (da augēre: far crescere) significa generazione, nutrizione, protezione; tutto questo rende “sacro” il legame del figlio coi genitori in quanto serve a creare e sviluppare quel “prodigio” che è l’emergere della vita umana da un substrato biologico. L’assassinio dei genitori è “un crimine contro la santità di tale legame.” Esso è espressione della ribellione contro le pretese dei genitori di esercitare potere sui figli. Non c’è, qui, una sorta di cerimonia di passaggio del testimone fra una generazione e l’altra, ma la recisione di un legame sacro. Si tratta di un atto criminale sacrilego.
Il superamento della dipendenza dei genitori (che coincide con l’uscita dalla situazione edipica), per Loewald non è, come in Freud [7], il frutto della paura suscitata dalla “minaccia di castrazione”, ma dell’affermazione di un bisogno (“urge”) d’emanciparsi. La parola “urge” (impulso, bisogno impellente) lega, qui, la necessità d’affrancarsi ad una spinta interiore innata, simile alle pulsioni istintuali corporee, verso l’individuazione. Loewald amplia la teoria freudiana delle pulsioni, estendendola al di là dei confini di quelle sessuali ed aggressive. Per quest’Autore, il complesso di Edipo è essenzialmente un confronto fra generazioni, una battaglia la cui posta in gioco è l’autonomia, ossia la responsabilità delle proprie scelte e l’autorità che i giovani, se sani, intendono esercitare su sé stessi e non subire.
Per Ogden [13], tutto questo non inizia con l’emergere del complesso di Edipo: la lotta fra l’autorità dei genitori e l’aspirazione all’autonomia dei figli è evidente nell’adolescenza di questi, ma inizia già nella prima infanzia. Ciò non è soltanto in rapporto con i sentimenti edipici, ossia l’amore verso uno dei genitori e la conseguente rivalità verso l’altro: i genitori sono impegnati, già in fase pre-edipica, in una lotta col bambino che inizia a camminare e che vuole testardamente farlo in modo autonomo. Certi genitori vedono, in questa ostinazione del bimbo, un tradimento del tacito accordo che vorrebbe un figlio perennemente dipendente, eternamente adorato e adorante. La rottura di tale “accordo” costituisce un attacco alla volontà di papà e mamma di rimanere eternamente genitori, in una dimensione isolata dal passare del tempo, dal sopraggiungere della vecchiaia, della morte e della successione fra generazioni.
Eppure, che i genitori esercitino la loro autorità è necessario per uno sviluppo sano del bambino, e questo per diversi motivi. Se quello di emanciparsi va riconosciuto come bisogno maturativo, tale non è l’intransigenza narcisistica che porta a volere “tutto e subito, oppure nulla”. Se tale pretesa non viene scoraggiata, il bambino perde di vista la necessità di seguire un percorso per poter raggiungere un qualsiasi obiettivo, e ciò ostacola o arresta la sua evoluzione. Se il piccolo viene lasciato prematuramente libero di camminare da solo, potrebbe cadere e farsi male e ciò potrebbe sopprimere, per un certo periodo, il desiderio di muoversi. Inoltre i figli non hanno bisogno di distruggere l’autorità parentale, ma di appropriarsene per poterla esercitare su sé stessi anziché subirla. Se tale autorità è assente, viene a mancare quell’apporto dei genitori che, interiorizzato, è alla base del senso di responsabilità e della stessa autonomia. Infine, un’autorità genitoriale è necessaria ai figli per fronteggiare quei sentimenti di ribellione che possono tradursi in fantasie di atti ostili verso chi li ha messi al mondo. L’assenza di genitori capaci di farsi valere priva il figlio di “freni” alle fantasie (Winnicott), ossia della certezza che esse non potranno essere tradotte in azioni reali. Se ciò avviene, la fantasia di atti ostili è insopportabile. Nella maggior parte dei casi, il bambino, per difendersi dal pericolo di un effettivo danno inferto ai genitori, rimuove (seppellisce vivi) i suoi desideri aggressivi adottando una posizione aspramente autopunitiva nei confronti di tali sentimenti, e ciò può coinvolgere anche il desiderio d’emanciparsi [13].
Su quest’ultimo punto, a mio avviso, la posizione di Ogden e quella di Loewald divergono. Quest’ultimo sostiene che le fantasie omicide nei confronti dei genitori debbano necessariamente tradursi in qualcosa di reale. Egli fa un’affermazione che distingue la sua teoria da quella dei predecessori: “Se non rifuggiamo da un linguaggio schietto, come figli nel momento dell’emancipazione, sopprimiamo qualcosa di vitale nei genitori; non lo facciamo tutto in un sol colpo e per tutti gli aspetti, ma contribuiamo alla loro morte” [12]. Il complesso di Edipo, già in Freud, non è un evento puramente intrapsichico, ma include una serie di relazioni oggettuali che fanno parte della vita reale. Per Loewald, l’assassinio fantasticato dei genitori è parte del processo che li porta realmente alla morte. Si è tentati di annacquare il “linguaggio schietto” di quest’autore sostenendo che la morte dei genitori è una metafora per descrivere la fine del loro potere sui figli. Tuttavia Loewald insiste nell’affermare che l’esperienza vissuta del complesso di Edipo è parte di un processo emotivo (inseparabile dai processi corporei) tramite il quale gli esseri umani crescono, invecchiano, muoiono. Per quest’Autore, i genitori sani, pur lottando per mantenere la propria autorità finché necessaria, tuttavia accettano, alla fine, d’essere “uccisi” per il timore di mortificare i figli ed impedire loro di divenire autonomi.
È possibile muovere alcune obiezioni a questo discorso di Loewald. Che i genitori debbano invecchiare e morire è sicuramente una realtà di cui è bene che i genitori stessi e i figli siano consapevoli. Le cure parentali non possono durare in eterno; al contrario, è probabile che, da una certa età in poi, siano papà e mamma ad aver bisogno dell’aiuto dei figli, e non viceversa. La realtà della morte, quindi, rende indispensabile che chi è stato messo al mondo cresca e divenga autonomo, ricevendo in questo l’aiuto che gli occorre. Tuttavia, perché la morte dei genitori avvenga è proprio necessario assassinarli? La fine della vita non è forse un fatto ineludibile che prima o poi avverrà, qualunque cosa si si faccia o non si si faccia per provocarla o evitarla? Se sia i genitori, sia i figli sanno prevederla e rassegnarvisi, non è necessario alcun conflitto che si spinga fino a produrre fantasie e desideri omicidi. I figli sapranno vivere questa dolorosa esperienza senza l’angoscia che suscita una perdita che coglie impreparati, ma anche senza sentimenti di trionfo. A loro volta, coloro che li hanno messi al mondo sapranno accettare di passare, nella vecchiaia, da genitori attivi ad “antenati” (Borges, citato da Ogden), ossia esseri presenti prevalentemente in effigie, lontani, non intrusivi, pronti ad intervenire nella vita dei discendenti solo se interpellati nei momenti di bisogno. Ciò non implica una rassegnazione passiva alla vecchiaia e alla morte. Al contrario, cedere il proprio posto alle nuove generazioni può essere motivo d’orgoglio per il “buon lavoro” fatto per crescerle e per quello che si è destinati a fare come “antenati”.
Che parricidio e matricidio non siano una necessaria premessa all’emancipazione si collega a quanto sostiene Kohut, in contrasto con la posizione di Loewald, a proposito del complesso di Edipo [9]. Pur riconoscendo l’enorme diffusione di tale costellazione psichica, Kohut nega che si tratti di una realtà universale e necessaria. Nega, soprattutto, che l’emergere dei desideri incestuosi e parri/matricidi edipici debba costituire la tappa obbligata di un’evoluzione sana. Se il bambino gode in misura sufficiente dell’affetto e della comprensione empatica dei genitori, il suo rapporto di tenerezza con loro non viene compromesso. Tenderà a provare attrazione per uno di loro (generalmente quello di sesso opposto al suo) e rivalità nei confronti dell’altro. Questi sentimenti possono avere sfumature sessuali e aggressive; tuttavia, se il bambino è sano (e sane le sue relazioni familiari), non arriverà mai a nutrire, neppure a livello inconscio, veri e propri desideri incestuosi e parri/matricidi. È vero quanto sostiene Loewald (e questo Kohut non potrebbe negarlo) che quel che vuole il bambino è, più che altro, emanciparsi e che la fantasticata morte dei genitori rappresenta un “danno collaterale” della sua impresa. Tuttavia, anche nelle guerre, se i “danni collaterali” (l’uccisione di civili innocenti, estranei all’obiettivo dell’azione militare) sono talora inevitabili, questo non è un buon motivo per rinunciare ad evitarli.
Se escludiamo l’assassinio dei genitori, da parte dei figli, quale mezzo per acquisire identità separata e autonomia, in che altro modo avviene l’emancipazione? Kohut parla, a questo proposito, di soddisfacimento ma anche di “frustrazione ottimale” dei bisogni narcisistici fondamentali. Il soddisfacimento consiste nella conferma e nell’incoraggiamento delle sane ambizioni del figlio, in esperienze che alimentino l’orgoglio per le sue particolari attitudini, nella possibilità di sentirsi partecipe delle qualità idealizzate dei genitori. Ciò è necessario affinché si formi e si consolidi il “Sé nucleare”, centro della vita interiore di ogni individuo, base della sicurezza di sé e del “progetto nucleare” che rappresenterà il contenuto e il senso della sua vita. Per promuovere la “interiorizzazione trasmutante” dell’aiuto dei genitori ed incoraggiare la ricerca d’autonomia sono, viceversa, necessarie le frustrazioni di questi stessi bisogni; frustrazioni definite “ottimali” se commisurate a quanto il bambino può tollerare nella fase di evoluzione in cui si trova, e temperate dalla comprensione empatica materna e paterna.
L’incapacità di tollerare le contrarietà nel rapporto di coppia è erede delle frustrazioni brutali (l’opposto di quelle “ottimali”) subite nell’infanzia. La rabbia e l’angoscia che esse suscitano spingono a due comportamenti di segno opposto, entrambi caratterizzati da violenza. Tali comportamenti si ripresenteranno nei rapporti adulti. Uno di essi è la fuga, come nel caso di Giasone. Egli fu strappato, nella prima infanzia, ai genitori naturali. Di questi egli non parla mai, sembra averli cacciati completamente dalla mente. Dobbiamo supporre che il suo rifiuto di chi l’aveva messo al mondo fu altrettanto violento quanto fu brutale l’abbandono da lui subito. La fuga, per Giasone, fu possibile perché egli trovò prontamente un’alternativa ai genitori: le cure attente ed affettuose di Chirone. L’esperienza antica di oggetti d’amore cui dovette brutalmente rinunciare, e che lo trovò incapace di controllare, rimase in un angolo remoto del suo mondo interno. Egli la ritrova con Medea, di fronte alla cui fragilità si sente impotente come allora; e come allora, sopprime interiormente la persona che non può più amare, e si rifugia fra le braccia di Glauce.
Il secondo modo di reagire a frustrazioni intollerabili in età precoce è la “identificazione con l’aggressore”. Nel mondo interno di queste persone si può essere soltanto carnefici oppure vittime: non c’è altra possibilità; e, fra le due opzioni, scelgono l’unica compatibile con la loro sopravvivenza: quella di chi il male lo fa, e non lo subisce. Espellono la vittima che c’è in loro, e la proiettano su coloro che essi stessi aggrediscono. Nel caso di Medea, l’oggetto dell’identificazione è la madre arcaica: una figura genitoriale possessiva e onnipotente (quale ciascuno di noi ha vissuto la propria genitrice nella primissima infanzia), capace tanto di offrire, a chi le appartiene, un magico ritorno al paradiso perduto delle origini della vita, quanto di sopprimere chi le sfugge. È probabile che Medea, dotata di un innato e vigoroso impulso (“urge”) all’emancipazione, abbia subito, nell’infanzia le minacce di figure genitoriali di questo genere, potenzialmente infanticide. Nell’impossibilità di sfuggirle, si è identificata con loro. L’inattuabilità di una fuga è una caratteristica che accomuna le famiglie particolarmente potenti (quali possono essere quelle regali), in cui l’individuo può trovare un suo valore soltanto al loro interno e, se ne esce, diviene un “nulla”. Fu l’intera famiglia di Medea (che si riteneva, oltre che regale, anche discendente dagli Dei) a costituire, per lei, l’equivalente di una madre arcaica. Ecco perché il riprendere contatto con le antiche identificazioni rappresenta per lei l’estrema risorsa di fronte ad un abbandono mortificante e intollerabile: ora è lei che annienta chi le sfugge, e non subisce, impotente, questa sorte.
Merito notevole di Pasolini è l’aver saputo cogliere gli elementi profondi di fragilità e sofferenza in personaggi tradizionalmente descritti, ora possiamo dirlo, in modo superficiale: Giasone come uomo volubile e opportunista che abbandona moglie e figli per soddisfare le sue ambizioni; Medea come figura vendicativa, diabolica ed invincibile. È soprattutto in questo che il grande regista e scrittore offre i suggerimenti più preziosi per noi curanti. Alla luce della sua versione dei fatti, possiamo vedere l’infanticidio commesso da Medea come tragedia già preannunciata dalla storia e dalla personalità dei due coniugi. Pasolini, quindi, ci permette di cogliere in essi, al di là delle apparenze, gli elementi premonitori di quel che può accadere; elementi trattando i quali possiamo prevenire fatti orribili come l’infanticidio e l’uxoricidio. Abbiamo a che fare con personalità immature, incapaci di affrontare le separazioni ed emanciparsi; personalità che non possono essere oggetto di giudizi morali perché fissate o regredite a stadi di sviluppo pre-morali; personalità fragili che, prima che si verifichi la tragedia, possono attraversare momenti di crisi. Questi rappresentano, per i curanti, occasioni propizie per intervenire. Pasolini c’insegna soprattutto come un giudizio moralistico (inevitabilmente superficiale) ci accechi, c’impedisca di comprendere queste realtà umane, ci renda impossibile curarle.
Bibliografia
1. Bécache Simone (1982) Médée (Revue Française de Psychanalyse Vol. 46, n° 4, pag. 773)
2. Euripide (431 A.C.) Medea (in: Euripide Le Tragedie – Einaudi 2002)
3. Eliot T. S. (1925) The hollow men (Opere [a cura di R. Sanesi], pp.658-9 – Bompiani 1992)
4. Freud Sigmund (1912) Totem e tabù (O.S.F. Vol. 7 – Boringhieri 1975)
5. Freud Sigmund (1915) Lutto e melanconia (O.S.F. Vol. 8 – Boringhieri 1976)
6. Freud Sigmund (1922) L’Io e l’Es (O.S.F. Vol. 9 – Boringhieri 1977)
7. Freud Sigmund (1924) Il tramonto del complesso edipico (O.S.F. Vol. 10 – Boringhieri 1978)
8. Kohut Heinz (1972) Thoughts on narcissism and narcissistic rage (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1950 – 1978 Vol. 2 – International Universities Press 1978)
9. Kohut Heinz (1984) La cura psicoanalitica (Boringhieri 1986)
10. Leclaire Serge (1975) On tue un enfant (Seuil)
11. Lévi-Strauss Claude (1957) La structure des mythes (Cap. XI di Anthropologie structurale – Paris, Plou)
12. Loewald Hans (1979) The waning of the Oedipus complex (in: Papers on Psychoanalysis – Yale Univ. Press 1980)
13. Ogden Thomas H. (2006) Reading Loewald: Oedipus reconceived (Int. J. Psychoanal. Vol. 87, N° 3, pag. 651)
14. Pasolini Pier Paolo (1969) Film : Medea
15. Shengold Leonard (1999) Soul murder revisited. Thoughts about therapy, hate, love, and memory (Yale University Press)
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