Dialogo tra Sarantis Thanopulos e Monica Ferrando
Sarantis Thanopulos: “Cara Monica, mi è capitato di re-imbattermi, leggendo un libro, nella figura di Giovanni Morelli, il medico italiano che nell’ottocento ha inventato un metodo per distinguere un dipinto autentico da un falso. Da Morelli in poi la distinzione tra vero e falso nell’arte è affidata alla prova scientifica oggettiva, come la nostra identità personale è affidata alle impronte digitali. E, tuttavia, come dalle impronte non si può risalire ai sentimenti, ai gesti e ai pensieri che esprimono il nostro modo di essere, così anche dall’autenticazione scientifica di un quadro non si può risalire al gesto che l’ha creato.
Perché fino a quando la prova oggettiva non smentisce un’attribuzione, ammiriamo un falso come se fosse un’opera autentica, pubblico “ingenuo”o conoscitori “esperti” che siamo? Si sa poi che le opere restaurate pongono il problema serio dell’alterazione più o meno significativa del contenuto iniziale. Chi può dire come era davvero la volta della Cappella Sistina all’epoca in cui la dipinse Michelangelo? Ogni opera d’arte è costantemente “ritrascritta” dalle epoche successive che, insieme al logorio del tempo, le alterano la forma e la percezione e ne confermano la “canonizzazione”, il suo essere costituita come norma estetica, oppure la confinano in modo transitorio o permanente ai depositi museali.
Le ritrascrizioni canonizzanti occludono il gesto che ha forgiato il lavoro artistico, arrestano la sua persistenza nel tempo, il suo restare incompiuto e in movimento proprio quando si compie. Impediscono che la visuale del dopo continui a essere destabilizzata dallo sguardo di prima, tolgono l’opera dal suo essere per eccellenza inattuale e la rendono immobile. Non ti sembra che la prova oggettiva, un’esame del DNA, che identifica un quadro come “figlio” di un artista, non è al servizio della verità, ma piuttosto della costruzione narcisistica di oggetti consolatori collettivi?”
Monica Ferrando: “Già, come gli esseri umani così anche le opere sono oggetto di un processo di valorizzazione che ha la certificazione del nome al suo centro. Se spesso è il nome e non le qualità nascoste di una persona a sedurre, così è il nome ad attirare l’attenzione su un’opera inducendone un apprezzamento acritico ma socialmente certificato. Questo non vale per le opere del passato, che hanno avuto un vaglio imparziale e imbattibile: il tempo. Qui non è certo il nome a fare l’opera, bensì il contrario: Apelle era famoso per l’eccellenza dei suoi dipinti; al Laocoonte non occorre un autore per piacere; Vermeer, sconosciuto, fu scoperto nell’800 grazie al gusto di Thoré-Burger. E non vale per le collezioni, dovute non alla ricchezza bensì al gusto, come aveva mostrato Cassiano Dal Pozzo. Smarriti i criteri imponderabili del gusto, capaci di conferire autorità al giudizio estetico, si sopperisce con il criterio para-scientifico della storicizzazione precoce, che si sostituisce al tempo conferendo ai nomi una rilevanza che esso non ha loro ancora accordato. Invece di rischiare affidandosi al tempo, gli si comanda. Eredi delle grandi collezioni, i musei raccolgono la storicità del tempo. Quando il direttore di un museo decide di sottrarre alla vista opere qui tradizionalmente raccolte in nome di un presunto mutamento del gusto collettivo a cui si adegua, esercita un arbitrio indebito non solo sul valore estetico delle opere; sulla libertà estetica dei visitatori; sulla funzione estetica dell’istituzione; ma sul tempo! Ora, per esempio, alla GNAM di Roma la grande pittura italiana di paesaggio dell’800, dai fratelli Palizzi alla scuola di Piagentina, tradizionalmente esposta, non è più visibile per far posto al contemporaneo: si è ritenuto di poter scegliere tra due cànoni, quello consolidato dal tempo e quello che, nonostante una storicizzazione indefessa, ancora non lo è.”
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