L’isola bedda, anzi beddissima, la ritrovo nelle pagine di Antonino Buono, “Emozioni, ricordi e riflessioni” (Moretti&Vitali, in libreria dal 26 novembre), pagine che narrano del vissuto umano di uno psichiatra ma, di più, di un uomo legato alle sue radici. Un giovane che dall’isola si allontana per studiare a Bologna, per lavorare a Roma, ma che all’isola fa ritorno, prima qualche volta, poi per sempre. Quando Giuseppe Tornatore, nel 1988, estrasse dalla sua straordinaria fantasia, quel capolavoro assoluto di Nuovo Cinema Paradiso, non conoscevo Buono. Da quando lo conobbi, nel 1994, ho sempre immaginato, per associazione, che fosse lui il Salvatore, il Totò del film, che parte dalla stazione di Giancaldo spinto dalle parole di Alfredo: «Vattinni, chista è terra maligna! Fino a quando ci sei, tutti i giorni ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno, due, e quanno torni è cambiato tutto: si rompe il filo. Non trovi chi volevi trovare, le tue cose non ci sono più».
Totò tornò, dopo tanti anni, per il funerale di Alfredo, per amare Elena, la donna che solo il destino (e Alfredo) gli avevano negato. Anche Antonino è tornato o, forse, come Totò, non se n’è mai andato, perché puoi andare in capo al mondo, raggiungere le vette più alte, ma non riuscirai mai a scrollarti dall’anima i luoghi dell’infanzia, la terra che ti ha visto nascere, i sogni che animarono la tua gioventù, il primo bacio. E si soffre e si ritorna, magari dopo trent’anni, sempre con la febbre addosso, la febbre dei ricordi, i ricordi che illuminano e danno sapore a questo libro, le tante storie, i tanti volti, i tanti incontri di ieri e di poco tempo fa che fanno della vita la Vita, che la incendiano, le danno forza, vigore, intensità.
Se un uomo non è separabile dalla sua terra, uno psichiatra non è separabile dai suoi pazienti. Li nutre e si nutre con loro. Non si è riflettuto mai abbastanza sullo sguardo, sugli occhi, sulla condotta umana di uno psichiatra, che non è Dio, che non è onnipotente, che è grande se sa di non esserlo, se sa che non è possibile esserlo. Il limite dell’esistenza lo divora, ci divora. La donna del mare, il mare di Sicilia, una delle pagine più affascinanti del libro, narra di occhi, di sguardi, di mistero, di non detto. Le storie misurano l’antico sentimento di un contatto, di una relazione, di un inestricabile intreccio.
Zà Francesca, zà Carmela, la visione di zù Giuvanni, il bestemmiatore e il frate, il monaco e il fratello di Sarvaturi, zù Sebastianu e le scarpe nuove, zà Nunziata, zà Rosa e il pendolo, dicono di un mondo che non c’è senza smettere di esserci. Il bambino Antonino è diventano uomo, dentro e fuori da quella terra, è impastato di quella terra, una terra che, per quanto maligna, ha saputo dare buoni frutti. Quei frutti oggi ci vengono restituiti. Perle di saggezza per continuare a meditare sul mondo che è stato, sul mondo che è, sul mondo che sarà, poiché uno è il mondo mentre gli uomini annaspano e si affaticano alla ricerca di un senso, di un sorriso perduto, di un’occasione non colta. La parola reca in sé il potere della cura. È possibile ammalarsi, anche di nostalgia, per il gusto di guarire. Un paese ci vuole, ha scritto Pavese, non fosse che per il gusto di andarsene via. Anche quando, in fondo, via non sei mai andato.
Totò tornò, dopo tanti anni, per il funerale di Alfredo, per amare Elena, la donna che solo il destino (e Alfredo) gli avevano negato. Anche Antonino è tornato o, forse, come Totò, non se n’è mai andato, perché puoi andare in capo al mondo, raggiungere le vette più alte, ma non riuscirai mai a scrollarti dall’anima i luoghi dell’infanzia, la terra che ti ha visto nascere, i sogni che animarono la tua gioventù, il primo bacio. E si soffre e si ritorna, magari dopo trent’anni, sempre con la febbre addosso, la febbre dei ricordi, i ricordi che illuminano e danno sapore a questo libro, le tante storie, i tanti volti, i tanti incontri di ieri e di poco tempo fa che fanno della vita la Vita, che la incendiano, le danno forza, vigore, intensità.
Se un uomo non è separabile dalla sua terra, uno psichiatra non è separabile dai suoi pazienti. Li nutre e si nutre con loro. Non si è riflettuto mai abbastanza sullo sguardo, sugli occhi, sulla condotta umana di uno psichiatra, che non è Dio, che non è onnipotente, che è grande se sa di non esserlo, se sa che non è possibile esserlo. Il limite dell’esistenza lo divora, ci divora. La donna del mare, il mare di Sicilia, una delle pagine più affascinanti del libro, narra di occhi, di sguardi, di mistero, di non detto. Le storie misurano l’antico sentimento di un contatto, di una relazione, di un inestricabile intreccio.
Zà Francesca, zà Carmela, la visione di zù Giuvanni, il bestemmiatore e il frate, il monaco e il fratello di Sarvaturi, zù Sebastianu e le scarpe nuove, zà Nunziata, zà Rosa e il pendolo, dicono di un mondo che non c’è senza smettere di esserci. Il bambino Antonino è diventano uomo, dentro e fuori da quella terra, è impastato di quella terra, una terra che, per quanto maligna, ha saputo dare buoni frutti. Quei frutti oggi ci vengono restituiti. Perle di saggezza per continuare a meditare sul mondo che è stato, sul mondo che è, sul mondo che sarà, poiché uno è il mondo mentre gli uomini annaspano e si affaticano alla ricerca di un senso, di un sorriso perduto, di un’occasione non colta. La parola reca in sé il potere della cura. È possibile ammalarsi, anche di nostalgia, per il gusto di guarire. Un paese ci vuole, ha scritto Pavese, non fosse che per il gusto di andarsene via. Anche quando, in fondo, via non sei mai andato.
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